VITTORIO EMANUELE II, RE SOLDATO

Una significativa testimonianza della brutalità della guerra a metà Ottocento è offerta dalle lettere  di Vittorio Emanuele alla consorte, Maria Adelaide di Asburgo, pubblicate a cura di Francesco Cognasso nel 1966. Duca di Savoia e comandante della Riserva, la Divisione da lanciare in campo per gli interventi risolutivi, in lettere affettuose e briose “Luf Victor” o “Puozzi”, come si firmava nella corrispondenza con “Chère Poucette” o “Mon Oiseau” (affettuosi nomignoli della consorte, “Chère femme”, “Chère amie”...), il diciottenne Vittorio Emanuele narrò quasi quotidianamente l’andamento della guerra contro l'Austria (1848), spiegandole il crescente risentimento che la condotta del nemico suscitava nei soldati dell’Armata Sarda: militari, non orde barbariche.

Il 3 aprile 1848 Vittorio Emanuele le scrisse (in francese): “I nostri soldati sono magnifici e furibondi (...). Quanto era stato detto dell’armata croata è nulla a confronto della verità. Ciò che hanno fatto alle donne e ai bambini grida talmente vendetta che sono sicuro che li si ammazzerà tutti. Essi infilzavano tutti i  piccoli sulle loro baionette e aprivano il ventre delle donne mettendoci dentro due o tre cartucce, nel...e gli davano fuoco; poiché erano stese, esplodevano come una mina”.

Il 12 maggio 1848 Vittorio Emanuele fu decorato al valore nell’Ordine Militare di Savoia. Lo stesso giorno lamentò di essere costretto a rimanere rintanato in stato d’allerta in cascine disabitate e piene di insetti. In un’altra lettera deplorò: “Ho visto una ritirata di tedeschi verso Verona, costretta dalle nostre truppe che avanzavano sempre a colpi di cannone. Ho visto saltare tre mine. Ho visto l’incendio di tre paesi. Questa mattina sono stato circondato dall’incendio fatto dai tedeschi; quando sono battuti, uccidono tutte le donne e massacrano i bambini che impalano e danno fuoco a tutti i paesi, mentre i nostri soldati, morti di fame e di fatica, si privano del poco pane che mangiamo, perché non se ne trova più nulla, per darlo ai prigionieri che facciamo. L’ira dei nostri soldati è all’ultimo grado. Ho paura di non poterli più trattenere e sicuramente la vendetta sarà terribile, perché hanno sete di sangue”.

La guerra era un’immensa fornace. Vittorio Emanuele fu scosso dal sacrificio degli studenti universitari a Curtatone e Montanara e promise: “Noi saremo sempre i valorosi difensori dell’Italia”, mentre il re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, spergiuro seriale, “venendo meno agli impegni, ha richiamato da Napoli le truppe che aveva inviato qua e fa cannoneggiare Napoli e si mette al sicuro quell’imbroglione”. Se ne rammentò da Re nel 1859, quando  ricordò anche la condotta dei repubblicani milanesi contro suo padre: “Porto la vendetta nel cuore e un odio implacabile per questa indegna città”.

Il 9 agosto 1848 la marchesa Costanza d’Azeglio a sua volta descrisse al figlio le condizioni dei militari del regno di Sardegna: “Senza aver perduto una battaglia siamo finiti in una ritirata come quella di Russia nel cuore di un paese ricco e prospero come la Lombardia, un paese che volontariamente si era unito a noi. I nostri soldati si sono battuti fintanto che le forze non gli sono mancate, ma la fame e la sete li hanno decimati, la demoralizzazione ha avuto il sopravvento. (…) Bisogna vederli. Sono proprio delle mummie, la pelle nera e secca, lo sguardo fisso, si capisce le sofferenze che hanno passato”.

Tutti patirono, gli ufficiali come i soldati. E tutti insieme ripresero la guerra nel marzo 1849.

La sera della sconfitta di Novara (23 marzo 1849) Vittorio Emanuele informò sinteticamente Maria Adelaide dell’abdicazione del padre, che lo abbracciò l’ultima volta sul campo e chiese a lui e a suo fratello minore, Ferdinando, di “non odiarlo troppo”. Con quel nodo in gola il cinquantunenne Carlo Alberto partì per il Portogallo ove morì di angoscia cinque mesi dopo. A sua volta Vittorio Emanuele soffocò il singhiozzo, ma non dimenticò. Dopo quell’amara giornata, la “brumal Novara”, come scrisse Giosuè Carducci nell’ode Piemonte, iniziò la riscossa, coronata nel 1859 con le vittoriose battaglie di Magenta e Solferino-San Martino. L’Armata sarda mostrò che gli italiani sapevano battersi. I marescialli di Napoleone III passarono dalla sottovalutazione e dalla diffidenza alla stima. Gli italiani non erano più sotto tutela, un alleato “corvéable à merci”. Erano una nazione. Una nazione armata.

Sul punto di partire per la nuova guerra contro gli allemands, il 30 aprile 1859 Vittorio Emanuele II scrisse il suo testamento a Giovanni Nigra, già ministro delle Finanze con Cavour e poi della Real Casa: “Nella mia assenza vi affido tutto ciò che ho di più caro e prezioso: i miei figli, la mia casa. Se sarò ucciso ponete al sicuro la mia famiglia e ascoltate bene questo: vi sono al Museo delle armi quattro bandiere austriache prese dalle nostre truppe nella campagna del 1848 e là deposte da mio padre. Questi sono i trofei della sua gloria. Abbandonate tutto, al bisogno, valori, gioie, archivi, collezioni, tutto ciò che contiene questo palazzo, ma mettete in salvo quelle bandiere. Che io le ritrovi intatte e salve, come i miei figli. Ecco tutto quello che vi chiedo, il resto non è niente”.

Onore, fedeltà e memoria dei padri furono le vie maestre per fare l’Italia. Perciò, a buon diritto, Vittorio Emanuele di Savoia tenne l'ordinale II nel passaggio dalla corona di Sardegna a Re d'Italia.


Aldo A. MOLA