FERROVIE, STRADE, TELEGRAFO
FECERO L'ITALIA

L'unificazione d'Italia

  Oggi molto si discute di grandi opere e dei mezzi per realizzarle. È una sfida antica. Venne affrontata e vinta alla nascita del Regno d'Italia, da una classe dirigente di statura europea. Quella dirigenza sapeva da dove veniva e dove voleva arrivare: fare lo Stato e suo tramite gli italiani, un popolo di uomini liberi.

  Dal 1860-1861 l’unità politica migliorò la vita degli abitanti del Paese Italia. Riorganizzò e coordinò una moltitudine di uffici e di servizi, prima pensati in funzione dei singoli Stati, piccoli o grandi fossero. Nel 1859 l’Italia era un mosaico di “lavori in corso”. Alcuni collegavano uno all’altro Stato per forza maggiore, altri avevano capo ma nessuna coda. Erano pensati in una visione di corto respiro. Nel primo quinquennio dopo la proclamazione del regno (1861) i governi presieduti da Camillo Cavour, Bettino Ricasoli, Urbano Rattazzi, Luigi Carlo Farini e Alfonso La Marmora e il Parlamento produssero, con regi decreti e leggi, un’enorme quantità di norme in tutti i campi.    L’esecutivo si valse di ministri di riconosciuta competenza e dedizione, come Quintino Sella, Filippo Cordova, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia, a contatto con Londra, e Marco Minghetti. Insediati al governo ebbero per bussola l’esempio degli antichi Romani: fare opere grandiose, per unire gl’italiani e collegarli all’Europa quando il “Mare Nostrum” era attraversato da flotte di molti Stati non affacciati sul Mediterraneo, scorciatoia tra Mare del Nord e Oceano Indiano tramite il Canale di Suez.    Quasi dieci anni dopo la nomina a ministro, Stefano Jacini rievocò il punto di partenza e il cammino rapidamente percorso. Era stato assegnato ai Lavori pubblici per fare da «artefice principale dell’Unità nazionale, destinato a soddisfare a breve scadenza a tutti gli infiniti desideri che altre nazioni più ricche e in tempi calmi, seppero realizzare nel corso di molti anni. […] L’Italia, costituita con giovanile baldanza, decretò una moltitudine di spese per lavori pubblici in termini fissi di tempo, assai prossimi, che gli emendamenti dei deputati più smaniosi di popolarità riuscirono spesso anche a maggiormente abbreviare».    Nell’insieme le spese per opere pubbliche tra il 1860 e il 1870 sommarono a un miliardo di lire dell’epoca: una somma astronomica. Il 20 marzo 1865 la prima legge nazionale per la loro realizzazione prese a modello quella decretata il 20 novembre 1859 da Rattazzi, che aveva governato con pieni poteri. Le grandi opere furono finanziate per metà come spese ordinarie e per metà come straordinarie. Alle straordinarie si provvide con balzelli eccedenti le imposte ordinarie. In secondo tempo le amministrazioni pubbliche salirono coi ginocchi sanguinanti sui sentieri pietrosi dei mutui con la Cassa Centrale Depositi e Prestiti (ancora da inventare nel 1861) e dell’emissione di titoli obbligazionari. Con 451 milioni di stanziamenti le ferrovie fecero la parte del leone, seguite da strade ordinarie (136), poste (172), telegrafi (49), riattamento di porti (71), opere idrauliche (42), civili (38) e bonifiche di terreni paludosi (18 milioni).    All’immenso impegno dello Stato si aggiunse quello di amministrazioni provinciali e comunali. Dalle Alpi alla Sicilia l’Italia divenne un immenso cantiere di opere progettate, avviate e in gran parte rapidamente concluse. Il profitto stava nel beneficio che ne nasceva. L’Italia di quegli anni fecondi e rapinosi non ripassava la stessa opera. Ne inanellava una dopo l’altra. Una ferrovia a fianco di una strada e di un canale. Quando ogni opera di quel genere costava enorme fatica fisica, la Giovane Italia costruì ponti, scavò tunnel ed edificò palazzi pubblici, anteponendo l'interesse generale all’ingordigia dei particolari. La borghesia concorse all’unica rivoluzione d’Italia: a vantaggio di classi che ancora non avevano forma perché ancora non v’erano manifatture competitive a livello europeo, né industria pesante, né concentrazione del capitale. Non v’era alcun “proletariato in attesa di rivoluzione”, perché esso non esisteva.   

La rete ferroviaria

Il primo obiettivo della Nuova Italia fu costruire la rete ferroviaria. Gli Stati preunitari si dotarono tardi di strade ferrate e solo in un’ottica limitata: Napoli-Portici (1839), Milano-Monza (1840), Napoli-Capua, Pisa-Livorno (1844) e Padova-Venezia (1846). Per ultima arrivò la Torino-Moncalieri (1848). Camillo Cavour fu tra i primi a capire l’importanza commerciale e militare delle ferrovie. Puntò su Torino-Genova, Torino-Modane e Torino-Cuneo, che molti volevano proseguisse subito sino a Nizza, ma dopo la sua cessione alla Francia i lavori ristagnarono. La tratta, geniale sotto il profilo ingegneristico, venne completata solo nel 1928. Gravemente danneggiata sulla fine della seconda guerra mondiale e riattata nel 1978 è in attesa di ammodernamento.    Nel 1859 il regno di Sardegna (cioè Piemonte, comprendente la Valle d'Aosta, Savoia, Liguria e il Nizzardo) aveva 800 km di linee sui 1758 dell’intera Italia. Seguivano il Lombardo-Veneto con circa 500 e la Toscana con 256. Gli altri Stati avevano briciole: Pio IX e Ferdinando II di Borbone ne contavano circa cento ciascuno. Quando Garibaldi sbarcò a Marsala, in Sicilia non vi era alcun tronco ferroviario. Lo stesso valeva per Puglie, Lucania e Abruzzi. Nel 1860-1861 nell’Italia centro-meridionale accorsero progettisti e fiduciari di grandi investitori italiani e stranieri. Nel maggio 1865, dopo anni di dure gare tra diversi gruppi d’interesse, l’Italia fu spartita da cinque compagnie ferroviarie. Lo Stato rinunciò a ergersi a protagonista esclusivo della titanica impresa. Concessioni e convenzioni con gl’interessi privati fecero affluire dall’estero ingenti capitali, garantiti dal governo. Nel 1862 il regno d’Italia stipulò con la Francia l’apertura del tunnel del Cenisio. Dal 1863 alcune tratte vennero completate in Sicilia, Sardegna e nell’Italia centrale. Napoli fu collegata con Roma, ancora del papa. Alla fine del 1865 erano in esercizio 3.396 chilometri di strade ferrate; e altri 3.281 erano in costruzione. L’ambizioso obiettivo di 8.000 chilometri di linee in esercizio immaginato all’indomani dell’Unità rimaneva lontano, ma la strada era tracciata.    Il primo decennio dell’unificazione venne festeggiato con un evento d’importanza europea: l’apertura del tunnel del Cenisio, un traguardo scientifico e tecnologico ammirato da tutta Europa. Fu anche la dimostrazione della capacità del “lavoro italiano”. Il traforo fu aperto grazie alla perforatrice pneumatica. Un suo modello era stato inventato dall’ingegnere milanese Giovanni Battista Piatti. Il suo progetto però non fu preso in considerazione dalla commissione brevetti del regno di Sardegna (1853). Curiosamente, due commissari, Sebastiano Grandis e Germano Sommeiller, subito dopo presentarono un’ideazione propria, in collaborazione con Severino Grattoni, pressoché identica a quella di Piatti, che protestò ma fu ignorato. D’altronde era italiano, sì, ma anche… straniero, perché il Ticino ancora divideva il Piemonte dal Lombardo-Veneto. I lavori proseguirono alacremente. Come hanno scritto Marco Albera e Giorgio Cavallo, l’ultimo diaframma della galleria di 12.849 chilometri venne abbattuto il 26 settembre 1870, sei giorni dopo la “breccia di Porta Pia”. Roma e Parigi divennero più vicine proprio al crollo di Napoleone III, che tanto aveva fatto per avvicinarle. I due tronchi del traforo si congiunsero con soli trenta centimetri di scarto rispetto al fuoco ottimale previsto: una precisione per l’epoca portentosa.    In pochi anni quella linea fu utilizzata da 25.000.000 di viaggiatori, corrispondenti all’intera popolazione del regno. Le province prive di tronchi ferroviari si erano ridotte dalle 34 del 1861 a sole 9, rimaste ai margini per la pressoché totale assenza di produzioni e scambi indispensabili per incentivare investimenti di base e alti costi di gestione. Malgrado gli ostacoli opposti dai caratteri del territorio la rete ferrata stava unificando l’Italia con ripercussioni sul commercio interno e internazionale, rapidi benefici e maggior sicurezza sia per l’ordine interno sia per la difesa contro possibili aggressioni dall’estero.   

Le strade

Alla nascita la Nuova Italia si trovò povera di strade di grande comunicazione. Ogni Stato aveva principalmente curato arterie preesistenti. In molte valli piemontesi le vie si fermavano molto prima dei valichi per non agevolare eventuali invasioni francesi. Perciò gli abitanti erano costretti a guardare solo verso la pianura. Il Regno di Napoli si valeva delle strade consolari romane, riattate nel tempo, e di poche altre arterie recenti. Le città costiere della Sicilia comunicavano per mare più che per terra. Altrettanto valeva per la Calabria, i cui prodotti venivano portati a Napoli o altrove su imbarcazioni che navigavano sotto costa.    Dopo l’unità le strade furono classificate in nazionali, provinciali, comunali e vicinali. Nel 1863 si contavano 22.500 chilometri di strade nazionali e provinciali, per un terzo nelle Due Sicilie (5.526 nel regno di Napoli, 2.000 in Sicilia), contro i 3.500 di Piemonte e Liguria, i 2.500 della Lombardia, i 3.300 della Toscana. Per unificare la rete stradale lo Stato dovette razionalizzare. Le decisioni dei governi non furono né capricciose né punitive. Dovevano salvare l’unità faticosamente raggiunta. Per farlo bisognava raggiungere il pareggio tra spese (tante) ed entrate (poche). Deliberare e avviare una nuova opera pubblica comportava il rinvio o la negazione di decine di altre, tutte in attesa, tutte necessarie. L’arretratezza e il sottosviluppo non vennero causate dall’unificazione. Erano il portato di secoli, una realtà che alcuni governi preunitari avevano considerato ineluttabile, come terremoti ed epidemie.    Nel 1865 le strade nazionali di plaghe raggiunte dalla costosissima rete ferroviaria vennero trasferite alle province. Lo Stato assunse tuttavia l’onere delle strade principali della Sicilia e della Sardegna, in gravissime condizioni. Nel 1869 si accollò le strade provinciali d’interesse generale classificate di 1^ e 2^ categoria. Il governo fece insomma quanto era in suo potere. E chiamò gli enti locali a vedere l’Italia al di là dei confini municipali, in un’ottica nazionale e in una visione europea della storia. Per facilitare manutenzione e varianti migliorative delle vie esistenti e averne di nuove lo Stato autorizzò province e comuni a esigere una sovrimposta sui beni fondiari, gli unici accertabili. La riorganizzazione della rete stradale gravò sui proprietari terrieri, che erano in massima parte piccoli e medi. Nel 1864 essi furono gravati dal conguaglio provvisorio dell’imposta fondiaria, gravosissima tassa “una tantum” per far quadrare i conti di uno Stato che nel frattempo si trovò a dover traslocare la capitale da Torino a Firenze.    Nell’aprile 1868 il governo presieduto dal generale Luigi Federico Menabrea, ingegnere di talento, deliberò di costruire le strade che le amministrazioni locali non allestivano malgrado le disposizioni favorevoli dello Stato, ma ne fece carico agli inadempienti. Antepose l’interesse generale permanente ai capricci di camarille locali, come nei secoli avevano fatto i Savoia (e non essi soli) per passare dal feudalesimo allo Stato moderno. Però in troppi casi gli enti locali avevano dichiarato d’interesse nazionale le strade locali contando di scaricarne l’onere sullo Stato. Si registrò insomma una gara di egoismi e miopie. L’Italia doveva scegliere tra unificazione effettiva e orto di casa.   

Poste...

  Un altro fondamentale concorso all’unificazione venne dalla riorganizzazione delle poste e del telegrafo. Da tempo vigevano convenzioni tra gli Stati preunitari, ma ciascuno di essi, sia per ragioni economiche sia di sicurezza, ne deteneva il controllo, a scapito della celerità e dell’efficienza. Dal 1860 il servizio postale fu riservato allo Stato che lo orchestrò con una direzione generale del ministero dei Lavori pubblici. Il 5 maggio 1862 fu emanata la prima legge organica, modificata il 4 dicembre 1864. Essa fissò le tariffe: 15 (poi 20) centesimi per il trasporto e la consegna di lettere di peso sino a dieci grammi affrancate in partenza e 30 per quelle a carico del destinatario; un solo centesimo per il trasporto di quotidiani e periodici sino a 40 grammi, 2 centesimi per le stampe sino a 40 grammi, crescenti di altri due per ogni altri 4° o frazioni di 4°. L’opportunità di usare la tariffa più economica incrementò la produzione della carta finissima e resistente sulla quale vennero scritte milioni di lettere con inchiostri dai colori ancora vividi a distanza di un secolo e mezzo.    Particolarmente generosa fu la tariffa per i quotidiani, indotti a usare piccolo formato, due o al massimo quattro facciate e carta tanto leggera quanto adatta a essere impressa con le tecniche tipografiche dell’epoca. L’organizzazione nazionale del servizio postale dette frutti positivi. Nel 1870 si contavano quasi 3.000 uffici postali. I giornali e periodici distribuiti dalla posta crebbero da 40 milioni di copie annue a 68 milioni. Le lettere spedite nel regno superarono i 100 milioni nel 1872. Quelle non affrancate in partenza scesero a un decimo del totale mentre nel 1862 superavano il 50% . L’addebito al destinatario era un segno di incertezza e spesso di povertà del mittente. Gli uffici postali non si limitarono a raccogliere e a distribuire la corrispondenza, i periodici, opere enciclopediche a dispense, fondamentali per la promozione dell’istruzione anche nei centri minori e in borgate rurali, ma svolsero funzioni bancarie. Anzitutto con i vaglia interni e internazionali, che si affermarono come la forma più rapida e sicura di trasmissione di danaro a distanza.    Dal 1870 Quintino Sella, ministro delle Finanze, propose l’introduzione in Italia del risparmio postale, che dava ottimi frutti in altri Paesi, a cominciare dalla Gran Bretagna ove era stato ideato da Sykes e promosso da Gladstone. Il progetto incontrò ostacoli perché il risparmio postale avrebbe conteso il terreno alle altre forme di risparmio all’epoca prevalenti. Il ministro raggiunse lo scopo nel 1875. Gli uffici postali vennero abilitati alla raccolta di danaro su libretti postali nominativi. Nacque così la rete più capillare e discreta di raccolta dei risparmi anche nei luoghi più remoti del regno, ove per comprensibili motivi di bilancio nessuna banca privata e neppure le casse di risparmio o le banche popolari avrebbero aperto sedi, filiali o sportelli per il divario tra costi e benefici. I versamenti su libretti postali furono remunerati con elevato tasso d’interesse a vantaggio dei cittadini, incoraggiati ad incrementare i depositi. Il risparmio postale segnò un profondo mutamento dei costumi in plaghe che per secoli avevano tesaurizzato in ripostigli reconditi le poche monete di casa. Grazie alla solerzia degli impiegati esso raggiunse ceti altrimenti destinati a rimanere ai margini dell’organizzazione bancaria.    All’epoca si diffusero innumerevoli titoli monetari artificiosi: i “buoni” e altre forme improprie di moneta che aumentarono il circolante al di fuori del controllo della vigilanza. Il risparmio postale infine, e con esso gli uffici che lo organizzarono, ebbe ruolo di spicco a sostegno della Cassa Centrale Depositi e Prestiti che fu il maggior volano dei grandi investimenti per la realizzazione di opere pubbliche dopo l’Unità.    Il concetto di una cassa di deposito per affrontare esigenze pubbliche straordinarie era antica. Risaliva almeno al 1171 quando la Repubblica di Venezia ricorse alla Zecca di San Marco che concentrava depositi pubblici e risparmi privati. Nel regno sardo la Cassa di depositi e di anticipazioni di fondi per i lavori pubblici fu varata da Carlo Alberto nel 1840. Migliorata e potenziata, fece da modello alla Cassa depositi e prestiti organizzata in Casse compartimentali operanti di concerto con le Direzioni generali del debito pubblico di Firenze, Milano, Napoli, Palermo e Torino, istituite nel 1863 e poi unificate nella Cassa Centrale Depositi e Prestiti (11 agosto 1870), fortemente voluta da Quintino Sella. Gli uffici postali, infine, ebbero il monopolio della vendita dei francobolli, ascesi a oltre cento milioni di pezzi un decennio dopo l’unificazione nazionale.   

… e Telegrafi

Dalle origini il telegrafo fu controllato dai governi. Il primo impianto fu la linea Pisa-Livorno. Successivamente si diffuse nel Lombardo-Veneto e nei Ducati padani (1850-52), nello Stato pontificio e nelle Due Sicilie (1852-57). Il regno sardo partì nel 1851e si portò subito avanti. Nel 1854 venne calato il primo cavo sottomarino per collegare La Spezia con la Corsica e la Sardegna. La Nuova Italia contò 12.000 chilometri di fili e 250 uffici, che rendevano tre quarti delle spese d’esercizio: un servizio pubblico tra i più remunerativi del regno. Dopo vari insuccessi dovuti alle correnti marine, nel 1863 vennero definitivamente collegate alla terraferma Sardegna e Sicilia. Le tariffe erano elevate. Il telegramma più breve da Torino a Napoli costava 20 lire, quasi il salario mensile di un bracciante. La drastica riduzione delle tariffe (da una a sei lire, secondo lunghezza del testo e distanza) incoraggiò la comunicazione telegrafica. Essa si diffuse non solo per comunicazioni commerciali ma anche per eventi domestici. Inviare e ricevere telegrammi divenne sinonimo di benessere e di prestigio sociale e, al tempo stesso, indusse a brevità e a riservatezza, anche perché prima di essere consegnati i contenuti erano letti dagli impiegati e costituivano oggetto di bisbigli.    Nel primo decennio il Regno dovette affrontare prove durissime e spese ingenti per la sicurezza delle frontiere, per le pesanti conseguenze della terza guerra d'indipendenza, che fruttò Venezia (1866), e dell’annessione di Roma (1870), per fronteggiare ed estinguere il brigantaggio, per bonificare le vaste aree arretrate, la combattere la criminalità (dalla Sardegna alla Liguria e alla Romagna). In quegli stessi anni l’Italia fu un grande cantiere. Si registrarono molti casi di affarismo spregiudicato. Nell’insieme, tuttavia, il fervore patriottico prevalse. In un paio di lustri la Nuova Italia mise a buon frutto un ventennio di operosità scientifica e di quelle patrie battaglie che rimasero punto di riferimento ideale della dirigenza politica e attirarono all’Italia la simpatia di imprenditori e di studiosi stranieri, stupiti che essa non fosse affatto la “terra dei morti”, come lugubremente detta da Alphonse De Lamartine. 

Aldo A. Mola

 DIDASCALIA: Il mosaico di Stati  staterelli in Italia prima del 1860. La coincidenza tra confini geografici e politici era stata ideata dal mitico “Patto di Ausonia” che ispirò società segrete e moti costituzionali costati la condanna a morte e al carcere duro di tanti patrioti dal 1817 al 1870: tutti convergenti nell'obiettivo di un'Italia libera nella fratellanza dei popoli di tutti i continenti. Ne fu suprema espressione Giuseppe Garibaldi, unico italiano ricordato quale “Eroe dei due mondi” e “primo massone d'Italia”.