IL PREMIO ACQUI STORIA VERSO IL GRAN FINALE

A cinquantatré anni dalla fondazione, l'Acqui Storia nato per rievocare la tragedia della Divisione Acqui a Cefalonia nel settembre 1943 si conferma il premio storiografico più prestigioso e ambito. Domenica 13 settembre si annuncia un “gran finale”.


                                        IL PREMIO ACQUI STORIA VERSO IL GRAN FINALE

                               

di Aldo A. Mola


Ieri e oggi

Per misurare l'abissale distanza tra quanti oggi occupano “la stanza dei bottoni” del potere e chi 150-160 orsono dette all'Italia unità e indipendenza, premesse della sua libertà all'interno e nella comunità internazionale, basta leggere qualche libro di storia, ma di storia vera, non quella che risolve le vicende degli Stati in arruffio di lenzuola e confonde la Voce delle nazioni con gridolini di sovrani, ministri o notabili di passo. “umani, troppo umani”. Il presidente del Consiglio Conte e molti ministri si ergono a nuovi Ercoli o addirittura a Prometei perché si occupano di dossier putrescenti (autostrade, Ilva, Alitalia...) e ne parlano come se stessero conquistando gli imperi degli Aztechi e degli Incas o sbarcando a Mindanao a fianco di Magellano, mentre le questioni di cui si occupano “salvo intese” (lotta all'evasione fiscale, riforma della burocrazia e dell'amministrazione della giustizia, declino della pubblica istruzione, bene descritto da Ernesto Galli della Loggia in L'aula vuota. Come l'Italia ha distrutto il suo sistema scolastico, ed. Marsilio) sono piaghe aperte da decenni (la prima autostrada ha quasi un secolo, mentre le strade nazionali sono ridotte male assai, ponti inclusi, malgrado le amorevoli cure dell'Anas; e le provinciali se la passano peggio...).


In principio furono Liborio Romano e i liberali del Mezzogiorno

Tutt'altra impresa fu fondere sette Stati in uno solo, come avvenne, al calor bianco, nel 1859-1860. Per capire l'incolmabile differenza tra l'oggi e quel passato prossimo (sono trascorse appena quattro generazioni), giovano le opere finaliste del Premio Acqui Storia 2020, le cui giurie si valgono di studiosi di valore (Maurilio Guasco, Francesco Perfetti, Massimo De Leonardis, Giuseppe Parlato, Giordano Bruno Guerri...), per limitarci alle sezioni scientifica e divulgativa. Tutte insieme le cinquine delle opere finaliste invitano a entrare nei meccanismi complessi della storia contemporanea (dal Settecento alla metà del Novecento) e a cogliervi le premesse dell'età presente per intenderne sintassi e grammatica.

In La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici, briganti, 1860-1870 (Laterza) Carmine Pinto conduce al centro del groviglio internazionale nel cui ambito nacque e si consolidò la Nuova Italia. Anche nel 150° della proclamazione del Regno (2011) studiosi insigni, come Domenico Fisichella, sintetizzarono l'intricata trama durata dall'età franco-napoleonica alla proclamazione del Regno (14/17 marzo 1861) nella formula “Miracolo del Risorgimento”, per tale intendendo un evento capace di concretare le speranze, le attese, i voti di moltitudini che si erano spesi per la sua realizzazione. Affinché l' “idea” divenisse “realtà” occorreva una forza catalizzante. Nel caso Italia, essa si identificò con l'allora quarantenne Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878), che nel volgere di pochi mesi da sovrano dei cinque milioni di abitanti dello Stato sardo divenne Re dei 22 milioni di italiani, avallato da richieste di annessione e plebisciti confermativi.

Con obiettività, Pinto va al di là delle sterili contrapposizioni tra Borbonia Felix e famelici “piemontesi” (evita accuratamente di menzionare l'autore di Terroni) e ricorda che il vero demiurgo del pacifico transito da Francesco II di Borbone al regime garibaldino fu Liborio Romano, nativo di Patù, presso Santa Maria di Leuca. Liberale, massone, già carcerato politico, esule e ministro dell'Interno del re delle Due Sicilie, come narra il suo biografo Nico Perrone egli giocò abilmente Francesco II e persino Camillo Cavour e il suo agente a Napoli, l'ammiraglio Carlo di Persano, e propiziò il pacifico trionfo del “Fratello” Giuseppe Garibaldi. 

Lasciata dov'è la fatua retorica dei primati delle Due Sicilie, dall'opera di Pinto emerge in via definitiva quanto fu chiaro ai protagonisti stessi. I Borbone (come bene scrive l'autore, a differenza di quanti preferiscono “Borboni”) erano ormai ristretti nella sola Spagna, uno Stato lacerato da feroci e inestinguibili guerre dinastiche, più clericale di Pio IX, con una sovrana screditata e una dirigenza abbrutita e incapace. Francesco Giuseppe d'Austria non poté neppure sognare di accorrere a sostegno del cognato, Francesco II, perché avrebbe dovuto attraversare i domini di Vittorio Emanuele II (questi ormai includevano Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche), mentre era ormai fuori portata il residuo Stato Pontificio. Prima che in Sicilia e al Volturno e che i sabaudi da Isernia entrassero in Campania forzando il passo del Macerone, “Franceschiello” fu sconfitto a Solferino e a San Martino nel giugno 1859, dalle annessioni e a Castelfidardo, ove le truppe di Pio IX vennero sbaragliate da Enrico Cialdini. Pinto giustamente ricorda quanti insigni meridionali da decenni si battessero per l'Unità: Carlo Poerio, Silvio e Bertrando Spaventa, Giuseppe Pica, Giuseppe Pisanelli, Pasquale Stanislao Mancini, che ebbe allievo Giolitti all'Università di Torino, Francesco De Sanctis, filosofo ancor più che storico della letteratura italiana. Sull'altro fronte erano l'arcivescovo Sisto Riario Sforza, che, come decine di vescovi e alti dignitari ecclesiastici del regno, fu sbrigativamente cacciato da Napoli perché tramava contro il nuovo governo. 


Il miracolo dell'Italia unita: oltre le divisioni

Il vero miracolo non fu la rapida sequenza di mosse politiche, diplomatiche e militari sublimata nella proclamazione del regno, ma la sua difesa da ogni insidia interna e internazionale. Il grande brigantaggio dilagante in tanta parte del Mezzogiorno tra il 1861 e il 1866, con strascico sino al 1872, costituì una spina nel fianco, estratta con metodi drastici dettati da chi, come Cialdini e il generale e ministro della Guerra del governo Cavour, Manfredo Fanti, avevano alle spalle la guerriglia in Spagna. Sapevano come condursi:“A brigante, brigante e mezzo”. Militari come Emilio Pallavicini di Priola capirono che il brigantaggio andava estirpato non solo col cordone sanitario tra il Napoletano e il Lazio di Pio IX, che ospitava e trattava regalmente Francesco II e sua moglie, Maria Sofia, e i loro paladini (José Borjes, Rafael Tristany...), ma facendo spietatamente terra bruciata attorno ai rivoltosi, finanziati dall'estero e con rapine e riscatti, declassandoli a criminali (quali del resto erano).

In quel decennio, il regno d'Italia trasferì la capitale da Torino a Firenze e infine a Roma, espugnata il 20 settembre di 150 anni orsono, vinse al tavolo della pace la guerra italo-prussiana contro l'Austria del 1866, unificò i codici (opera soprattutto di giuristi meridionali) e accelerò l'allestimento di infrastrutture in regioni che non avevano un chilometro di strada ferrata e la cui popolazione era analfabeta anche al 90%. Certo si può vivere di pane amore  e fantasia, ma così si esce dalla Storia. Può farlo un poetino, non una classe politica. La decrescita felice e l'elemosina di sussidi alle masse per mera esistenza in vita non sono solo smargiassate elettorali ma crimini ai danni delle generazioni venture, perché condannano gli italiani a ruolo subalterno perpetuo, da accattoni dimentichi del fior fiore di economisti e di politici di rango (Bettino Ricasoli, ora biografato da Christian Satto, pregevole concorrente all'Acqui Storia, Giovanni Lanza, Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio di esercizio), che ne propugnarono unità, indipendenza e libertà.    

In quello stesso decennio la Terza Italia dovette fronteggiare anche altre insidie: cospirazioni mazziniane, insurrezioni, come quella di Palermo del 1866, repressa ruvidamente dal giovanissimo sindaco marchese di Rudinì, l'epidemia colerica del 1867, infinitamente più devastante rispetto all'odierna endemia covid-19, e le due stravaganti alzate d'ingegno di Giuseppe Garibaldi, promotore della spedizione “Roma o morte” nell'estate 1862 e di quella tragicamente naufragata a Mentana nel novembre 1867 (ne hanno scritto il rimpianto Romano Ugolini e Cristina Vernizzi).

Lo Stato resse. Mostrò di sapercela fare e nel 1867 ottenne il pieno riconoscimento nella Comunità internazionale, alla pari con quelli esistenti da secoli. In pochi anni si dotò di esercito di leva, marina di prim'ordine, rete ferrostradale, servizi postali e telegrafici d'avanguardia, scuole (dal 1877 l'istruzione elementare divenne obbligatoria e gratuita), ospedali... 


L'Italia in 150 anni d'Europa 

Corroborato da una dirigenza che credeva nell'Italia, lo Stato crebbe come attestano i censimenti decennali. Certo rimase indietro rispetto alla Gran Bretagna, alla Prussia e alla Francia che, dopo il crollo di Napoleone III (1870), fu animata da Una certa idea di Repubblica da Gambetta a Clemenceau, garibaldino e democratico il primo, ipernazionalista il secondo (detto “il Tigre”per la sua veemenza aggressiva), entrambi figli della “Grandeur” e anticipatori della “monarchia repubblicana” di Charles De Gaulle, come bene argomenta Luigi Compagna nel brillante saggio finalista dell'Acqui Storia (ed. Carocci). 

A sua volta, la forza dell' “idea di Italia” si manifestò anche nella sventura. Lo documenta la vastissima ricerca condensata da Mario Avagliano e Marco Palmieri nell'opera sino a oggi migliore dedicata a I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz'armi (1943-1945) (ed. il Mulino), altro finalista dell'Acqui. Al di là del “rifiuto di massa” di aderire alla Repubblica sociale italiana, della opzione di una minoranza di accettarne la divisa per disparati motivi (anzitutto tornare in Italia, salvo passare nella Resistenza), e della spesso tragica vita nei lager, l'opera documenta aspetti poco noti, compresi i rapporti tra i 650.000 IMI e la popolazione germanica, il loro non facile rientro in patria e il reinserimento nella vita quotidiana, tra incomprensioni e ostilità. Analoga e talvolta peggiore sorte toccò a tanti altri prigionieri di guerra, in specie in Unione sovietica, ove, aveva scritto ruvidamente Palmiro Togliatti, la loro morte per stenti sarebbe stata una lezione per defascistizzare gli italiani (lo ha ricordato Aldo G. Ricci nel mensile “Storia in Rete”, luglio-agosto). 


Il “fratello” Concetto Marchesi nell'Opera di Luciano Canfora

Togliatti torna in molte pagine dell'opera di Luciano Canfora Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza), poderosa non solo perché di oltre mille pagine ma per la vastità della ricerca e la profondità dei giudizi. Tra i rari storici italiani spazianti con padronanza dall'antichità classica alla contemporanea (valgano d'esempio La democrazia. Storia di un'ideologia e L'uso politico dei paradigmi storici), Canfora percorre  minutamente la vita di Marchesi (schedato quale “sovversivo” sin dalla giovinezza, principe dei classicisti, Rettore dell'Università di Padova ove gli subentrò Carlo Alberto Biggini, al centro di un ottimo capitolo), militante  del Partito comunista e suo deputato alla Costituente. Marchesi votò contro l'inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione della Repubblica, come Teresa Noce, moglie di Luigi Longo. Canfora calibra quella coraggiosa decisione di Marchesi alla luce dell'elogio che poi egli scrisse del massone Silvio Trenti, così epigraficamente suggellato: “Onore a te, fratello. Onore a te che non ci lasci più, e resti fermo e costante nell'animo nostro che a volte vacilla e si stanca”.

Il “sogno di un'Italia libera” è anche al centro del quinto volume finalista nella sezione scientifica dell'Acqui Storia, L'intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg (ed. Neri Pozza-Bloom). Angelo D'Orsi, autore di molti saggi sulla cultura a Torino tra le due guerre, intellettuali del Novecento e Gramsci (di cui ha scritto una nuova biografia per Feltrinelli), vi condensa precedenti studi preparatori. Testimone della libertà critica dell'umanista, militante di “Giustizia e Libertà”e del Partito d''Azione, Ginzburg si staglia “a un'altezza ideale e politica non minore di quella dei grandi”, come osservò Leo Valiani in una lettera a D'Orsi, a giudizio del quale staremmo vivendo “tempi in cui il fascismo sembra tornare cupamente d'attualità”: una sensazione sua, poco condivisa.


Gennaro Sangiuliano: lo spettro incombente del confucianesimo

Anziché il supposto “fascismo” (quale?), molti altri e cogenti sono in realtà i problemi con i quali l'Italia attuale e l'Unione europea, di cui è “provincia”, oggi debbono misurarsi, a giudizio delle opere finaliste nella sezione divulgativa dell'Acqui Storia. Vi torneremo. Basti qui accennare all'acuto studio su Il nuovo Mao. Xi Jinping e l'ascesa del potere nella Cina di oggi di Gennaro Sangiuliano (ed. Mondadori), autore di fortunate opere su Hillary Clinton, Vladimir Putin, Trump e, eccellente, su Giuseppe Prezzolini. Il disegno complessivo della Cina contemporanea, che si muove sulla scia della Lunga Marcia di Mao-Ze-dong, della violentissima Rivoluzione culturale e della modernizzazione attuata da Deng Xiao Ping è incardinato sul “dogma culturale del confucianesimo”, apparentemente “neutro” dinnanzi a interrogativi posti nei millenni dal pensiero greco-latino e poi cristiano. I cinesi  in realtà mirano all'egemonia planetaria dall'Africa all'Europa medesima, che essi stanno comperando al minuto e all'ingrosso, in attesa di passare all'incasso finale: il dominio culturale, accompagnato (come si vede a Hong-Kong e nello stesso sub-continente cinese) dalla brutale repressione di ogni forma di dissenso, politico e religioso, e di minoranze etniche scomode.  

A cinquantatré anni dalla fondazione, l'Acqui Storia nato per rievocare la tragedia della Divisione Acqui a Cefalonia nel settembre 1943 si conferma il premio storiografico più prestigioso e ambìto. Non per caso in un anno segnato da enormi difficoltà per l'editoria e dal forzato rinvio di eventi come il Salone del Libro di Torino, di convegni e dibattiti culturali (prima i bar e i ristoranti, i centri estetici per ominidi e altri animali, secondo i famigerati Decreti del presidente del consiglio dei ministri) i concorrenti sono stati ben 168: un primato eloquente.

Domenica 13 settembre si annuncia un “gran finale”.


Aldo A. MOLA


DIDASCALIA: Dipinto di Gioacchino Toma (Galatina, 1836-Napoli, 1891), "Piccoli garibaldini" (Bergamo, proprietà Davide Cugini). I due bambini della Nuova Italia guardano e salutano Vittorio Emanuele II e Garibaldi.