VAE VICTIS. IL DIKTAT DEL 10 FEBBRAIO 1947

Verso il 75° del “Trattato di Pace”. Editoriale del Giornale del Piemonte e della Liguria.


Il memorabile 1922... 

Il 2022 sarà affollato di “centenari”, tutti di scottante attualità. Il 1922 si aprì con il ritiro (1° febbraio) dei velleitari democratici sociali dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi, ex socialista, riformista, “democratico”, eletto nel 1921 in un “blocco nazionale” comprendente i fascisti. Alle elezioni del 15 maggio 1921 ognuno dei tre principali partiti presenti alla Camera aveva ottenuto poco più del 20% dei voti. Si contavano 14 diversi gruppi parlamentari, incapaci di dare all'Italia un governo stabile. A fronte delle rinunce di Vittorio Emanuele Orlando e di Enrico De Nicola di formare il governo, Vittorio Emanuele III propose invano al socialista Filippo Turati di presiedere il nuovo ministero. A termine della più lunga crisi dal 1861, per spossatezza il 26 febbraio nacque l'esangue coalizione presieduta da Luigi Facta, da trent'anni deputato di Pinerolo, oggi dimenticato anche “a casa sua”. A cent’anni di distanza verranno debitamente ricordati la crisi del suo secondo governo, tra agosto e fine ottobre 1922, e l'insediamento del ministero di coalizione costituzionale presieduto da Benito Mussolini, che con soli 35/37 deputati il 31 ottobre artigliò la presidenza del Consiglio e la tenne nel ventennio seguente, per pochezza di alleati e avversari più che per sua superiorità politica. Sono molti i motivi di riflessione su quell'annus horribilis. Va ricordato, soprattutto, che l'Italia era uscita vittoriosa dalla Grande Guerra e che la sua monarchia nell'Europa di terraferma era l'unica di rilievo sopravvissuta alla catastrofe dei quattro imperi di Russia, Germania, Austria-Ungheria e ottomano. Se non fosse stato per impreparazione tecnica e miopia della sua dirigenza politica, l'Italia avrebbe potuto svolgere il ruolo compatibile con la stabilità delle sue istituzioni e la sua posizione geografica al centro del Mediterraneo, mentre gli Stati Uniti d'America stavano passando dalla “osservazione” alla “occupazione” del Vecchio Continente.


...e il 75° del Trattato di Pace

Ma c'è un'altra data che meriterà attenzione: il 75° del “Trattato” di pace imposto all'Italia a Parigi il 10 febbraio 1947. Se ne sta occupando un ciclo di videoconferenze organizzate dall'Istituto di Studi Politici Giorgio Galli (Milano), presieduto da Daniele Comero. Generalmente rimosso dalla memoria, perché in parte superato dall'ingresso dell'Italia nell'Alleanza Atlantica e nella Nato (1949), il Trattato andrà ricordato perché ratificò la cancellazione dell'Italia dal rango di aspirante “grande potenza” e la retrocesse a provincia periferica del dominio statunitense, mentre la Gran Bretagna era alle prese con la deflagrazione del suo impero coloniale e la Francia, gonfia di orgoglio del suo passato e di animosità contro l'Italia, faticava a riaversi dall'occupazione hitleriana, dal regime di Vichy, dalla guerra civile (l'epurazione dei collaborazionisti fu di gran lunga più sanguinosa di quella vissuta in Italia nell'aprile-maggio 1945).

 Il “Trattato” fu per l'Italia il capolinea di un quarto di secolo di errori. Non possono certo essere ignorate le realizzazioni positive, talora anzi all'avanguardia, del lungo e segmentato governo Mussolini (1922-1943), da collocare, però, in una visione comparata di quanto in quei decenni maturò in tutti gli altri Stati, sia a regime parlamentare sia di partito unico. Ciascuno di essi cercò di ottenere e/o di imporre il consenso dalle e alle “masse” uscite martoriate dalla Grande Guerra e di conciliare l'antica dirigenza con una nuova, espressione dei “combattenti” e della loro riorganizzazione in movimenti e partiti. Insediato al governo, il “duce”del fascismo assorbì le flebili opposizioni costituzionali (nazionalisti, “liberali”, cattolici, demosociali, riformisti...) e spinse le opposizioni anti-sistema (comunisti, socialisti, repubblicani, “democratici” al di fuori del recinto istituzionale: in posizione critica, ma marginale, all'interno; oppure all'estero, ove agirono in subordine agli interessi di potenze straniere, come il Partito comunista d'Italia incorporato nella Terza Internazionale, strumento dell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche.

Nella politica estera Mussolini riprese il programma di espansione coloniale della Sinistra storica (da Agostino Depretis a Francesco Crispi: Eritrea e Somalia) e di Giovanni Giolitti (Tripolitania e Cirenaica) e la esasperò sino al parossismo. La costosissima guerra per la conquista dell'Etiopia (1935-1936) scompaginò la carta degli imperi coloniali. Quella per l'annessione dell'Albania (1939) accentuò l'instabilità del sistema europeo già sconquassato dall'aggressività della Germania nei confronti della Cecoslovacchia (invenzione del congresso di pace di Parigi) e da tre anni di guerra civile in Spagna: prova generale del conflitto europeo est-ovest, scaturito dalla lotta tra regimi parlamentari e dittature di partito unico.

Le ambizioni espansionistiche mussoliniane furono però del tutto sproporzionate rispetto alle risorse del Paese e si risolsero in costi senza adeguati ritorni e nell'indebolimento della forza militare, che aveva raggiunto il livello ottimale quando il ministero della Guerra ebbe per sottosegretario e titolare il generale Pietro Gazzera (1928-29 e 1929-33), nativo di Bene Vagienna e “uomo del Re”. Per reggere, il regime non ebbe altra via che proseguire sul sentiero della bellicosità, che è altra cosa dalla potenza bellica, come invano osservarono e cercarono di far capire militari che avevano alle spalle non la retorica ma la cognizione della strategia. Era il caso di Raffaele Cadorna, figlio del Comandante Supremo durante la Grande Guerra e padre di Carlo Cadorna, che ne ha ampiamente scritto nei due volumi sul lungo regno di Vittorio Emanuele III (ed. BastogiLibri).

Le tappe di quella corsa verso l'abisso sono note (il Patto di Acciaio con la Germania, la “non belligeranza” del 1939 a fronte del patto di non aggressione Hitler-Stalin, l'intervento in guerra il 10 giugno 1940, le campagne militari in terre sempre più lontane, inclusa l'Urss...) e non entrano tra le “date memorabili” dell'anno venturo.


Quando il Re revocò il “duce” e ottenne l'armistizio

Interessa, invece, capire come sin dal 1943 vennero prefigurate l'uscita dalla guerra e le condizioni di pace da imporre all'Italia. In primo luogo, per quanto superfluo, va ricordato che a mettere fine al regime mussoliniano non furono né il voto del Gran Consiglio del Fascismo (25 luglio 1943: Dino Grandi, Luigi Federzoni, Giuseppe Bottai… sino a Galeazzo Ciano), né i partiti antifascisti, appena albeggianti. Fu Vittorio Emanuele III, che, d'intesa con una ristretta rete di militari fedeli e capaci, il 25 luglio 1943 in pochi minuti “revocò” il duce, lo sostituì con Pietro Badoglio e mostrò l'inconsistenza della leggendaria “diarchia”. L'Italia era monarchica. Non nel senso che gli italiani fossero monarchici. Lo era la forma dello Stato. La Corona era l'unico Potere in grado di ottenere quanto necessitava, cioè che i vincitori accordassero all'Italia, sconfitta, di arrendersi “senza condizioni”, come deciso sin dalla conferenza di Casablanca. Quello era il pre-requisito per arrivare alla stipula della resa. Un passo tanto amaro quanto indispensabile per salvaguardare il Patrimonio storico fondamentale: il riconoscimento dell'Italia quale Stato unitario, dalla Sicilia al crinale alpino. Mentre per conto del governo del Re sottoscriveva l'“armistizio” di Cassibile (3 settembre), il generale Giuseppe Castellano otteneva implicitamente che l'unico garante della sua applicazione fosse appunto Vittorio Emanuele III.


Il Memorandum di Quebec  

A questa luce merita riflettere su quanto gli anglo-americani prospettarono per l'Italia nel Memorandum stilato il 18 agosto 1943 dal presidente degli USA, Franklin Delano Roosevelt, e dal premier britannico, Winston Churchill, nella lunga conferenza di Quebec, in Canada. Dal novembre 1942 gli anglo-americani erano sbarcati in Marocco. Dopo il crollo delle estreme difese italo-germaniche in Tunisia (Erwin Rommel e il valoroso Giovanni Messe, nominato Maresciallo d'Italia il giorno stesso della sua resa), dal 10 luglio 1943 era iniziato l'assalto alla Sicilia, con l'obiettivo di spingere l'Italia fuori dal conflitto e preparare il fronte vero dell'offensiva contro la Germania: “mettere gli scarponi” nella Francia settentrionale.

Il Memorandum va letto con attenzione perché contiene alcuni passaggi depistanti e ingannevole sui veri propositi dei loro autori. Eccone il testo nella versione “ufficiale”: 

“Le condizioni di armistizio non contemplano l'assistenza attiva dell'Italia nel combattere i tedeschi. La misura nella quale le condizioni saranno modificate in favore dell'Italia dipenderà dall'entità dell'apporto dato dal Governo e dal popolo italiani alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra. Le Nazioni Unite dichiarano tuttavia senza riserve che ovunque le forze italiane e gli italiani combatteranno i tedeschi o distruggeranno proprietà tedesche od ostacoleranno i movimenti tedeschi, essi riceveranno tutto l'aiuto possibile dalle forze delle Nazioni Unite. Nel frattempo, se informazioni sul nemico verranno fornite immediatamente e regolarmente, i bombardamenti degli Alleati verranno effettuati, nel limite del possibile, su obiettivi che influiranno sui movimenti e sulle operazioni delle forze tedesche.

La cessazione delle ostilità fra le Nazioni Unite e l'Italia entrerà in vigore a partire dalla data e dall'ora che verrà comunicata dal generale Eisenhower. Il Governo italiano deve impegnarsi a proclamare l'armistizio non appena esso verrà annunciato dal generale Eisenhower e a ordinare alle sue forze e al suo popolo di collaborare da quell'ora con gli Alleati e di resistere ai tedeschi.

Il Governo italiano deve, al momento dell'armistizio, dare ordine che tutti i prigionieri delle Nazioni Unite in pericolo di cattura da parte dei tedeschi siano immediatamente rilasciati. Il Governo italiano deve al momento dell'armistizio dare ordini alla flotta italiana e alla maggior parte possibile della Marina mercantile di partire per i porti alleati. Il maggior numero possibile di aerei militari dovrà recarsi in volo alle basi alleate.

Qualsiasi aereo in pericolo di cattura da parte dei tedeschi deve essere distrutto.

Nel frattempo vi sono molte cose che il maresciallo Badoglio può fare senza che i tedeschi si accorgano di quello che sta preparando. La natura precisa e l'entità della sua azione saranno lasciate al suo giudizio ma si suggeriscono le seguenti linee generali:

1 - Resistenza generale passiva in tutto il Paese, se quest'ordine può essere trasmesso alle autorità locali senza che i tedeschi lo sappiano;

2 - Piccole azioni di sabotaggio in tutto il Paese specialmente delle comunicazioni e degli aeroporti usati da tedeschi;

3 - Salvaguardia dei prigionieri di guerra alleati. Se la pressione tedesca per farli consegnare diventa troppo forte essi dovrebbero essere rilasciati;

4 - nessuna nave da guerra deve esser lasciata cadere in mano tedesca.

Disposizioni dovranno essere date per assicurarsi che tutte queste navi possano salpare per i porti designati dal generale Eisenhower, non appena egli ne darà ordine. I sottomarini italiani non devono sospendere le missioni, dato che ciò rivelerebbe al nemico il nostro scopo comune;

5 - nessuna nave mercantile dovrà cadere in mano tedesca. Le navi nei porti del Nord dovranno, se possibile, recarsi nei porti a sud della linea Venezia-Livorno. In caso disperato dovrebbero essere affondate. Tutti i piroscafi dovranno tenersi pronti a salpare per i porti designati dal generale Eisenhower.

6 - non si dovrà permettere ai tedeschi di prendere in mano le difese costiere italiane; 7 - predisporre il piano perché al momento opportuno le autorità italiane nei Balcani possano marciare verso la costa dove potranno esser trasportate in Italia dalle Nazioni Unite”.

 

Verso fine agosto (quando terminò la conferenza di Quebec e i preliminari della resa dell'Italia si avvicinavano alla meta) gli anglo-americani promettevano uno “sconto di pena” in cambio del sostegno alla guerra contro la Germania e facevano intendere che si sarebbero subito attestati sulla linea Venezia-Livorno. A quel modo avrebbero chiuso in una tenaglia le divisioni germaniche presenti in Italia, costringendole alla loro resa completa o all'arretramento dai suoi confini. Alla vigilia della pubblicazione della resa gli americani si spinsero a promettere un aviosbarco presso Roma per impegnarvi una battaglia dall'esito imprevedibile e che nessuno voleva, a cominciare da Pio XII. Per loro stessa definizione le condizioni armistiziali si risolsero in uno “sporco affare” ai danni dell'Italia o nell'“inganno reciproco” bene documentato da Elena Aga Rossi decenni addietro.

Tra le molte autorevoli e genuine “testimonianze” sul trauma dell'8-10 settembre 1943 spiccano le “Memorie di un ammiraglio ottuagenario”, Antonio Cocco, col titolo “Per la Patria e per il Re” (ed. Bastogi, 2006). Valoroso Presidente dell'Istituto nazionale per la Guarda d'Onore alle reali tombe del Pantheon, Cocco ricorda come alle 8 mattutine del 9 settembre gli allievi del Corso “Raffiche” dell'Accademia Navale di Livorno, temporaneamente ospitati all' “Excelsior” del Lido di Venezia, ebbero l'ordine da parte dell'Ammiraglio Guido Bacci di Capaci di affardellare libri e maglie di lana nella coperta del letto e di farsi trovare entro mezz'ora all'uscita. Furono tutti imbarcati e trasferiti a Brindisi, ove si erano trasferiti il Re, il principe ereditario, il governo e iniziò la Riscossa anche con quel patrimonio di forze morali, intellettuali e tecniche: giovani che concorsero alla transizione dalla sconfitta militare al “miracolo” della ricostruzione, realizzata da italiani nati in età giolittiana o nel successivo “ventennio”, educati ad alto senso dello Stato.

Il Trattato non concesse alcuno “sconto” all'Italia

Ma il cosiddetto Trattato di pace tenne conto dei sacrifici che l'Italia affrontò nei due anni di partecipazione alla guerra delle “Nazioni Unite” contri i due Stati rimasti in lotta, la Germania e il Giappone, e i loro alleati? Nello strumento imposto alla firma il 10 febbraio 1947 non ve n’è traccia: né lo “sconto” prospettato dal Memorandum di Quebec né quello indicato dall'“armistizio lungo” firmato da Badoglio a Malta il 29 settembre 1943, penultimo atto della trappola nella quale l'Italia fu attratta dai vincitori.

L'ultimo fu la campagna contro la Monarchia e in specie contro la persona del re. Si sostanziò nella arrogante richiesta di abdicazione immediata di Vittorio Emanuele III e di rinuncia alla successione del principe ereditario, Umberto di Piemonte, per suscitare il corto circuito concluso con il referendum del 2-3 giugno 1946, che spianò la strada alla repubblica con il consenso del 42% del corpo elettorale. Non c'è bisogno di immaginare chissà quali trame di servizi segreti, presbitèri, logge, clan mafiosi, cospirazioni carbonare né di sfruculiare archivi esteri a caccia di veline su dettagli storicamente irrilevanti. Tutto avvenne alla luce del sole. Nel giugno 1940 l'Italia aveva scommesso su una guerra breve. Entrata in un “gioco” al di sopra delle sue possibilità, aveva continuato a sbagliare: la dichiarazione di guerra contro l'Urss e poi contro gli Stati Uniti d'America, senza avere mezzi per condurla. Un suicidio. Andava punita. Esclusa per sempre dal novero delle medie potenze. Era retrocessa a provincia di un impero. Grazie a Vittorio Emanuele III e ai suoi più fedeli interpreti, militari e diplomatici, la resa avvenne sul fianco meno doloroso, a Occidente. L'Oriente, era e rimase buio per decenni, con striature rosso sangue. Lì gli uomini liberi e di buoni costumi che non furono assassinati dai nazisti vennero suppliziati dai sovietici e dai regimi da loro imposti.

Il Diktat del 10 febbraio 1947 fu greve. Merita riflessione e l'“esame di coscienza” eluso per 75 anni. Per scrollarsi di dosso la cappa del vinto molti pensarono bastasse fare di Vittorio Emanuele III il capro espiatorio della guerra perduta ed eliminare la monarchia. La storia ebbe altro corso. Va ri-conosciuta nella sua vera identità.


Aldo A. MOLA


DIDASCALIA: Il Maresciallo Giovanni Messe (Mesagne, Brindisi, 1883-Roma, 1968). Caduto prigioniero degli inglesi, venne liberato su richiesta di Vittorio Emanuele III e nominato capo di stato maggiore generale (18 novembre 1943-1° maggio 1945). Già aiutante di campo del Re, iniziato massone, svolse un ruolo determinante nella riorganizzazione delle Forze Armate italiane dalla resa del settembre 1943 alla fine della guerra. Ne ha scritto un ampio profilo il generale Antonio Zerrillo (“Il Maresciallo Giovanni Messe e la riscossa del Regio Esercito Italiano” in Il regno di Vittorio Emanuele III, vol 2°, Gli anni delle tempeste, 1938-1946, ed. BastogiLibri). Ne ripete l'elogio anche Bruno Vespa in “Perché Mussolini rovinò l'Italia e come Draghi la sta risanando”, (ed. Rai-Mondadori). Il busto di Messe attende di essere collocato degnamente all'aperto in Mesagne, la sua città nativa, candidata a capitale della Cultura 2004.