GIOLITTI, CADORNA E IL RE. POLITICI E MILITARI NEL PRIMO NOVECENTO

Editoriale de "Il Giornale del Piemonte e della Liguria" del 4 settembre 2022. 


Distinti e per molti motivi distanti secondo una certa “storiografia” incline a narrare e talvolta a inventare conflitti e incompatibilità, dai rispettivi carteggi, dai loro memoriali e da una valutazione oggettiva dei ruoli da loro rispettivamente ricoperti Giovanni Giolitti, il più autorevole statista dell'Italia liberale, e Luigi Cadorna, comandante supremo delle forze armate durante la Grande Guerra, risultano molto più affini e convergenti di quanto sinora concesso.

Per comprenderlo occorre richiamare in premessa l'esordio e le vicissitudini del primo mezzo secolo del regno d'Italia, proclamato dal Parlamento il 14 marzo 1861, e del suo immediato antefatto, il regno di Sardegna. Come ricorda Franco Ressico in Carlo Cadorna (1809-1891.  Un statista del Risorgimento con e oltre Cavour,ed BastogiLibri)  il quarantenne Carlo Cadorna, inviato dal governo “al campo” ebbe il triste privilegio di assistere, unico in abito civile, all'abdicazione di Carlo Alberto di Savoia-Carignano la sera del 23 marzo 1849, quando per il Vecchio Piemonte tutto sembrava perduto. Iniziò invece la tenace ricostruzione guidata da Massimo d'Azeglio e da Camillo Cavour, che, d'intesa con Urbano Rattazzi, volle al governo Cadorna, dai giovanili trascorsi giobertiani, non ignaro di cospirazioni liberali, figlio devoto della chiesa cattolica ma, come Giuseppe Siccardi, tetragono nella difesa dei diritti dello Stato e nel propugnare l'uguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi, quale ne fosse la professione di fede.

Un quindicennio dopo un altro Cadorna, il generale Raffaele, si misurò con l'insurrezione repubblicana di Palermo (1866), che colpiva alle spalle il governo impegnato nella terza guerra per l'indipendenza mentre non era ancora terminata la repressione, necessaria, del “brigantaggio meridionale” alimentato anche dall'estero e ritenuto esiziale per la sopravvivenza del giovane regno. Lo stesso Raffaele Cadorna il Venti settembre 1870 comaandò l'espugnazione di Roma, decretò la fine del potere temporale di papa Pio IX e fece indire il plebiscito che a inizio ottobre sancì l'unione del Lazio al regno d'Italia. Da quel momento per l'Italia iniziò un nuovo corso storico, vincolato da due esigenze fatalmente contrapposte: la riduzione del debito pubblico attraverso il pareggio di esercizio (conseguito nel 1876) e l'organizzazione della difesa del regno nel quadro di un'Europa lacerata dalla guerra franco-germanica del 1870-1871, completa di “Commune” parigina ispirata dall'Internazionale socialista e deplorata da Giuseppe Garibaldi, fautore dell'“Internazionale azzurra”, quella con il “grembiulino”, non con la ghigliottina.

La generalità degli Stati  preunitari non aveva mai pensato a un sistema unitario italiano di difesa mobile o “passiva”. Ciascuno aveva provveduto per sé. Però Con l'apertura del Canale di Suez e ancor più all'indomani della guerra russo-turca che a Londra fruttò Cipro (1878) e l'imposizione del protettorato francese sulla Tunisia (1881) divenne urgente la costruzione di una flotta militare adeguata alle condizioni geopolitiche e alle legittime aspirazioni della Nuova Italia e, al tempo stesso, quella dell'esercito, fondato sulla leva obbligatoria, ignota in molti Stati preunitari.

Sino all'avvento di Francesco Crispi il bilanciamento tra spese militari e priorità civili (infrastrutture, edifici pubblici, scuole, sanità...) costituì il tormento dei governi sia di Destra sia di Sinistra: divisioni più retoriche che reali, largamente superate dal “Terzo Partito” capitanato da Antonio Mordini e da Angelo Bargoni e dagli incarichi ministeriali assunti da Agostino Depretis e da Michele Coppino un decennio prima: non per caso tutti massoni, capaci di pensare l'Italia in una visione internazionale. Il programma di espansione coloniale (avviato nel 1885 con lo sbarco a Massaua), la prima guerra d'Africa con comandanti di valore come Giuseppe Arimondi e lo stesso “irredento” Oreste Baratieri, inizialmente osannato ma demonizzato dopo la sconfitta ad Abba Garima il 1° marzo 1896, fece da spartiacque tra chi capiva le necessità della Nuova Italia e chi no.

Risolutamente contrario alle imprese d'Oltremare (nel 1886 scrisse il “Manifesto” della sinistra subalpina), dopo il breve governo del 1892-1893, funestato dallo scandalo della Banca Romana, Giolitti si fermò sulla soglia di critiche alla politica estera che considerava riservato dominio dei governi via via in carica (Antonio di Rudinì, Luigi Pelloux, già titolare della Guerra nel suo primo ministero) e del sovrano. Pertanto non si schierò pubblicamente contro la politica dell'Italia nell'Estremo Oriente e sconsigliò a Pelloux di renderne conto in Aula per non aprire altri solchi nella maggioranza costituzionale impegnata nella difficile ricerca di “equilibri più avanzati” dopo la deprecata insurrezione di Milano del 1898 e ancor più dopo il regicidio del 29 luglio 1900 e l'ascesa al trono di Vittorio Emanuele III.

I dieci governi susseguitisi nel primo quindicennio del Novecento (Saracco, Zanardelli, Giolitti, Fortis, Fortis, Sonnino, Giolitti, Sonnino, Luzzatti, Giolitti) ebbero per filo conduttore della politica estera la compensazione dell'alleanza difensiva con Vienna e Berlino (20 maggio 1882: in risposta alla Francia, all'epoca ostile nei confronti dell'Italia, anche con la “guerra doganale” ) con l'instaurazione di nuovi rapporti tra Roma e Parigi (accordi Prinetti-Barrère, 1902) e con l'impero russo di Nicola II Romanov (visita di Stato programmata sin dal 1905 ed effettuata nel 1909, all'indomani dell'annessione di Bosnia ed Erzegovina nei confini dell'impero austro-ungarico), nel quadro dell'amicizia costante e prevalente italo-inglese e dei fitti rapporti instaurati (dopo prolungate tensioni) con gli Stati Uniti d'America, il Brasile (nel 1897 l'Italia fu sull'orlo di dichiarargli guerra per il pessimo trattamento degli emigrati nostrani), molti Stati dell'America latina, a parte gli ottimi rapporti con Spagna, Portogallo e Paesi dell'Europa orientale, quali Romania e Bulgaria.

Il vero regista della politica estera italiana fu Vittorio Emanuele III, che precorse le tappe con il conferimento del Collare della Santissima Annunziata a capi di Stato e di governo, principi ereditari e ministri degli Esteri dei Paesi con i quali occorreva infittire il dialogo. Eloquenti furono quelli conferiti a tre presidenti della Repubblica francese in quegli anni impegnata nella legislazione laicistica che si sostanziò nell'espulsione delle congregazioni religiose, alle quali fu impedito di trarre lucro dall'insegnamento e vennero indotte a riversarsi in Italia.

Il regio decreto 14 novembre 1901 sulle materie da deliberare in consiglio dei ministri costituì una svolta perché affermò che il presidente del Consiglio rappresentava l'unità politica del governo. I ministri, incluso quello degli Esteri, dovevano riferirgli su tutti gli affari di competenza dei loro dicasteri. A sua volta il presidente era il referente del re, che lo nominava con il compito di procurarsi e garantirsi la fiducia delle Camere. Nel dicembre 1903 Vittorio Emanuele III dette a Giolitti tre giorni per formare il governo, perché doveva partire per un viaggio di Stato in Inghilterra. Dopo il decennio di fine Ottocento, scandito da una filza di elezioni politiche (1890, 1892, 1895, 1897, 1900) e da molteplici cambi di governo anche in ministeri sensibili come Guerra e Marina, a tutto danno della continuità della realizzazione di piani di lungo periodo, il primo Novecento contò alla Guerra Coriolano Ponza di San Martino, Costantino Morin, Giuseppe Ottolenghi, Ettore Pedotti, Luigi Majnoni d'Intignano, Ettore Viganò e nel terzo ministero Giolitti sperimentò il primo civile, Severino Casana, in carica dal 29 dicembre 1907 al 4 aprile 1909, quando venne sostituito dal generale Paolo Spingardi, già comandante del Corpo dei Carabinieri.

Quei contini cambi la dicono lunga sulla carenza di un progetto unitario continuativo nell'approntamento dello “strumento militare” che richiede anni di progettazione e di azione,

Il re, Giolitti, Spingardi e il capo di stato maggiore dell'esercito formarono finalmente una sorta di quadrilatero stabile (compatibilmente con la volubilità della “politica parlamentare”), univoco nella costruzione dello strumento militare ma niente affatto privo di tensioni e frizioni, come si vide nel biennio 1908-1909, condizionato dal ricordato ingrandimento dell'impero asburgico. Come già nel 1903, anche nel 1908 si registrarono in Italia vivaci manifestazioni irredentistiche di protesta e rivendicazione di “compensi” in forza dell'articolo VII della Triplice Alleanza: considerata irricevibile da Vienna perché l'annessione della Bosnia e dell'Erzegovina dopo trentennale protettorato era previsto dalla pace del 1878.

In due lettere al deputato Luigi Facta, scrupoloso ministro delle Finanze, Giolitti espose la sua visione della posizione dell'Italia nell'ambito europeo delle alleanze e controalleanze. Il giovane e ancora militarmente debole regno doveva seguire la linea di Visconti Venosta, veterano della diplomazia italiana, inviato alla conferenza di Algeciras per dirimere il contenzioso coloniale: “Indipendenti sempre, isolati mai”. In caso di guerra europea, fatalmente “lunga e grossa”, argomentò lo statista, l'Italia avrebbe dovuto dirottare alle armi tutte le risorse che da anni stava investendo nel Mezzogiorno e nelle grandi isole per avvicinarne le condizioni materiali (e non solo quelle: erano gli anni della grande migrazione, mentre analfabetismo e pandemie, come la malaria e malattie da malnutrizione, continuavano a imperversare) a quelle di regioni da più tempo meglio organizzate: il nascente “triangolo industriale”. In tal caso il Mezzogiorno sarebbe tornato nelle spire di arretratezza e sottosviluppo, a tutto vantaggio delle forze disgregatrici e nemiche dell'unità e della monarchia. Non per caso, fece osservare Giolitti, a soffiare “sulla” e “per” la guerra contro l'Austria erano soprattutto i repubblicani. Non accennò alle interferenze della Francia che, dopo l'“affaire Dreyfus” (organizzato per intossicare i servizi tedeschi), stava intensificando le linee difensive contro l'impero germanico.

Come ampiamente documentato, altrettanto stava facendo l'Italia sul fronte occidentale (quello orientale era oggettivamente troppo sfavorevole per sperare di ribaltarne la situazione con spese ordinarie).

Il 27 giugno 1908 il generale Tancredi Saletta, capo di stato maggiore dell'esercito, venne collocato in posizione ausiliaria per raggiunti limiti di età. Tre giorni dopo si insediò il generale Alberto Pollio, che rimase in carica sino alla morte (1 luglio 1914), tre giorni dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo, principe ereditario della corona austro-ungarica, e della moglie Sofia Chotec. Allievo della napoletana Scuola militare della “Nunziatella” (come due suoi predecessori Enrico Cosenz e Domenico Primerano: se ne vedano i profili in “Sacerdoti di Marte” del gen. Oreste Bovio), alla nomina Pollio era comandante della divisione militare di Genova. Venne preferito a Luigi Cadorna, di due anni più anziano e quindi convinto di essere nominato. Sennonché, come lo stesso futuro Comandante Supremo documentò ed è stato ribadito in un ottimo volume (BastogiLibri) dal nipote, colonnello Carlo Cadorna, non di sua sola iniziativa Giolitti sondò l'orientamento di Luigi Cadorna nel merito della questione mai risolta sin dalla pubblicazione dello Statuto: a chi spettasse il comando effettivo dell'esercito in caso di guerra. Il precedente era la campagna del 1866, quando la dicotomia tra Alfonso La Marmora (ex presidente del Consiglio) e il generale Enrico Cialdini, non sufficientemente mediata da Vittorio Emanuele II, aveva gravemente nociuto alla conduzione della guerra dopo il modesto scontro presso Custoza: uno scacco (niente affatto sconfitta) peggiorato nella memoria dalle perdite subite dalla flotta nella battaglia di Lissa (inizialmente presentata dal governo come vittoria, come ha documentato Nico Perrone in saggi sull'ammiraglio Carlo Pellion di Persano). Studioso di quel precedente e fautore del principio della “responsabilità”, Cadorna fece sapere che si sarebbe condotto come la carica gli imponeva, senza accettare interferenze. Sono state anche insinuate ruggini tra lui e il sovrano risalenti a quando Cadorna era colonnello a Napoli. Di fatto la questione dell'unità del comando rimase irrisolta.

Essa non si ripresentò a metà settembre del 1911 quando in un incontro segreto nel Castello di Racconigi Vittorio Emanuele III fissò con Giolitti tempi e modi della guerra contro l'impero turco-ottomano per la sovranità sui vilayet di Tripolitania e Cirenaica. L'impresa venne avviata con un grave errore di valutazione degli informatori di Giolitti circa il probabile atteggiamento della popolazione araba. Dopo l'immediata proclamazione della “guerra santa” contro gli infedeli da parte della Sublime Porta, tra turchi e italiani la maggior parte dei nativi “libici”  si riconobbe nell'islam e quindi non diede sostegno all'Italia. Il governo rimase nella tenaglia di una guerra lunga e costosa da condurre senza perdite (come accadde a Sciara-Sciat) per non suscitare critiche nell'opinione pubblica. Il risultato finale, dopo l'occupazione/liberazione di Rodi e delle Sporadi da parte del corpo di spedizione comandato da Giovanni Ameglio e le estenuanti trattative di pace a Ouchy-Losanna (ottobre 1912) con il ricorso a diplomatici “fuori ruolo” quali Giuseppe Volpi e Bernardino Nogara, fu il riconoscimento della sovranità dell'Italia da parte di Istanbul e, al tempo stesso, di quella “religiosa” del Sultano sulla popolazione islamica della Libia da parte di Roma: una pia finzione poiché l'autorità califfale è religiosa e politica al tempo stesso. L'Islam non conosce le separazioni che nell'Occidente risalgono al diritto romano e all'avvento dello stato moderno.  

Giolitti ne concluse che l'Italia non era in condizione di affrontare una guerra grossa e lunga sul teatro europeo e che pertanto il contenzioso aperto con Vienna, il “coronamento del Risorgimento”, andava superato con trattative diplomatiche, in una visione dell'Europa in pace codificata dal Congresso di Vienna del 1815 e sopravvissuta agli scossoni del Quarantotto, della guerra di Crimea, di quella franco-germanica del 1870-1871 e dei conflitti ricorrenti nell'Europa orientale, bilanciati dall'espansione coloniale di tutte le potenze europee rivierasche.

Lo scenario planetario era però in movimento inarrestabile. Nel 1898 gli USA inflissero alla Spagna l'umiliante perdita delle Filippine e di Cuba, malgrado l'invio di ben 200.000 uomini. Madrid si vendicò vendendo le Marianne alla Germania.


La guerra si avvicinava al cuore dell'Europa.

La morte di Pollio spianò la via alla nomina di Luigi Cadorna, quando era quasi rassegnato a chiudere la carriera e la vita in Liguria e già vi stava cercando casa (morì a Bordighera nel 1928).

In risposta alla conflagrazione europea, in linea con i piani approntati da Pollio, Cadorna concepì un intervento a fianco degli Imperi Centrali: una guerra “grossa” ma “breve” sul fronte renano (lo pubblicò egli stesso nel 1925). Era l'unica strada  per chiudere rapidamente il conflitto e spingere i contendenti a trattative di pace.

Dopodiché era necessario costruire lo strumento militare che nei decenni precedenti non era mai stato messo allo studio e soprattutto andava realizzato non per una guerra Oltremare ma per un conflitto tra Stati nazionali fondati su sistemi economici, in specie industriali, di avanguardia. In  una guerra tra popoli, come fu la prima guerra mondiale,  in Italia perdurò e prevalse il dialogo tra sordi: politici da un canto, militari dall'altro e Vittorio Emanuele III a Villa Italia, pazientemente intento a riannodare i sempre esili fili di comunicazione tra “mondi” lontani, come mostrano la caduta del governo Salandra nel giugno 1916 e quello del governo Boselli il 24 ottobre 1917, mentre Roma era del tutto ignara dell'offensiva austro-germanica iniziata quello stesso giorno nella conca di Caporetto.

A conferma che in Italia, a differenza di quanto oggi si crede,  i governi vengono abbattuti anche quando la guerra è in casa.


Aldo A. MOLA


DIDASCALIA: Luigi Cadorna, Comandante Supremo (1914-1917). Se ne parlerà nel convegno  sulla Grande Guerra organizzato dal gruppo 11^ Fanteria della Associazione nazionale del Fante nella sala conferenze del Castello di Monferrato, a Casale Monferrato, alle h. 15 di domenica 4 settembre 2022. Dopo i saluto del sindaco, Federico Riboldi, intervengono i generali Mario Righele e Antonio Zerrillo, il colonnello Carlo Cadorna, i saggisti Giovanni Pisano e Maddalena Oneglia e il ten. Ettore Bongiovanni, che ha tempestivamente curato l'elegante  volumetto degli Atti, a disposizione in Sala.