Nell'emergenza, massima chiarezza

La Costituzione (pensata e scritta quando in Italia gli stranieri erano pressoché irrilevanti e gli “esuli” erano gli avversari del regime rientrati dopo il suo crollo) riconosce a “ogni cittadino” il diritto di “circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale”, salve le limitazioni stabilite dalla legge “in via generale per motivi di sanità o di sicurezza” (art. 16). Proprio perché dettati da conclamata emergenza, le norme eccezionali debbono attenersi alla regola aurea: “in claris non fit interpretatio”. Vanno scritte in termini chiari e univoci, a garanzia delle inviolabili libertà di tutte le persone presenti sul territorio nazionale, inclusi i milioni di abitanti senza cittadinanza e gli “stranieri”, tutelati dalle convenzioni nel frattempo sottoscritte dalla Repubblica. La chiarezza vale anche per chi è chiamato ad “amministrare” i provvedimenti emergenziali. Li mette sull'avviso e al riparo da ricorsi contro loro eventuali abusi di potere. Non sarebbe la prima volta.

Purtroppo, sin dalla pubblicazione nella “Gazzetta Ufficiale”, preceduta da normale e nondimeno colpevole “fuga di notizie” a opera di “ignoti” (ma prima o poi se ne dovrà venire in chiaro, a salvaguardia della credibilità del governo), i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) hanno dato adito a molteplici dubbi, sinora mantenuti sottotraccia per carità di patria. A partire dalle imprecisioni terminologiche e dalle conseguenti difficoltà interpretative ingenerate dal “combinato disposto” del provvedimento che una settimana addietro ha stabilito di “evitare ogni spostamento delle persone fisiche” in entrata e in uscita dalla Lombardia e province limitrofe e di quello che l’indomani ha esteso tale misura a tutto il Paese. Evitare gli “spostamenti”. Con quale mezzo? A piedi? In velocipede? Coi trasporti pubblici, di cui pure si rivendica il regolare funzionamento nonostante l’emergenza? E in quali “territori”?Lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune o forse anche la dimora, la “casa” e le sue “pertinenze”? “Territorio” è troppo generico. A rendere ancor più impervia l'applicazione di simili “misure” e opinabili le sanzioni comminate per la loro violazione contribuiscono i “poteri locali” con provvedimenti incoerenti, contraddittori, spesso palesemente impraticabili. E con non richiesti e immotivati “suggerimenti” pressanti. È il caso, per citarne uno fra i molti, del divieto di passeggio nei parchi urbani (per altro rari e non sempre apprezzati per cure specchiate da parte delle amministrazioni), cioè in uno tra i rari “sfoghi” per la attività motoria dei cittadini, raccomandata da tutti i medici e  che non può essere ragionevolmente praticata nelle abitazioni (spesso poco più che abitacoli, poco o nulla aerati: quante solo le camere e i bagni privi di “doppia aria” o almeno di una?). Sic stantibus rebus, la salute è meno a rischio in camporella che tra quattro pareti di condominii angoscianti o in viuzze di rado raggiunte da un raggio del Sole Invitto.

Non bastasse, mentre i DPCM hanno ovviamente indicato un termine a quo e uno ad quem, “dall'alto” si lascia intendere che la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado verrà prorogata almeno sino alla ancora lontanissima Pasqua. Tale protrazione trarrà con sé a strascico tutte le altre misure messe in vigore in questi giorni?

Decreti che strizzano l'occhio, inducono i cittadini a prendere le loro cautele. Poiché la limitazione delle libertà fondamentali per conclamata emergenza, e quindi per il periodo più breve possibile, costituisce un precedente di assoluta gravità, è lecito domandarsi se la sua “proposta d'uso” abbia i requisiti indispensabili a renderla efficace, in ragione della “riserva di legge” stabilita in materia dalla Costituzione. E se la sua applicazione avvenga nel rispetto dei diritti o non dia adito, piuttosto, a interpretazioni applicative vessatorie da parte di “vigilanti” che talora ricordano i gabellieri degli antichi borghi, più inclini a “far cassa” che a rispettare i viandanti. Oggi non sono in gioco gli usuali taglieggiamenti per mancato rispetto dei limiti di velocità su rettilinei assolati in ore di morta o per sosta in parcheggi con una ruota fuori dalla linea bianca (come accaduto in una “antica capitale”), ma, come detto, diritti di libertà garantiti dalla Costituzione. Perciò vegliare sul loro rispetto è d'obbligo, anche perché la Piramide dei poteri ricorda un po' l'Olimpo descritto da Omero: mentre greci e troiani si scannavano, ogni dio e ogni dea pensava anzitutto ai fatti propri, un po' meno ai figli, a volte un po' semidei, a volte meno. 

Torna dunque d'attualità una domanda antica.


Governare gli italiani è inutile?

In “Colloqui con Mussolini” (Mondadori, 1932) lo scrittore Emil Ludwig (Breslavia, 1881 - Ascona, 1948) narra di aver domandato al “duce” se sia difficile governare “gente così individualista ed anarchica come gli italiani”. Il duce gli rispose: “Difficile? Ma per nulla. È semplicemente inutile”. Ludwig aveva alle spalle le fortunate biografie di Napoleone (1926), Goethe, Bismarck, tuttora classici ristampati, e quella, assai discussa di Gesù (1928). Poligrafo, amava scandagliare l'animo dei personaggi storici del passato remoto e dei contemporanei che via via riuscì a intervistare. Subito prima di Mussolini dialogò con Stalin, che gli espose la sua visione del marx-comunismo e motivò il suo duello mortale con Trotzky, che un decennio dopo fece assassinare con ferocia. Biografato da Margherita Sarfatti in “Dux” (1926: un bel sostegno a Mussolini dopo l'affaire Matteotti-Dùmini e nel pieno delle leggi fascistissime), Mussolini si appagò di colloquiare con il celebre poligrafo ebreo (Ludwig era “nome de plume” di Emil Cohn), che pubblicava in Gran Bretagna e negli USA. Gli ostentò quanto poteva di cinismo spacciato per  machiavellismo imparaticcio e la disistima di fondo verso gli italiani. Si atteggiò a quel che voleva apparire: l'uomo del Destino. Ludwig tornò sulla sua figura nel trittico “Hitler-Mussolini-Stalin” ora riproposto col titolo “I dittatori non cadono dal cielo. Sono i popoli che vogliono esser schiavi” (ed. Mind), perché di quando in quando si rifugiano nell'irrazionalità più sfrenata e abdicano all'autocontrollo, all'uso dei poteri loro riconosciuti e si concedono al “dittatore” di turno. Ludwig aveva vissuto la catastrofe della Grande Guerra, la cui genesi e il cui sviluppo sfugge tuttora a ogni spiegazione razionale. Con ogni evidenza e al di là di ogni tentativo di “giustificazione”, nel 1914 la storia “scappò di mano” a chi ne aveva o credeva averne il controllo. Le conseguenze sono ancora sotto gli occhi.

Il celebre aforisma sull'inutilità di “governare gli italiani”, ripreso da Giulio Andreotti, fu attribuito anche allo statista liberale Giovanni Gìolitti (1842-1928), cinque volte presidente del Consiglio dei ministri. Nulla di più errato. Anzi, di falso. A chi gli domandava quale fosse il dovere dell'Esecutivo rispose: “Venta governè bin”. Governare bene significa conoscere la realtà ed emanare norme a sua misura. Giolitti lo fece da insuperato statista d'Italia.


Le radici del ginepraio attuale: “gubernare necesse”

Senza smarrirsi nell'aneddotica, il fatuo motto mussoliniano va capovolto: governare gli italiani (come ogni altro popolo) è utile, anzi necessario. Però è molto difficile, se si percorre la via della democrazia parlamentare. Non perché gli italiani siano più individualistici e anarchici di altri popoli della Vecchia Europa, ma perché le istituzioni e le norme vigenti nello Stato d'Italia sono una rete labirintica plurisecolare dalla quale anche la volontà più energica fatica a districarsi. Era più facile farlo ai tempi di Augusto, quando Virgilio a “governare” preferì il cesariano “reggere”. Prima di ricordarne sinteticamente le motivazioni remote e recenti, va premesso che, a conti fatti, oggigiorno gli Stati “nazionali” europei di peso demografico ed economico rilevante si contano sulle dita di una mano e non se la passano affatto meglio dell'Italia. La Spagna è attanagliata dalla rivendicazione dei catalani che chiedono di costituirsi in repubblica indipendente, mentre il governo rosso paonazzo Sánchez-Iglesias riapre il solco tra cattolici e anticlericali infatuati. Nessuno è in grado di prevederne lo scenario a dieci anni da oggi. Lo stesso vale per la Francia, che regge solo grazie a una macchina che risale a Luigi XIV, a Napoleone I, a Clemenceau e a De Gaulle: uomini forti in tempi eccezionali. Nulla di paragonabile a Macron che in un paio di giorni ha declassato gli “assembramenti” da 1000 a 100 persone e tra un po' dovra scenderà a 10. La Germania sta precipitando nel conflitto tra un “centro” sempre più debole ed estremismi sempre più aggressivi, radicati nell'arretratezza generata dalla sconfitta del 1945 e dal dominio sovietico, che lì e a Praga ebbe i suoi strumenti più canaglieschi. Non se la passa benissimo la Gran Bretagna, teatro di risorgenti contrapposizioni plurisecolari tra Scozia e Inghilterra e tra Londra e Irlanda, con il noto irriducibile conflitto confessionale tra cattolici e anglicani e fra questi e le molte denominazioni evangeliche, con lo sfondo di islamici dalle varie accentuazioni. Gli altri Stati e staterelli d'Europa ostentano a volte arroganza pari alla loro non enorme rilevanza: dall'Austria all'Ungheria e alla Boemia, sino ai Paesi baltici, croce e delizia dei filatelici.

Sorto quasi d'improvviso, dalla seconda “tempesta magnifica” in appena un decennio (1859-1861), lo Stato d'Italia ebbe dall'origine avversari interni irriducibili. Il suo blocco dirigente (Destra e Sinistra storica: due screziature di una medesima concezione dell'uomo e del cittadino) resse perché i suoi nemici più strenui (i clerico-papisti e i mazziniani duri e puri) si astennero dal voto politico e quindi, anche grazie alla legge elettorale che saggiamente riservava il diritto di voto a cittadini consapevoli e proclivi a sostenere il “regime”, gli consentirono di mantenere il monopolio della rappresentanza parlamentare senza avere quella del Paese. Maggioritario nell'esercizio del potere, quel blocco era e rimase minoritario nel consenso di un’opinione che non v'era motivo di “consultare”. Suo massimo garante fu Vittorio Emanuele II, che, dall'alto delle valli ove andava a caccia, oggi scorre divertito, gli strali che a duecento anni dalla nascita gli vengono lanciati anche in quotidiani della antica capitale del suo Regno (di Sardegna prima, d'Italia poi). Sopportò da vivo, figurarsi da morto. Non dimentica che l'Uomo cosmico-storico  non lo è per il cameriere, solo perché il secondo è quello che è.

Consci di camminare sulle uova, dopo l'Unità governi e Parlamento si mossero con somma cautela per non moltiplicare gli avversari. Dalle sue lettere emerge che Vittorio Emanuele II teneva continuamente d'occhio i “masiniens”, i cui propositi erano privi di prospettive nell'Europa di Napoleone III, Bismarck, Francesco Giuseppe, ma avrebbero potuto avere la meglio se le istituzioni si fossero mostrate impari alla loro funzione, come avvenne in Spagna dopo l'abdicazione di Amedeo I di Savoia e l'avvento della catastrofica prima Repubblica. I ministri del Re erano a loro volta perfettamente consapevoli delle difficoltà di navigazione del giovane Stato unitario. In una lettera del 1° maggio 1870, recentemente proposta da Rosanna Roccia, lo ricordò Urbano Rattazzi a Michelangelo Castelli che stava scrivendo la genesi del “connubio” di vent'anni prima tra la sinistra democratica (da lui capeggiata) e Camillo Cavour: “I principi che dovevano inspirare il nuovo partito (poi detto di centro-sinistro, NdA) erano principalmente due, cioè all'interno resistere a qualsiasi tendenza reazionaria e nel tempo stesso promuovere, per quanto le circostanze lo permettessero, un continuo e progressivo svolgimento della libertà consentito dal nostro Statuto, sì nell'ordine politico come in quello economico ed amministrativo”. Propiziata da Castelli e da Domenico Buffa, l'intesa tra Cavour e Rattazzi fu la base della storia d'Italia sino alla Grande Guerra: essa contenne le linee fondamentali dei governi seguenti, inclusi quelli di Francesco Crispi e di Giolitti.

Tra i suoi capisaldi vi fu la legge sulle amministrazioni comunali e provinciali del 23 ottobre 1859 varata per il regno di Sardegna (all'epoca già comprendente la Lombardia, per effetto dell'armistizio di Villafranca) e passata pari pari nel regno d'Italia, con poche modifiche e sempre in direzione più liberale. La sua “ratio” era la conciliazione tra la monarchia rappresentativa e gli interessi locali, grazie alla mediazione della Camera elettiva i cui componenti rappresentavano la Nazione e non le province di elezione ed erano liberi da ogni “mandato imperativo” dei loro elettori (art. 41 dello Statuto).


La missione dell'Italia: ieri e oggi

Appena nato, però, quel povero Regno d'Italia dovette fare i conti con la missione che gli era imposta dalla geografia, che non pratica sconti alla storia: concorrere ad ampliare i confini dell'Europa in Africa e sino alla Cina e al Giappone. In un Paese poco avvezzo a pagare tasse e imposte, preso nella tenaglia di Quintino Sella (“lesina” da un canto sulle uscite, tassa sulla macinazione delle farine dall'altro), l'Italia dovette “fare politica estera” in un'Europa inquieta. Significava spendere per le Forze Armate e costruire lo Stato al proprio interno. Una fatica immensa. Quando, con la sconfitta nei presso di Adua (Etiopia) stette per vacillare, fu il celebre esploratore inglese Harry Stanley a dire che l'Italia doveva continuare a farsi carico del “fardello dell'uomo bianco”. Continuò con le colonie di Somalia (1907) e di Libia (1912). Ma l'intervento nelle due fasi della Guerra di Trent'anni (1914-1945) hanno spossato l'Italia, ne hanno squassato la cornice istituzionale, indebolita e allentata la catena di comando. L'arroganza della burocrazia non è solo quella oggi narrata dall'aneddotica vissuta a ridosso dei Poteri Centrali. È ormai caleidoscopio dei potentati locali: regioni a statuto speciale, aspiranti autonomie rafforzate, città metropolitane, sindaci che si credono podestà... e poi, appunto, i “gabellieri” che si aggirano sui confini dei comuni...

Ma chi sa davvero quali siano i confini degli 8.000 comuni d'Italia? Si va dai 302.000 kmq di Roma a comunelli di un paio di chilometri e con meno di 100 abitanti. I più vasti (a parte Ravenna e Ferrara) sono nell'Italia centro-meridionale. I più piccoli nel Vecchio Piemonte. Tra le cose ben fatte (ne fece anch'esso), il governo Mussolini ne incorporò molti. Ma nel 1945 tante frazioni tornarono indipendenti: senz’acqua potabile né rete fognaria, né altro, ma “libere”.

Se davvero l'Italia vuol ripartire, deve farlo immergendosi nell'acqua tonificante della propria storia. Come nella Fontana della Giovinezza del Castello della Manta: emblema di un mondo nel quale ci si ripeteva il saggio “Memento mori” e si cantava il “Gaudeamus igitur...”.

Un bell'esame di coscienza vien bene in Quaresima, all'insegna del “Discernimento” al quale richiama papa Francesco, gesuita. Ci esorta a comprendere che dalla storia non si scappa. Possiamo fingere di non avere un passato: epperò esso ci grava sulle spalle. Non ci si libera chiudendo confini, cancelli, giardini.... Semmai, all'opposto, occorre ampliare gli orizzonti come l'Italia seppe fare alle sue origini: aria, luce, pulizia; leggi chiare, non la pioggia di “grida” manzoniane, e loro corretta applicazione, nel rispetto degli inderogabili diritti di libertà costituzionalmente garantiti.


Aldo A. MOLA