GIOLITTI. LE VACANZE DI UNO STATISTA

In ricordo dello statista Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842 - Cavour, 17 luglio 1928), pubblichiamo l'editoriale del Giornale del Piemonte e della Liguria del 18 luglio 2021, a cura del Prof. Aldo Mola.  


Sognando il “villino” a Bardonecchia 

“Ho ricevuto da Bardonecchia il piano dell'alloggio proposto, mi pare convenientissimo. È un villino con quattro camere a piano terreno, cinque al primo piano, tutte disimpegnate, altre due camere di fianco per persone di famiglia, cucina e cantina nel sotterraneo. Prezzo 800 lire, meno di quel che si pagava a Courmayeur. Tutte le camere palchettate. Ho già scritto fissandolo per l'estate prossima”. Da Roma, il 19 ottobre 1902, Giovanni Giolitti così descrisse alla moglie, Rosa Sobrero, Villa Suspize, che dall'estate seguente divenne la loro dimora estiva. Metodico e pragmatico lo Statista guardava avanti all'insegna del Volere è potere del suo amico Michele Lessona. Procedeva nel solco di Camillo Cavour, Giovanni Lanza e Quintino Sella, che lo riceveva nell'ufficio di ministro alle sei del mattino, e della vastissima dirigenza politico-burocratica che stava costruendo la Nuova Italia. All'opposto di quanto si diceva e si ripete, gli “italiani” c’erano da millenni, mentre ancora bisognava “fare l'Italia”: costruire lo Stato unitario dopo secoli di dominazioni straniere, con qualche alleato, nessun amico e la faglia aperta da Pio IX che ancor prima di Porta Pia vietò ai cattolici di votare e farsi eleggere alla Camera dei deputati.

Negli anni della Moda della vacanza narrata da Maurizio Francesconi e Alessandro Martini (ed. Einaudi, finalista al Premio Acqui Storia 2021), Giolitti non aveva mai fatto “vacanze”, se per tali s’intende evasione dalle cure e dai munera. Per lui erano inimmaginabili a inizio Novecento, nell'Italia sbigottita dal regicidio di Monza, alle prese con i grandi scioperi per vertenze salariali, non ostacolati dal governo, e, peggio, nei pubblici servizi, fermamente vietati perché violavano diritti dei cittadini.

Però, come nei mesi del fidanzamento con la “Carissima Gina”(ome Rosa era detta in famiglia), talvolta alzava gli occhi da carte e carpette e volava col pensiero alle sue valli, così, da ministro dell'Interno nel governo guidato da Giuseppe Zanardelli (1901-1903) e da presidente del Consiglio (a vari intervalli tra il 1903 e il 1914), nella calura affannata di Roma gli accadeva di agognare le sue due ville di Cavour e le valli alpine. Da sposato, per anni aveva trascorso qualche settimana d'estate nella sua originaria Valle Maira, nelle valli Po (una volta ascese in vetta al Monviso sull'esempio di Sella, fondatore del CAI) e Pellice e a Courmayeur, lontano da Gressoney, ove con ampio seguito di cortigiani estivava la Regina Margherita. Gli accadde anche di salire a Sant'Anna di Valdieri, per incontrarvi Umberto I, conscio che lo Statista, sempre in dialogo con l'ex ministro della Real Casa Urbano Rattazzi jr, era il bastione subalpino della Corona.

Tornato titolare dell'Interno, nel 1901-1903 Giolitti fu assillato da emergenze da tenere ben segrete, come un focolaio di peste bubbonica a Napoli (altrettanto venne segnalato a Venezia dieci anni dopo: poiché non ne impedì la propalazione il prefetto Amedeo Nasalli Rocca fu defenestrato). Nella ridda delle centinaia di telegrammi quotidianamente scambiati tra Palazzo Braschi e le prefetture di un Regno unito da soli quarant'anni (appena trenta, se si data l’unificazione dall'annessione di Roma), il sessantenne Giolitti apprese presto a conoscere il trentunenne Vittorio Emanuele III. Ne scrisse a Gina il 27 dicembre 1900, poco prima della crisi del governo presieduto dall'ottantenne Giuseppe Saracco, nativo di Bistagno presso Acqui Terme. Il Re lo aveva ricevuto “alle 10 ¾” e lo aveva trattenuto “poco meno di un'ora parlando delle quistioni politiche che interessano più l'Italia, senza però, come è naturale, parlare di persone”. “Mi pare - aggiunse - abbia buon senso, e capisca bene la posizione del nostro paese. Qui vi è un mondo di intrighi, dai quali resto fuori del tutto, avendo a chi mi parla detto chiaramente il mio modo di vedere”.

Il malcostume politico peggiorava di anno in anno. All'indomani del suicidio di Pietro Rosano, da lui voluto ministro della Giustizia, l'11 novembre 1903 Giolitti scrisse: “Fu un vero assassinio commesso dai suoi calunniatori (…) Domani vado a San Rossore per conferire col Re”. Il primo soggiorno estivo a Bardonecchia era ricordo struggente. Considerava “vacanza” le corse in treno da Roma a Pisa per colloqui riservatissimi, in piemontese, con Vittorio Emanuele III nella quiete operosa di San Rossore. Come il Giosuè Carducci di Davanti San Guido, contemplando il paesaggio dal finestrino del treno ripercorreva l'intreccio della vita sua con quella dell'Italia e ne tracciava il bilancio in poche frasi vergate per la moglie, ancor più schiva di lui anche quando, il 20 settembre 1904, divenne Collaressa dell'Annunziata ed ebbe diritto al titolo di “Sua Eccellenza, Donna Giolitti”.

Se la presidenza del Consiglio e il ministero dell'Interno per Giolitti erano “la Ragione”, dal 1902 Bardonecchia, prima ancora di viverla come avrebbe voluto, divenne “il Cuore”. Rimaneva sottotraccia, quando volgeva leopardianamente lo sguardo al passato. Il 27 ottobre 1906, sempre alle prese coi lavori del Parlamento, da Roma scrisse alla moglie: “Oggi compisco i 64 anni; mi par ieri che avendone 26 mi pareva di essere troppo vecchio! Come passa il tempo!”. Il 19 giugno 1909, “oberato di lavori per Camera e Senato, udienze e simili”, avvertì la consorte che in due o tre settimane avrebbe finito “il lavoro” e allora sarebbero andati “a Cavour e poi a Bardonecchia”. “E se giungerai colà in buona salute – aggiunse - potremo ricominciare quelle passeggiate nei giardini e in campagna che ci ricordano i tempi migliori quando potevamo restare lungamente insieme”, lontano da “questo bel mestiere che altri chiama le gioie del potere”.


Buen retiro a Cavour e “Bardonecchia dello schermo”

È questo lo Statista che emerge dalle partecipi pagine del saggio scritto dalla professoressa Antonella Filippi su Giolitti a Bardonecchia, con prefazione di Chiara Rossetti, Assessore alla Cultura del Comune di Bardonecchia (ed. Alzani). La cittadina alpestre gli piacque perché era comodissima per chi dovesse raggiungerla in treno direttamente da Roma e al tempo stesso appartata quanto gradiva chi, come lui, amava la riservatezza. Da Cavour vi arrivava con la linea ferrata Pinerolo-Torino. Di gamba buona, tanti anni prima andava a piedi da Cavour a Pinerolo, ma, confidò a Gina il 5 maggio 1879, solo se non pioveva. La “lunga passeggiata” gli era abituale, come da Torino a Rivoli e ritorno, sempre a piedi e a volte sotto piovaschi improvvisi, mentre era commissario governativo alle Opere Pie di San Paolo, che trasformò in banca “di sicuro successo”.

Una volta Bardonecchia gli servì da schermo. A pochi chilometri da Racconigi, le due ville a Cavour (quella avita dei Plochiù e l'altra, ai piedi della Rocca, ereditata dallo zio Luigi, alto magistrato) per Giolitti erano buen retiro ma anche opportunità per contatti segreti con il Re. Il 26 settembre 1909 chiese udienza al Vittorio Emanuele III anche in veste di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo. “Sua Maestà - scrisse alla moglie -  mi fece telegrafare ieri sera dal generale Brusati (aiutante di campo del Re, NdA) invitandomi a pranzo per stassera (lunedì) e avvertendomi che mi mandava a prendere in automobile, il quale mi avrebbe poi stassera stessa ricondotto a Cavour”. Il colloquio non era affatto “di circostanza”. Il presidente del Consiglio, Luigi Luzzatti, stava moltiplicando proposte di legge stravaganti: un aggrovigliato ampliamento del diritto di voto e la parziale elettività del Senato. Bisognava fermarlo. D'intesa col Re, Giolitti lo fece nei mesi seguenti, sino a determinarne le dimissioni col discorso del 18 marzo 1911. Riprese le redini del governo, per dar inizio al “grande ministero” nel cinquantenario del Regno d'Italia, con Ernesto Nathan sindaco di Roma.

Tornato presidente, nell'estate del 1911 Giolitti si concesse qualche giorno di apparente riposo tra Bardonecchia e Frascati, ove, mentre ostentava di “passare le acque” (come aveva fatto ad Aix-les-Bains l'anno prima), architettava ben altro di concerto con il Re e con il ministro degli Esteri, Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano. A metà settembre Bardonecchia gli venne bene per celare le sue mosse. Prima di partire da Roma per il Piemonte fece trapelare che avrebbe raggiunto la consorte in val Susa. A quel modo, da scaltro ministro dell'Interno uso a sottrarsi alla “scorta” (appena un uomo, a volte in bicicletta), depistò tutti. Giunto a Torino, “svoltò” e in incognito per Cavour, ove l'indomani ancora fu prelevato dall'auto dell'aiutante di campo che lo recò segretamente al Castello di Racconigi. Lì in un colloquio senza verbale il Re definì con lui tempi e modi dell'imminente dichiarazione di guerra all'impero turco-ottomano per la sovranità dell'Italia su Tripolitania e Cirenaica. A cose fatte, il 17 settembre da Cavour spedì un biglietto a “S.E. Rosa Giolitti-Sobrero, Bardonecchia, Provincia di Torino”, inconsuetamente chiuso in busta bianca. Senza accennarne il motivo, avvertì che doveva tornare “quasi subito” nella Capitale e non avrebbe potuto starne lontano “lungamente”. Assicurò nondimeno che “di salute stava bene”: “dormo bene e mangio con appetito”, una cifra convenzionale per assicurare che tutto procedeva al meglio, anche “in alto”.

In realtà in quella torrida estate combatteva la titanica lotta contro i “disturbi” inflittigli dall'uricemia. Proprio soggiornando a Bardonecchia un tempo tentò di vincerli con metodi molto “artigianali” o almeno alleviarli con i consigli del senatore Tommaso Senise e le cure che gli prestava il “medico Balcet, veramente intelligente e simpatico”.

Come, documenti alla mano, ricorda la professoressa Filippi, a Bardonecchia Giolitti rimase a  lungo nel 1912, per seguire “da vicino” i preliminari della pace italo-turca di Losanna, ove si valeva di due emissari di fiducia quali Giuseppe Volpi e Bernardino Nogara, giovanissimi di talento superiore. Altrettanto avvenne nell'estate del 1920, durante il suo V e ultimo ministero, quando a inizio settembre la scioperomania degenerò in occupazione delle fabbriche e in molti contarono (altri temettero) che davvero i socialcomunisti volessero “fare come in Russia”.


Lontano da Roma...

Neppure a Villa Suspize a Bardonecchia, come nelle sue due ville di Cavour, Giolitti installò il telefono. D'altronde era stato lui ad attivare le intercettazioni telefoniche. Anziché una “rubrica telefonica” portava con sé un foglietto con gli indirizzi dei figli e degli amici fidati. In Cavour per lui funzionava la postazione telegrafica installata alla Locanda della Posta, con vantaggio della sua quiete personale, ma a svantaggio del Paese, perché il personale andava a nanna quando la locanda-albergo chiudeva. Avvenne a fine ottobre del 1922. Tra festeggiamenti per l'ottantesimo compleanno, stasi e lentezze nella decrittazione dei messaggi cifrati che giungevano da Roma, il 27-28 ottobre lo Statista mancò all'appuntamento della storia. Il Re costrinse Facta a convocarlo telegraficamente alle 5 del mattino del 28 ottobre; ma Giolitti ne ebbe notizia quando ormai era tardi. I costituzionali e i “poteri forti” avevano optato per un governo di coalizione nazionale presieduto da Mussolini, contando di imbrigliare le camicie nere.

Nella separazione tra “pubblico” e “privato” a suo modo Giolitti imitava Vittorio Emanuele III che da Villa Savoia si recava al Quirinale talvolta guidando di persona l'automobile (che Giolitti non ebbe mai), come andasse in ufficio: Capo dello Stato, comandante delle forze di terra e di mare e “primo impiegato dello Stato”. Entrambi erano di esempio, anche nell'“uniforme”, da indossare quando lo chiede il rito, ma senza farlo pesare, come appunto Giolitti fece per gli abitanti e i villeggianti di Bardonecchia nei suoi soggiorni. Vi cercava quiete, non fasto; né quindi intendeva recare fastidio.


La Scuola: porro unum et necessarium...

Il denso saggio scritto dalla professoressa Filippi per l'Amministrazione civica di Bardonecchia richiama l'attenzione sull’istituzione di borse di studio intitolate a Giolitti. La modernità e lungimiranza dell'iniziativa meritano qualche ulteriore appunto. L'iniziativa fu promossa dal marchese Marco Aurelio di Saluzzo, senatore, già deputato e sottosegretario di Stato, vicepresidente del Consiglio provinciale di Cuneo. Il 29 maggio 1922 la Deputazione stanziò diecimila lire a sostegno dell'iniziativa, “più che utile, necessaria”. Il 23 ottobre Giolitti presiedette la seduta aperta con l'omaggio della medaglia d'oro donatagli dal Consesso di cui era membro dal 1886 e che presiedeva dal 1905. Nel discorso augurale il marchese di Saluzzo annunciò con soddisfazione che la fondazione delle borse di studio stava ottenendo il concorso “di ogni ceto di persone, dalle più eccelse alle più umili, da ogni regione d'Italia e persino dalle più lontane colonie”. Il 13 agosto 1923, assente lo statista, sempre ritroso quando si trattava di “fatto personale”, il Consiglio approvò il minuzioso regolamento per il conferimento delle borse, da 1000 a 4000 lire ciascuna, da erogare ai vincitori sino al compimento del corso, con precedenza per quanti versavano in più disagiata condizione economica e finanziaria (debitamente documentata), per orfani di guerra, figli di invalidi bisognosi e per “i maschi in confronto delle femmine” (art. 5, i tempi erano quelli). Il concorso, nazionale e di straordinaria lungimiranza, previde la corresponsione delle “Borse Giolitti” affinché potessero perfezionarsi all'estero “in qualsiasi ramo di attività professionale, industriale o tecnico”. Quell'Italia pensava in europeo, come chiesto da Giolitti nel discorso programmatico del 12 ottobre 1919, ribadito in interviste a quotidiani e alla Camera, in cui ribadì che “per il risorgimento economico dell'Italia, per metterla in condizione di sostenere la concorrenza dei popoli più progrediti, una riforma soprattutto si impone(va): la completa trasformazione dell'istruzione pubblica, che è, fra tutte le nostre istituzioni, quella che procede con maggior disordine e con minor efficacia, mentre non vi è pubblico servizio il cui disordine abbia effetti così deleteri dal punto di vista del valore di un popolo, poiché un popolo tanto vale quanto sa”. Allo scopo le cattedre andavano rimesse a concorso ogni dieci anni, per costringere i docenti ad aggiornarsi per non finire fuori ruolo a beneficio di giovani più preparati. Cent'anni orsono la Scuola per Giolitti era il perno dell'Italia, come lo era stata per Michele Coppino e Francesco De Sanctis.

Secondo lo storico Sergio Romano, Giovanni Giolitti incarnò “lo stile del potere”. La professoressa Filippi documenta che egli coniugò felicemente il rango e i munera di Statista sommo della Nuova Italia con la vita privata, all'insegna del “senso dello Stato”, patrimonio precipuo consegnato dal Vecchio Piemonte al Regno d'Italia. Uno stile sintetizzato nelle formule “venta governè bin” ed “esageroma nen”. Sono i criteri che ispirano la felice narrazione di Giolitti a Bardonecchia proposta anche nella forma di dialogo tra lo Statista e il leopardiano “errante a Bardonecchia”, invitato a sostare e a interrogarsi sul raccoglimento di Giolitti nella pace della conca dominata dal Bramafam: l'orgoglio di “servire lo Stato” senza ostentazione.

Il Percorso Giolitti , di imminente inaugarzione, e il libro che lo illustra e lo accompagna costituiscono un nuovo e felice modo di esortare alla storia, intrecciando dati documentati e “sentimenti” del visitatore-lettore: un racconto pacato di grande attualità civile mentre la Scuola è in affanno.


Aldo A. MOLA


DIDASCALIA: Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842-Cavour, 17 luglio 1928). Deputato dal 1882 alla morte, ministro del Tesoro e delle Finanze dal marzo 1889 al dicembre 1890, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri e ministro dell'Interno tra il maggio 1892 e il luglio 1921 dette il nome al primo quindicennio del regno di Vittorio Emanuele III. Monarchico liberal-democratico, dette impulso a profonde riforme per consolidare le istituzioni. Cattolico osservante ma senza ostentazione, mirò a superare la diserzione dei cattolici dalle urne politiche.     


Da http://www.giovannigiolitticavour.it/proposte_11.html