REQUIEM

Vi proponiamo un'intensa riflessione sul profondo e luminoso significato del "Requiem".


Non sono un teologo e nemmeno un latinista, ma solo un ex chierichetto che tanti anni fa serviva messa in latino, suonava la campanella nelle varie fasi della Consacrazione, spostava il messale sull’Altare e, quando c’era il Vescovo, era obbligo l’uso della bugia. Il turibolo con l’incenso veniva usato non solo per i defunti, come pure  i canti liturgici accompagnavano sempre le varie fasi della celebrazione. La cosiddetta “Messa cantata” era solo in precise e determinate circostanze, lunga appunto come “una Messa Cantata”, ma sempre bella e coinvolgente.

Non ce l’ho nemmeno con l’Italiano, anzi, ne sono talmente innamorato che non sopporto l’inglesizzazione a tutti i costi e di tutto quello che ci passa per la mente, sino a leggere in una email a me indirizzata, che una certa persona mi avrebbe “forwardato” un suo parere al più presto; le ho risposto io che poteva “forwardare” sua nonna!

Fatta questa doverosa premessa, è da tempo che penso alla nostra preghiere del Requiem e della traduzione che ne è stata fatta in italiano, che credo non ne dia il vero significato.

Partiamo, appunto, dall’inizio: “Requiem aeternam” che viene tradotto in “Eterno riposo” dandone un significato di totale ed eterno abbandono, quasi di assoluto immobilismo.

L’immagine è dell’ eterna la staticità dell’inattività, quasi immaginando il corpo disteso nel sonno perenne senza alcuna altra possibilità se non il ”riposare” perenne, assoluto ed amorfo.

Qualsiasi vocabolario traduce riposo con le espressioni  queis- quietis o feriae - feriarum, mai requiem.

Ma l’invocazione in questa preghiera è indirizzata alla serenità (requiem) dello spirito in eterno e possa essere l’anima libera dalle tribolazioni della vita, dalle preoccupazioni del nostro quotidiano e dalle passioni che hanno condizionato il nostro vivere.

Così la prima parte della preghiera, credo, voglia invocare “o Signore, dona a loro (a lui) la serenità infinita e per sempre” e non il riposo passivo e privo di speranza.

“Et lux perpetua luceat eis” è l’altra parte che certamente è stata ispirata all’Autore direttamente dal Divino.

Analizziamo assieme i termini: “lux” indubbiamente luce che “luceat eis” che “splenda ad essi” viene tradotto, ma credo che identifichi qualche cosa di più.

Non è una luce qualsiasi, una luce di una lampada o del sole o da quant’altro, pure perenne; è la Luce Divina che si invoca e che vorremmo che invadesse l’anima del defunto.

Nel Paradiso Dante scrive il famoso verso: ”de’ Serafin colui che più s’india” (Par. Canto IV). Ecco il Poeta ha identificato con un semplice verbo il vero significato dell’invocazione “lux perpetua luceat eis”: che l’anima sia elevata a Dio e sia partecipe della propria Luce sino a penetrarsi in Dio; “indiarsi” per usare il neologismo dantesco, cioè essere all’interno di Dio, ovvero Dio stesso.

Quindi che La luce di Dio divenga anche con loro (lui) una unica Luce.

Così la preghiera assume questa nuova dimensione e termina invocando che la pace della beatitudine sia eterna in Dio.

E’ unicamente una mia interpretazione che non ha alcuna importanza, ma è la spiegazione del perché il “Requiem” sia per me, una bellissima preghiera che, quando la recito, mi piace pensare  che i miei cari non dormano l’eterno riposo, ma siano sereni nella beatitudine di Dio.


Viva il Re!

Forlì, 26 Gennaio 2017


Alberto URIZIO v. KOVERECH


Foto di copertina: "Le anime del I Cielo del Paradiso" (illustrazione di Gustav Doré)