VISITARE L'ITALIA, PAESE D'EUROPA E DEL MONDO

Oggi, forzati dalla Covid-19, dal timore di contagi, da normative stressanti e dal dubbio di finire ingabbiati in quarantene improvvise inflitte come pugnalate alle spalle e dalla durata imprevedibile, tanti italiani che per decenni le avevano anteposto lidi remoti raggiunti con viaggi faticosi e infine deludenti (stessa spiaggia, stesso mare, stessi massaggi...), ripetono con Vincenzo Monti: “Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder./ Trema in petto e si confonde/ l'alma oppressa dal piacer”. Riscopriamo la Grande Italia nell'ottica della Grande Europa.


VISITARE L'ITALIA, PAESE D'EUROPA E DEL MONDO


di Aldo A. Mola


Piccoli borghi, vasti orizzonti

Bella, eh, l'Italia! Sono milioni di persone, più italiani che stranieri, a ri-scoprirla quest'anno. E' anche un omaggio, forse non per tutti consapevole, al centenario dell'istituzione dell'Ente Nazionale per l'Incremento delle Industrie Turistiche, poi ENIT. Il turismo di ampio raggio non è un'invenzione dell'altro ieri, meno ancora del “regime” e del Dopolavoro fascista. La sua organizzazione da parte dei pubblici poteri vanta un secolo tondo tondo. Nacque, come vedremo, all'indomani della spaventosa carneficina della Grande Guerra e mentre ancora incombeva  sull'orizzonte la “febbre spagnola”.

Alla nascita il Turismo promosso dallo Stato mirò a conciliare diffusione e riservatezza. La balneazione alternava ampie spiagge e calette; l'ascesa alle vette faceva tappa nei rifugi già frequentati dalla Regina Margherita. A ognuno per il gusto suo. Era l'Italia di Sidney Sonnino, il misantropo ministro degli Esteri che studiava Dante Alighieri nel solitario Romito spazzato dai venti. Ed era quella di Vittorio Emanuele III che a Roma viveva appartato a Villa Savoia e al Quirinale si recava come si va in ufficio: per esaminare e firmare”carte” e per “incontri di lavoro”, magari con capi di stato e di partiti; ma poi si rifugiava a San Rossore e amava la quiete assoluta della spiaggia di Gombo e dell' isola di Montecristo.  

Già all'epoca andavano di gran moda i borghi selvaggi e solatii. Dalle scuole elementari gli italiani avevano appreso ad amarli da “L'ora di Barga” di Giovanni Pascoli, inno alla solitudine, all'abbraccio con i ricordi, con la natura, spingendo lontano la Grande Visitatrice. Quella era l'Italia dei “buoni sentimenti” che negli Anni Settanta-Ottanta del secolo scorso furono sguaiatamente irrisi da chi li liquidò come sfizio borghese. Eppure da lì, se mai ce la farà, potrebbe ripartire l'Italia di domani. L'alternativa sono i Decreti di Sua Emergenza le Ordinanze regionali e comunali imperversanti da ormai sette mesi sulla vita quotidiana con pretese assurde, come, per esempio, annotare e ricordare chi si incontra in patria e all'estero, per lavoro o in vacanza. Vorrebbe dire che se uno va al bar o in un grande magazzino dovrebbe non solo dichiarare la propria identità ma anche chiederla a chi trova alla cassa o “alla barra”.

Le norme demenziali imperversanti sono come quelle dei secoli andati: condannate a essere eluse.

Ora per qualche giorno gli italiani (che si lavano le mani, non salivano a destra e a manca, si bendano il necessario e tengono le debite distanze dal prossimo, dimentichi ope legis della parabola del buon samaritano...) possono immergersi nel loro gozzaniano piccolo mondo antico: la miriade di borgate, villaggi, rive di fiumi e torrenti miracolosamente scampati al miope sfruttamento da parte di chi prima o poi dovrà pur fare i conti con la propria ingordigia, perché il contagio peggiore non è quello del virus ma quello della stupidità e della mancanza di preveggenza, di “scienza della politica”. Da sempre gli italiani avevano sotto gli occhi il proprio Paese, ma forse la sua immagine era offuscata dalla fretta quotidiana, sbiadita nei ricordi di un'infanzia cancellata nella corsa collettiva a un futuro senza meta, il cosiddetto “progresso”. Il cui drammatico limite è l'opposto di quanto si creda: non è progressista perché non ha basi scientifiche, perché è frutto di improvvisazione, di una concezione della vita e del mondo “mordi e fuggi”, anziché di progettazione, di “piani”. O addirittura è frutto di decisioni prese “in coscienza”: la “giustificazione” più fatua che si possa accampare, perché ciascuno ha la sua. L'aveva anche Gengis Khan.

Ma oggi, dunque, forzati dalla Covid-19, dal timore di contagi, da normative stressanti e dal dubbio di finire ingabbiati in quarantene improvvise inflitte come pugnalate alle spalle e dalla durata imprevedibile, tanti italiani che per decenni le avevano anteposto lidi remoti raggiunti con viaggi faticosi e infine deludenti (stessa spiaggia, stesso mare, stessi massaggi...), ripetono con Vincenzo Monti: “Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder./ Trema in petto e si confonde/ l'alma oppressa dal piacer”. “Gran traduttor dei traduttor d'Omero” (come lo bollò malignamente Ugo Foscolo), il politicamente versipelle Monti (pontificio, liberaloide, francofilo, poi allineato con il ritorno di Astrea, cioè del dominio asburgico sul lombardo-veneto) rientrava in Italia al seguito di Napoleone Bonaparte da un breve esilio a Parigi. La sua “contemplazione dell'Italia” andava comunque al di là delle ideologie. I “letterati” sono così, come tardivamente si ammette di Cesare Pavese, a cui opportunistica iscrizione al Partito nazionale fascista venne documentata vent'anni addietro nel saggio “Saluzzo, un'antica capitale” (Ed. Newton Comton). La “dottrina Monti” sull'impareggiabile bellezza dell'Italia fu condivisa da Alessandro Manzoni, che nei “Promessi sposi”, cesellò cammei raffinatissimi (come “Addio monti, cime ineguali...”), poi “mandati a memoria” da generazioni di studenti; e da Giacomo Leopardi, che blindò le sue emozioni nella corazza di versi glaciali, come “Vaghe stelle dell'Orsa...”, esempio per il saggio che non si concede il lusso di “sentimenti” perché sa che “sunt lacrimae rerum”.


Avessimo avuti tanti don Stoppani

A codificare l'Italia fu don Antonio Stoppani (Lecco, 1824-Milano,1891), partecipe da seminarista alle Cinque Giornate di Milano, ammiratore di Manzoni e del teologo Vincenzo Gioberti, autore di opere su paleontologia e glaciologia di fama europea. Tra i fondatori dell'Istituto geologico del regno, don Stoppani concorse alla redazione della carta geologica dell'Italia, importante anche per la vulcanologia e lo studio dei terremoti. Primo presidente del Club Alpino Italiano, promosso da Quintino Sella, a sua volta dal multiforme ingegno, nel 1875 pubblicò Il Bel Paese, dalla fortuna subito immensa: raccomandato a per chi non lo conosca e a chi lo ha gustato e ci si ritrova.  Lasciate tra parentesi le dispute pro e contro il potere temporale dei papi, le gare tra i partiti dell'epoca (clan regionali e clientele di maggiorenti parlamentari), don Stoppani cantò le bellezze dell'Italia, ne esaltò il Creatore e incitò ad averne cura. Ognuno doveva fare la propria parte quando la rete ferroviaria era appena albeggiante rispetto a quella dei Paesi molto più industrializzati e i viaggi si facevano su birocci, a cavallo o pedibus calcantibus. All'epoca, quando dovevano percorrere sentieri pietrosi, per non consumare le suole dell'unico paio di scarpe della vita, tanti le mettevano in spalle e procedevano scalzi. in uso, tanti se le levavano. Il costume durò ancora sino a questo dopoguerra. Lo faceva da chierico un sacerdote di grande erudizione come don Ettore Dao, quando saliva dalla pianura alla sua inattingibile Elva, costeggiandone l' “orrido” e attraversandone le buie gallerie scavate nella roccia. 

Ai tempi di don Stoppani l'Italia contava quasi trentamila parroci e circa centomila “religiosi”. Se avesse contato due-tremila don Stoppani, “a viso aperto e sorridente” come lui, avrebbe fatto un balzo in avanti di cent'anni. Non avrebbe avuto alcun bisogno del Sessantotto per capire che una cosa sono i costumi, un'altra le “credenze” e un terza è la “fede”; e che le virtù non si misurano dai centimetri dei pantaloni e delle gonne. Abitano “in interiore hominis” (e anche foeminae, per non far torto ai due sessi un tempo ammessi).


L'Italia delle cento città e dei castelli misteriosi come “Val Casotto”

Quella era l'Italia delle cento città descritta provincia per provincia, un circondario dopo l'altro, comune per comune da Gustavo Strafforello (Porto Maurizo, 1820-1903), poligrafo, traduttore del famoso Self-Help  di Samuel Siles col fortunato titolo “Chi si aiuta, il Ciel lo aiuta”, manuale psico-sociale in un'epoca che vide trionfare la scuola e le forze armate quali ascensori sociali, sull'esempio di quanto nei secoli aveva fatto la Chiesa cattolica al cui vertice si susseguirono non solo esponenti di grandi famiglie ma anche popolani come i santi Celestino V e Pio V, nato a Bosco Marengo.

La Patria descritta da Strafforello in dispense da 60 centesimi l'una fece conoscere geografia, attualità economica e imprenditoriale, storia e paesaggi, con tanto di carte geo-storiche, piante topografiche, ritratti dei personaggi famosi, monumenti e vedute di ogni terra d'Italia. Un vero e proprio capolavoro che divulgò la conoscenza del Bel Paese e implicitamente invitò a esplorarlo “de visu” dopo averlo conosciuto per scritto e da nitide incisioni (o magari sfogliando le sontuose pagine dell' “Illustrazione Italiana”). 

L'Italia era uno Stato politicamente giovane. Roma fu annessa quel 20 settembre 1870 il cui 150° nel 2020 passerà sotto silenzio nel peggiore dei modi, tra lizze e bizze elettorali e l'inizio di un anno scolastico tutto in salita: carenza di aule, di attrezzature e di collegamenti internet decenti per conferire decoro alla fabulosa “didattica a distanza”, improponibile in terre prive non solo di banda larga ma addirittura di copertura da parte di qualsivoglia rete perché il territorio “non rende”.

Con plaghe (e piaghe) di arretratezza e sottosviluppo documentate dai censimenti decennali, l'Italia  era costretta a fare spesso il passo più lungo della gamba. Andò alla conquista di un lembo di Mar Rosso e della remotissima Somalia (tentò persino di installarsi nella Nuova Guinea) e mirò a imporsi sull'impero d'Etiopia quando milioni di suoi abitanti migravano all'estero in cerca di lavoro: prima i liguri e i piemontesi, poi dal Mezzogiorno... La colonizzazione interna” consigliata a Francesco Crispi dal suo fraterno sodale Adriano Lemmi rimaneva un miraggio.

A insegnare le vie d'Italia erano poeti come Giosue Carducci, che, già docente all'Università di Bologna, per visitarla si faceva nominare commissario a esami di maturità e vagava dall'una all'altra regione, con pochi quattrini (glieli centellinava la scorbutica moglie) e con sommari di storia e  fungere geografia, dai quali traeva alimento per famosissime odi come “Piemonte” e “Cadore”.

Dopo l'infame assassinio di Umberto I a Monza il 29 luglio 1900 (il suo 120° è passato nell'indifferenza dei “media”) iniziò il decollo delle associazioni per la promozione della coscienza nazionale. Nel 1894 a Milano, città sempre all'avanguardia, era stato fondato il Touring Club Italiano, seguito da Regio Automobil Club Italiano (RACI) e via via il Moto Club d'Italia, l'Aereo Club d'Italia, la Lega Navale Italiana.... Come già il CAI, anche i nuovi sodalizi ebbero nomi anglicizzanti. L'Italia della Belle Epoque, orgogliosa della propria identità, che affondava radici in millenni di civiltà latina, era europea. Anziché “Società” o “Associazione” non temeva di utilizzare l'inglese Club, così come denominava meetings gli incontri politici, che non dovevano degenerare in “piazzate” di facinorosi, esibizione di minoranze rumorose ma fungere da confronto tra opinioni , affermazione di principi tanto più convincenti se proposti in forma “civile” (che viene da civis , non da plebs...).    

La svolta decisiva per la riscoperta dell'Italia da parte dei suoi cittadini venne all'indomani della Grande Guerra, come documenta Ester Capuzzo in“Italiani. Visitate l'Italia. Politiche e dinamiche turistiche in Italia tra le due guerre mondiali”(ed. Luni), opera di vasto respiro, apprezzata da molti giurati del Premio Acqui Storia 2020. E non per caso. Infatti essa è uscita nel centenario della fondazione dell'Ente Nazionale per l'Incremento delle Industrie Turistiche, l'ENIT. Fondato su ampia ricerca archivistica e sulla scia degli eccellenti saggi di Annunziata Berrino, Eliana Perotti e Stefano Pivato, il corposo volume ha il pregio di non marchiare come “fascista” quanto avvenne tra le due guerre, come purtroppo invece fanno quanti ritengono che fra il 1922 e il 1943 l'Italia fu oppressa e compressa da un regime totalmente feroce e ottuso. La realtà è molto diversa. La promozione del turismo “di massa” in Italia, indubbiamente favorito e potenziato dal caleidoscopico “fascismo”,  prese piede sull'esempio di quanto avveniva all'estero, sia in Stati retti da democrazie parlamentari quali Francia e Gran Bretagna sia nella Spagna di Alfonso XIII di Borbone, che prese a modello l'Italia di Vittorio Emanuele III, il re tuttora da studiare e da capire.

Da storica provetta, Capuzzo documenta che il governo di Mussolini mise a buon frutto l'opera avviata da Luigi Luzzatti, dal già ricordato Giolitti e soprattutto dal poliedrico Maggiorino Ferraris, deputato, senatore, proprietario della “Nuova Antologia”. Conterraneo di Giuseppe Saracco (non citato nel libro), promotore del lancio delle Terme della sua nativa “Bollente”, dal 1902 Ferraris varò l'Associazione per il movimento dei forestieri corroborata da politici come Luigi Rava e Pietro Lanza di Scalea aperti alla libera circolazione di uomini e di idee. Negli stessi anni Orazio Raimondo, nipote del presidente della Camera Giuseppe Biancheri, socialista, massone e sindaco di Sanremo gettò le basi delle fortune dell'estremo Potente ligure, come narrato da Marzia Taruffi in “Uno cento mille Casinò di Sanremo. 1905-201” (ed. De Ferrari).

Il bel volume di Capuzzo ci ricorda anche il ruolo strategico degli Enti Provinciali per il Turismo, promossi da Fulvio Suvich, già affiliato alla loggia “Propaganda massonica”. Per buona sorte gli EPT non vennero smantellati dopo il crollo del regime. Come altri enti parastatali (quali l'Inps) essi funsero anzi da volano della Ricostruzione. Talvolta gli EPT pubblicarono riviste di invidiabile pregio, come “Cuneo, Provincia Granda” pensata e diretta dal mite Gino Giordanengo (“Neng”), ragioniere “di una volta”, poeta e pittore. Da quegli Enti nacquero poi le ATL, tanto più capaci e meritevoli quanto più radicate nella coscienza del passato.  

Oggi dunque ri-scopriamo la Grande Italia. Ma va fatto nell'ottica della Grande Europa e in una visione planetaria dei problemi nostrani, senza chiusure ottuse, lontani dalla tragica tentazione di gareggiare a chi instaura più divieti, più obblighi, più controlli sanitari con “strumenti” di dubbia valenza. Il protezionismo non paga mai, neppure quando si traveste da tutela della salute.         

Certo questa estate è propizia per fare un passo avanti nella conoscenza della storia. E' quanto propone il rituale Concerto di Ferragosto dell'orchestra cuneese “Bartolomeo Bruni” al Castello di Val Casotto: un vero gioiello, proposto che all'attenzione nazionale con i suoi fasti architettonici e i suoi misteri, intreccio degli occulti legami tra Italia e Francia: grumo di Casa Savoia, parte integrante d'Europa. E' anche invito a deporre i polverosi calzari e ad accostarsi alla Memoria. Non lontano da lì sin dal dicembre 2017, nella quiete della Basilica di Vicoforte, riposano spoglie di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. In quel lembo di Vecchio Piemonte, in pochi chilometri, vi è la sintesi della grande storia. Tutta da esplorare e da gustare, nel silenzio delle Alpi del Mare.


Aldo A. MOLA      


Foto di copertina: Castello di Valcasotto (CN), da https://www.unionemonregalese.it/2019/08/01/a-ottobre-sopralluogo-della-commissione-regionale-al-castello-di-valcasotto/