IL V GOVERNO GIOLITTI (1920-1921). ULTIMO APPELLO PER IL LIBERALISMO IN ITALIA

"Historia magistra vitae". Proponiamo l'editoriale del Prof. Mola pubblicato sul GDP del 21 giugno 2020, ricco di attualissimi spunti di riflessione. Giolitti ebbe chiarissima la percezione che i princìpi ispiratori della dirigenza politica durata dall'unificazione nazionale alla Grande Guerra rimanevano patrimonio di una minoranza di patrioti veri, dediti agli interessi generali permanenti dell'Italia anziché ai propri personali o a quelli di fazioni partitiche. Egli sentiva il dovere di “rialzare l'autorità del Parlamento” per “rialzare l'autorità dello Stato”, accompagnandolo con il monito che “non bisogna confondere lo Stato col Governo. Il Governo è il servitore dello Stato, e nient'altro”.    


    IL V GOVERNO GIOLITTI (1920-1921). ULTIMO APPELLO PER IL LIBERALISMO IN ITALIA            


di Aldo A. Mola


Giolitti: spegnere l'incendio...

“Quando la casa brucia, ogni sforzo deve tendere a spegnere l'incendio; a rendere la casa più comoda si penserà dopo”. Fu il programma col quale il massimo Statista italiano dall'unità a oggi, Giovanni Giolitti (Mondovì, 1842- Cavour,1928), tornò la quinta volta ad assumere la presidenza del Consiglio dei ministri il 16 giugno 1920. Aveva 78 anni: idee chiare, energia ferrea. Le sue parole vanno meditate dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conti, che si trastulla in chiacchiere e rinvia di mese in mese ogni seria decisione mentre l'Italia sprofonda nella voragine del debito pubblico, destinato a recidere i garretti dei cittadini per un paio di generazioni.

Il centenario del quinto governo Giolitti è passato del tutto sotto silenzio in Piemonte. Silenzio tombale anche da parte della Provincia di Cuneo, di cui lo Statista fu presidente per vent'anni. A volte chi dovrebbe ricordare preferisce non vedere. Ma ormai a troppi vien comodo il “distanziamento”: dalla memoria del passato, sempre più imbarazzante per chi annaspa al “potere”. Ne ha scritto Luigi Rizzo in Il pensiero di Giovanni Giolitti fondatore dello Stato sociale, tra guerra e pace (ed. Arbor Sapientiae).


Un governo di coalizione per risalire la china

Il 16 giugno 1920 Vittorio Emanuele III chiamò Giolitti alla guida dell'Esecutivo su indicazione unanime delle personalità consultate. Lo Statista era pronto da tempo. Aveva varato il suo primo governo il 15 maggio 1892 su incarico di Umberto I. Erano passati 28 anni. Perché proprio lui, malgrado l'età? L'Italia aveva alle spalle il passivo dell'intervento nella Grande Guerra voluto da Antonio Salandra e da Sidney Sonnino d'intesa con il sovrano. La Vittoria del 4 novembre 1918 aveva avuto un costo altissimo in vite umane, indebitamento dello Stato, svalutazione della moneta, disordine economico e sociale. Occorreva una “cura da cavallo”. Con il trattato di Versailles (28 giugno 1919), prima fase del congresso della pace, il governo Orlando-Sonnino aveva sprecato i sacrifici sopportati dal Paese. Malgrado i tanti discorsi e i ben remunerati articoli del nuovo presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, il trattato di pace con l'Austria (Saint-Germain, 10 settembre 1919) negò all'Italia Fiume. Di lì, due giorni dopo, la marcia guidatavi da Gabriele d'Annunzio e la Reggenza del Carnaro, spina nel fianco del governo. Nitti navigò a vista, si dimise e formò un secondo ministero che durò poche settimane (22 maggio-16 giugno).

Sin dall'agosto 1917, in piena guerra, Giolitti aveva indicato la via per riorganizzare i rapporti interni e internazionali: abolizione della diplomazia segreta (altra cosa dal segreto diplomatico) e riforme sociali rispondenti alle enormi difficoltà del Paese. Lo ripeté il 12 ottobre 1919 nel discorso pronunciato a Dronero in vista delle prime elezioni con il riparto dei seggi in proporzione ai voti ottenuti dai partiti. Lo ribadì nel discorso di insediamento alla Camera, il 24 giugno 1920, suo onomastico. L'Italia era annichilita dal debito pubblico, balzato da 13 a 90 miliardi di lire, dal prezzo politico del pane, dalla moltiplicazione di stipendi e salari per lavori inutili: costavano alla pubblica amministrazione (Stato, province, comuni) e si risolvevano in indebitamento ulteriore, non in benefici. Con le dita rosate già allora la burocrazia intesseva in sudario dell'Italia. I regimi seguenti fecero di peggio.

Per voltare pagina Giolitti chiamò al governo esponenti dei partiti costituzionali: Carlo Sforza agli Esteri, il democratico ed ex socialista Ivanoe Bonomi alla Guerra, i cattolici Filippo Meda e Giuseppe Micheli al Tesoro e all’Agricoltura, l'ex sindacalista Arturo Labriola al Lavoro, massone come Luigi Fera, ministro della Giustizia, e Giulio Alessio. All'Istruzione lo Statista volle il sommo pensatore italiano del Novecento, Benedetto Croce, storico e “filosofo di buon senso”, come egli disse quando lo vide all'opera nel ministero oggi nelle mani di una giovine inconcludente. Si circondò di cuneesi: Camillo Peano, ministro dei Lavori pubblici; Marco di Saluzzo, sottosegretario agli Esteri e Giovanni Battista Bertone, popolare, alle Finanze; Marcello Soleri, cui affidò il commissariato per approvvigionamenti e consumi alimentari, cioè l'abolizione del prezzo politico del pane, rovina dell'erario.


Debito pubblico...

All'insediamento del governo Giolitti sintetizzò il programma per risanare il Paese: sovranità del Parlamento anziché litania di decreti-legge come accadeva dal 1914 (malvezzo imperante nell'Italia giallorossa di Conte, democratici e pentastellati, lotta alle “delittuose speculazioni”, freno all’emissione di moneta cartacea (fomite dell'inflazione), promozione della produzione cerealicola (la mussoliniana “battaglia del grano” non inventò nulla rispetto all'età di Giolitti e di Vittorio Emanuele III, che seguiva di persona la sperimentazione agricola, sull'esempio dei poderi modello allestiti a Pollenzo già da Carlo Alberto), riduzione delle spese militari superflue, avocazione dei profitti di guerra, progressività delle imposte e in specie delle tasse sulle successioni, nominatività dei “titoli al portatore di qualsiasi specie, azioni, obbligazioni, rendite di Stato, cartelle fondiarie e simili, eccettuati solamente i buoni del Tesoro”: una montagna di 70 miliardi di lire che sfuggivano alle imposte. A quel modo avrebbe anche stanato la “finanza vaticana”.

Quasi non toccò la politica estera. Non per trascuratezza. Poiché era aggrovigliata, l'avrebbe affrontata quando lo Stato sarebbe tornato sicuro di sé.

A chi gli chiedeva di confiscare i beni della Corona rispose che, dopo le generose donazioni fatte da Vittorio Emanuele III allo Stato, erano ormai pochi centesimi.  A chi, da sinistra, voleva l'abolizione della guardia regia replicò che costoro l’avrebbero soppiantata con la guardia rossa. Pensava a quanto avveniva in Russia. Le sue linee maestre erano “pace all'estero e pace all'interno”, superamento della lotta muro contro muro tra operai e datori di lavoro attraverso la cooperazione. Ribadì: “Ognuno, secondo le sue convinzioni, può e deve aiutare l'opera dello Stato; non dico l'opera del governo, dico l'opera dello Stato”.  Al Senato spiegò perché il governo comprendeva esponenti di partiti diversi: liberali, democratici e popolari, tutti costituzionali. La proporzionale aveva frantumato la Camera in undici gruppi parlamentari. Mentre i socialisti contavano oltre 150 seggi e i popolari un centinaio, i “liberali” erano spappolati in varie denominazioni e privi di un'organizzazione unitaria. Il primo “partito liberale” nazionale, presieduto dal genovese Emilio Borzino, che non è il più famoso tra i politici italiani, nacque solo nell'ottobre 1922 quando il liberalismo volgeva al crepuscolo. Per governare, l'esecutivo doveva contare su un'ampia e stabile maggioranza parlamentare: non su compromessi ideologici, su gruppi litigiosi e inconcludenti (come anche oggi accade), bensì sul “senso del dovere dei politici verso la Patria”. Quasi quarant'anni prima, nella Lettera indirizzata agli elettori del I collegio di Cuneo il 15 ottobre 1882 aveva scritto: “Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un programma, vi ha la certezza che questo risponde ai veri bisogni del Paese”.


...avocazione al Parlamento del potere di dichiarare guerra...

Due erano gli obiettivi fondamentali del quinto governo Giolitti. In primo luogo la modifica dell'articolo 5 dello Statuto: “senza la preventiva approvazione del Parlamento non vi può essere dichiarazione di guerra”. Questa andava trasferita dalla Corona ai rappresentanti dei cittadini, sui quali ricade il peso delle decisioni supreme: vite umane e impoverimento, come era avvenuto nella Grande guerra. Sino a quel momento nessun uomo politico aveva mai messo in discussione la prerogativa principale del sovrano: la dichiarazione di guerra. Giolitti lo fece, proprio perché monarchico, liberale, conservatore: per le istituzioni, i cui titolari non sempre sono consci dei loro doveri. Lo propose alla luce della catastrofe delle teste coronate spazzate via dalla sconfitta: lo zar di Russia, eliminato dai bolscevichi con l'intera famiglia; gli imperatori di Austria-Ungheria e del Reich germanico e il sultano di Istanbul, tutti costretti all'esilio da rivoluzioni dei loro popoli ancor più che dalle vittorie del nemico.

Già nel citato Discorso di Dronero del 1919 Giolitti aveva pronunciato parole da rileggere mentre il governo oggi in carica anziché aprire un vero confronto sulla politica estera (alleanze, posizione dell'Italia in Libia...) pretende di limitarsi a “informative”, senza dibattito né votazioni (e così scopre il fianco del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, costretto a ripetere che le alleanze non sono porte girevoli). Fra altro osservò: “Nei nostri ordinamenti politici interni esiste la più strana delle contraddizioni. Mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non può né creare né abolire una pretura, un impiego d'ordine senza la preventiva approvazione del Parlamento, può invece per mezzo di trattative internazionali assumere, a nome del Paese, i più terribili degli impegni che portano inevitabilmente alla guerra; e non solo senza l'approvazione del Parlamento, ma senza che né Parlamento né Paese ne siano, o ne possano essere in alcun modo informati. Questo stato di cose va radicalmente mutato”. Occorreva dunque abolire i trattati segreti, come l'accordo di Londra del 26 aprile 1915, germe di conseguenze disastrose per la miopia di chi l'aveva stipulato all'insaputa delle Camere. Aggiunse: “sarebbe una grande garanzia di pace se in tutti i paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere la politica estera; poiché così sarebbe esclusa la possibilità che minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza, riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà”.

Contrariamente a quanto ritennero alcuni cortigiani e reazionari particolarmente ottusi, la proposta giolittiana non era affatto anti-monarchica. Essa, anzi, mirava a tenere separata la responsabilità del Re da quella di presidenti del Consiglio e di ministri corrivi a confiscare la sovranità e a decidere all'insaputa delle Camere, così esponendo la Corona ai rischi di una disfatta militare che fatalmente ne avrebbe comportato il crollo, come poi accadde.

Nel corso dei secoli lo stato sabaudo aveva subito invasioni e perso battaglie, ma neppure nei momenti più drammatici era stato debellato perché i suoi sovrani avevano sempre contato sul leale sostegno della popolazione che si riconosceva nei duchi e re di Savoia. Lo si era veduto ai tempi di Carlo Emanuele I, di Vittorio Amedeo II, di Carlo Emanuele III. Quanto era valso nei secoli della monarchia consultiva e amministrativa valeva ancor più con l'avvento di quella costituzionale, come ha bene spiegato Domenico Fisichella nella sua imponente trilogia dal Risorgimento al 1940 (ed. Pagine). Dopo la sconfitta di Novara (23 marzo 1849) il regno aveva fatto quadrato attorno a Vittorio Emanuele II che aveva rifiutato di abolire lo Statuto. Quel “patto”, però, andava aggiornato alla luce dell'esperienza maturata durante la Grande guerra e di trattati di pace niente affatto lungimiranti.

Con argomenti attualissimi Giolitti rivendicò la centralità della rappresentanza elettiva, tenuta a mostrare con i fatti di volere e sapere esercitare i poteri statutari.


...e risanamento dell'istruzione pubblica

L'altro caposaldo, parimenti attualissimo, del programma del V governo giolittiano fu la “completa trasformazione dell'istruzione pubblica, che è fra tutte le nostre istituzioni quella che procede con maggior disordine e con minor efficacia”. Fermo nel ritenere che “un popolo tanto vale quanto sa”, spiegò che il mondo scolastico, “vecchio, chiuso, arretrato”, autoreferenziale, andava “aperto largamente al sole della libertà, la più efficace delle spinte al progresso”. Parlava sulla scorta delle esperienze dei figli e dei numerosi nipoti. Il rinnovamento dell'istruzione pubblica andava promosso di concerto con l'“alta industria”, “in modo da attrarre all'insegnamento le migliori intelligenze del paese e da costringere gli insegnanti a tenersi perfettamente al corrente delle scienze”. A tale scopo le cattedre, soprattutto delle discipline “esatte”, anziché popolate di precari, andavano rimesse a concorso ogni dieci anni. Chi non si aggiornava andava sostituito dai più preparati.

Il suo criterio di governo fu: “dire sempre al Paese la rude verità, abbandonando la vuota retorica, la quale, ponendo sotto falsa luce fatti e apprezzamenti, costituisce una delle forme più insidiose di menzogne”. Come accennato, nei discorsi di insediamento del governo alla Camera e al Senato Giolitti spiegò perché non intendeva esporre il programma nella politica estera. Gli occorreva anzitutto conoscerne lo stato vero alla luce della documentazione: premessa per affrontare le molte e complesse articolazioni, in specie con riferimento alla “questione adriatica”, di cui quella di Fiume era un gradiente aspro da superare in una visione più larga di quella sino a quel momento dominante.

Il 15 luglio non esitò a dichiarare ai senatori di aver accettato un mandato forse superiore alle sue forze per “sentimento del dovere” verso “una Alta volontà”: quella del Re.

Un suo autorevole biografo, Nino Valeri, iniziato massone con Gabriellino d'Annunzio in un'officina della Gran Loggia d'Italia quando da “agente cinematografico” collaborava con il figlio del Vate, dedicò al V e ultimo governo Giolitti pagine fondate sul preconcetto che l'anziano Statista non fosse più “in linea” con i tempi nuovi, con gli umori che alimentavano il rivoluzionarismo dilagante dall'estrema destra alla sinistra. In realtà Giolitti ebbe chiarissima la percezione che i princìpi ispiratori della dirigenza politica durata dall'unificazione nazionale alla Grande Guerra rimanevano patrimonio di una minoranza di patrioti veri, dediti agli interessi generali permanenti dell'Italia anziché ai propri personali o a quelli di fazioni partitiche. Egli stesso aveva concorso a promuoverne il radicamento con le grandi riforme d'inizio secolo e con il conferimento del diritto di voto ai maschi maggiorenni, anche se analfabeti. Comprendeva la genesi dello sperimentalismo e del disordine del dopoguerra, ma ritenne che il governo non potesse né dovesse subirlo e assecondarlo, vivendo di esperimenti, di appelli alle piazze, di incitamento alla rissa tra vacue ideologie, come oggi accade. All'opposto sentiva il dovere di “rialzare l'autorità del Parlamento” per “rialzare l'autorità dello Stato”, accompagnandolo con il monito che “non bisogna confondere lo Stato col Governo. Il Governo è il servitore dello Stato, e nient'altro”.

La Camera alla quale si rivolse nel giugno-luglio del 1920 comprendeva una esigua pattuglia di nazionalisti ma ancora nessun “fascista”. Alle elezioni del 16 novembre 1919 Mussolini aveva raccattato circa 2500 preferenze sui 5.000 voti andati alla sua lista: un risultato mortificante. Nondimeno alla Camera sedevano molti esagitati, massimalisti, estremisti, integralisti, fautori del tanto peggio tanto meglio. Per venirne a capo occorreva una lunga stagione di armonia tra gli Stati, il trascorrere del tempo, che è sempre la medicina migliore. Non fu Giolitti a decidere l'autoesclusione degli USA dalla Lega delle Nazioni, l'ingorda spartizione delle colonie tedesche tra Gran Bretagna e Francia, l'esasperazione dei vinti attraverso politiche punitive. Cercò di mettere ordine almeno in Italia, “in casa”.

Era guidato da un concetto di bruciante attualità: “Seguire una politica che possa condurre ad altre guerre significherebbe condannare sin d'ora a morte due milioni di nostri figli o dei nostri nipoti, e condannare l'Italia ad un altro mezzo secolo di esaurimento economico per arricchire un'altra generazione di speculatori; e ciò nell'ipotesi che in una nuova guerra si abbia di nuovo una completa vittoria, poiché in caso di sconfitta le condizioni dell'Italia diverrebbero molto peggiori di quelle dei popoli che in questa guerra furono vinti”: parole profetiche ma non abbastanza comprese. Perciò l'esempio dello Statista che quasi ottantenne si fece carico del governo d'Italia merita di essere rievocato e meglio conosciuto: non fu un segmento qualunque nella sequenza dei sei governi susseguitisi nel dopoguerra prima dell'avvento di Mussolini. Le dimissioni di Giolitti un anno dopo l'insediamento segnarono l'eclissi del liberalismo italiano in un'Europa che si avviava alla seconda catastrofica fase della Guerra dei Trent'anni (1914-1945).

Cinque volte presidente del Consiglio non ha monumenti. Quindi la sua “esteriorità” non rischia. A farne ricordare l'opera fu il presidente  Carlo Azeglio Ciampi nella visita a Cuneo, nel 2003.Quando si recò a Cuneo, Napolitano lo ignorò. Mattarella, che rese omaggio a Einaudi in Dogliani, è in tempo riproporlo ai “governanti” di oggi e di domani.


Aldo A. Mola


Didascalia: Per ripristinare la pace in Libia il 6 dicembre 1920 il Gran Senusso in visita a Roma.