IL QUIRINALE: LA STORIA OLTRE LE QUINTE

In principio furono i Romani, poi i Papi, Vicari di Gesù Cristo. Di seguito arrivarono i Re d'Italia. Infine i presidenti della Repubblica Italiana (quando l'Italia da sostantivo venne declassata ad aggettivo). I Papi edificarono. I Re unificarono. I Presidenti trovarono tutto fatto. Ma lì sta il bello della Città Eterna.“Tout passe, tout lasse, tout...”.


Dietro le quinte, la Storia   

Anche il film più noioso può riuscire attrattivo. Se non per la trama e gli interpreti, a volte scontati, per la scenografia, i costumi, gli addobbi e qualche nota o parola di fondo. L'insediamento di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica ha avuto il pregio di proporre ancora una volta all'attenzione l'insuperabile bellezza di Roma, frutto di una storia millenaria, senza paragoni con qualunque altra capitale dell'universo mondo. La vettura sulla quale il Presidente è sceso dal Quirinale a piazza Monte Citorio rimarrà in memoria per il suo statuario automedonte, dalla divisa sgargiante come quello che accompagnò lo zar Nicola II a Racconigi il 23 ottobre 1909. Rimarrà per i corazzieri della scorta, in motocicletta e a cavallo e la cagnolina imbardata. Arcaico? Barocco?    Si sa, ma conviene ricordare che il Palazzo, la Piazza e i Giardini ove risiede per la seconda volta Sergio Mattarella hanno richiesto nei secoli tanti quattrini e altrettanti ne richiedono per il decoro dello Stato d'Italia. Architetti geniali da Martino Longhi il Vecchio a Domenico Fontana, Flaminio Ponzio, Carlo Maderno, Gianlorenzo Bernini e via proseguendo furono messi all'opera da una sequenza imponente di Pontefici. Si lasciarono alle spalle il saccheggio di Roma del 1527 e la lacerazione della chiesa d'Occidente. Con il Concilio di Trento la chiesa cattolica apostolica romana prese le distanze da “riformatori” quali Lutero (solitamente “molesto” e costantemente antiebraico) e da “evangelici” come Giovanni Calvino, che in nome della tolleranza fece bruciare vivo il “dissidente” Serveto. Sede papale da Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini, 1592-1605, morto durante la disputa fra Grazia e Libero arbitrio), per quasi tre secoli il Palazzo fu decorato da artisti quali Pietro da Cortona, abbellito e arredato all'interno secondo il gusto raffinato dei successori di Pietro, con gioielli quali la Cappella Paolina (dalle misure identiche alla “Sistina”), mentre l'esterno veniva “inquadrato” da reperti tratti dalle Terme di Costantino il Grande (i Dioscuri) e dal Mausoleo di Augusto (l'obelisco). Quella Roma visse ripetutamente drammi: l'effimera repubblica del 1798, la debellatio di papa Pio VII, imprigionato e deportato nei confini dell'Impero dei Francesi da Napoleone I, che proclamò suo figlio re di Roma, la repubblica del febbraio-luglio 1849 e infine l'irruzione del corpo di spedizione dell'Esercito Italiano comandato da Raffaele Cadorna il Venti settembre 1870.  

Per 76 anni il Palazzo dei Papi divenne sede (non banale “residenza”) dei re d'Italia, che, fatto eseguire scrupolosamente l'inventario dei suoi “arredi”, gli dedicarono altrettante cure nella piena consapevolezza del suo valore simbolico. Altrettanto avvenne per gli altri Palazzi della Città Eterna, papale, imperiale (Palazzo Madama, poi sede del Senato del Regno) e delle grandi famiglie pontifice, come Palazzo Chigi, a lungo ministero degli Affari Esteri prima della costruzione della sontuosa “Farnesina”, quando il governo era accampato al Viminale e la presidenza del Consiglio in quattro a Palazzo Braschi, due passi dal “mamozzo” del Pasquino. All'epoca contava cinque o sei funzionari e impiegati di cncetto, contro le migliaia d'oggidì.

Monte Citorio d'antan 

In poche centinaia di metri il corteo presidenziale, costeggiato Palazzo Chigi, ha condotto al Palazzo di Monte Citorio, iniziato da Gianlorenzo Bernini per i Ludovisi e proseguito per papa Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili, 1644-1655: la cui villa fu teatro delle sceneggiate di un ex presidente del Consiglio) che intendeva farne reggia per suoi parenti. Sontuosa sede di uffici di giustizia con papa Innocenzo XII (donde la denominazione di Curia innocenziana) e prefettura in età napoleonica, nel 1870 venne scelto quale sede della Camera dei deputati. Nell'adeguarlo e ornarlo gareggiarono l'architetto Ernesto Basile e il pittore Giulio Aristide Sertorio che istoriò un canto all'italianità con la raffigurazione allegorica delle virtù dell'“Itala gente da le molte vite”: Giustizia, Fortezza e Costanza; Ardimento, Forma e Fede, in controcanto con la rappresentazione di Rinascimento, Umanesimo, Arte, Scoperte geografiche, l'Età Classica e quella della Cavalleria. Come accadeva nelle chiese medievali, i cui affreschi parietali erano Bibbie per gli analfabeti, così all'interno del Palazzo di Montecitorio, a edificazione dei rappresentanti della nazione, a quel tempo coltissimi, il ciclo pittorico dell'aula ricordò invasioni barbariche, liberi comuni ed epopea risorgimentale. È sintetizzata dal tricolore nazionale sollevato dal Piemonte a incitamento della gioventù italica, accorrente alle bandiere per l'indipendenza della Patria. “In illo tempore” gli studenti si sacrificavano a Curtatone e Montanara, non per chiedere sconti agli esami di maturità (niente latino per i licei classici, niente matematica agli scientifici, diploma e reddito di esistenza in vita per tutti...: forse “non sanno quello che si fanno” come disse Qualcuno; o sanno di non sapere?). Mentre all'esterno di Monte Citorio lo scultore Domenico Trentacoste raffigurò i pilastri portanti della monarchia rappresentativa, la grazia di Dio e la volontà della nazione, all'interno Sartorio evocò la partecipazione del movimento popolare, i “volontari” incitati dall'inno di Garibaldi: “Si scopron le tombe/ si levano i morti/ i martiri nostri/ son tutti risorti”. Tanto tempo fa.

Italia dalle belle forme  

Il discorso pronunciato dal Presidente Mattarella e i battimani dei parlamentari (chissà perché citati dai “media” come “standing ovation” anziché “applausi prolungati”, come si legge nei Verbali delle sedute parlamentari) non hanno distratto l'osservatore paziente da fermare l'occhio sulla possente Figura vegliante sulle tre cariche supreme dello Stato d'Italia raccolte sullo scranno presidenziale dell'Aula di Monte Citorio. Nell'altorilievo bronzeo, realizzato auspice Vittorio Emanuele III, lo scultore subalpino Davide Calandra (1856-1915) istoriò la Monarchia con la fronte ornata dalla Corona Ferrea, simbolo della regalità “in” e “sull”'Italia. Alta, solenne, opulenta stringe fra le mani la Carta dello Statuto, “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia” da consultiva mutata in “rappresentativa”. Al suo cospetto il re, come si conviene alla “fons honorum”, monta un destriero sellato e staffato che solleva la zampa sinistra e china la testa in reverente omaggio all'“Idea dell'Italia”. Mentre impugna le briglie con la sinistra, con la destra Vittorio Emanuele III regge il berretto militare di comandante delle forze di terra e di mare. Avvolto nel tricolore ondeggiante ripete la cerimonia di insediamento sul trono: il giuramento di fedeltà allo Statuto, come da articolo 22 della Carta albertina. Chiunque pretendesse alla successione dovrebbe fare altrettanto in forme rituali e al cospetto dei depositari della Tradizione. Ritratto nell'anno del conferimento del diritto di voto politico a tutti i maschi maggiorenni alfabeti che avessero prestato servizio militare o trentenni anche se analfabeti, il Re ritratto da Calandra è quello delle grandi riforme del primo quindicennio del Novecento. È il sovrano orgoglioso dei nove secoli che avevano condotto la sua Casa dalla Savoia a Roma, da una contea transalpina a un regno che vantava colonie affacciate sul Mar Rosso, sulla costa orientale dell'Africa e sugli immensi spazi di Tripolitania e Cirenaica. Era il re della Terza Italia che nel 1911 aveva celebrato il primo mezzo secolo di unità nazionale (ma appena un quarantennio dall'annessione di Roma), sempre attento a tenere distinti (che non vuol dire separati o incomunicabili) lo Stato e la sua vita privata in seno alla Famiglia. Con la guida del severo Governatore Egidio Osio, “Re Vittorio” aveva studiato a fondo le otto settimane durante le quali Carlo Alberto aveva partecipato ai lavori del Conseil de Conférence che in sole 12 sedute tra il 7 gennaio e il 4 marzo 1848 preparò la svolta coronata con la promulgazione dello Statuto. Poco fiduciosi nella maturità dei regnicoli, i sette “primi segretari di Stato” suoi componenti (Borelli, Avet, di Revel, Des Ambrois, Di San Marzano, Broglia e Cesare Alfieri) decisero che occorreva precorrere “la piazza” con la concessione della costituzione. Meglio concedere che rischiare di cedere. A quel modo sarebbe stata salva la Dignità del Potere: “dignità” che è tutt'uno con la Gerarchia e la meritocrazia come ha fatto intendere Mattarella.

Il Regno, il Re... 

Flessibile, anziché rigido qual è la Costituzione della Repubblica, così difficile da armonizzare con i mutamenti culturali e sociali dettati dal fluire dei decenni, lo Statuto albertino fissò i capisaldi dello Stato, delegando “il resto” a commissioni di saggi. Fu il caso della legge elettorale. Lo Statuto si limitò a dichiarare che “la Camera elettiva è composta di Deputati scelti dai Collegi elettorali conformemente alla legge”. Toccava al Parlamento farla. Allo scopo il 17 febbraio venne nominata una commissione presieduta da Cesare Balbo, futuro presidente del Consiglio dei ministri, e formata dal meglio dei migliori: Giacinto Gallina, Federico Sclopis, Camillo Cavour, Riccardo Sineo... Poi le leggi elettorali furono pascolo del Parlamento, proprio come oggi. Non è colpa dei cittadini se funzionano alla meno peggio e a volte producono una dirigenza da mettersi le mani sulla testa. Andava meglio con i collegi monocamerali, eventualmente a doppio turno: dove tutti si conoscono, a differenza di quando prima o poi si andrà alle urne con esiti che nessun indovino sa prevedere.  Lo Statuto entrò anche nel delicato terreno della separazione (non era mera “distinzione”) tra beni dello Stato, dotazione della corona e beni propriamente privati del sovrano e della sua famiglia. La questione è recentemente balzata all'attenzione per la richiesta, del tutto ragionevole, degli eredi di Umberto II di ottenere in restituzione i cosiddetti “Gioielli della Corona”, fatti recapitare in custodia provvisoria alla Banca d'Italia il 5 giugno 1946 e accolti da Luigi Einaudi che pare abbia domandato a Falcone Lucifero: “Ma perché non se li porta via?”. Al riguardo suscita stupore la dichiarazione perentoria del presidente dell'Unione monarchica italiana, Alessandro Sacchi: secondo lui quei Gioielli “non appartengono ai Savoia”. E allora? Chi pensava che la “più antica associazione monarchica” difendesse a spada tratta i diritti dei discendenti di Umberto II sarà rimasto di stucco. Un monarchico “doc” contro Casa Savoia (tutti i frami compresi...)? Il preopinante adduce a sostegno l'articolo 19 dello Statuto. Per chiarire se abbia ragione o meno, è bene leggerlo come venne scritto e approvato da Carlo Alberto e rimase in vigore sino al 31 dicembre 1947. Esso recita: “(...) Il Re continuerà ad aver l'uso dei Reali palazzi ville, giardini e dipendenze, nonché di tutti indistintamente i beni mobili spettanti alla Corona, di cui sarà fatto inventario a diligenza di un ministro responsabile. (...)”. Ma ben più importante è l'articolo 20 che, forse nella fretta di confutare i diritti della Famiglia Savoia, il preopinante Sacchi trascurò. Esso sancisce: “Oltre i beni che il Re attualmente possiede in proprio, formeranno il suo patrimonio ancora quelli che potesse in seguito acquistare a titolo oneroso o gratuito, durante il suo regno. Il Re può disporre del suo patrimonio privato sia per atti fra vivi, sia per testamento, senza essere tenuto alle regole delle leggi civili, che limitano la quantità disponibile.” Il Re, insomma, aveva pur diritto di cambiare la camicia, comperare un quadro, fare beneficienza (e quanta ne fecero i sovrani sabaudi e le loro Consorti), passare quattrini agli irredentisti tramite emissari segreti (come attestò Ernesto Nathan), senza che lo Stato avesse titolo per chiedergliene conto. E così aveva titolo per donare un libro, un ninnolo o una gemma o per conservarla.

L'Orologio della Storia 

Le forme dello Stato passano. L'Italia ne ha cambiata una nel 1946. Secondo molti la Carta vigente le sta stretta. Dopo due rielezioni di uno stesso presidente e mentre molti, come nulla fosse, chiacchierano di “semipresidenzialismo di fatto”, dalla piazza del Quirinale bello è vedere il Cupolone di San Pietro e gettare l'occhio verso il Gianicolo. A Pietro Gesù Cristo disse:“Non canterà oggi il gallo che tu tre volte avrai negato di conoscermi” (Luca, 22, 34). Gesù fondò la Chiesa su Pietro, crocefisso in Roma a testa all'ingiù ove (si dice) sorge il Tempietto di San Pietro in Montorio. I traditori sono ovunque, come il fico al quale (si narra) Giuda si impiccò. Era un apprendista che, invido, odiò il Maestro.          


Aldo A. MOLA