"LA VERA VITA E' RIFLESSIONE SU SE STESSA"

«La vera vita è riflessione su sé stessa». Alcune considerazioni filosofiche e politiche nel settantaseiesimo anniversario della morte di Giovanni Gentile. Lectio Magistralis del Prof. Luca Canapini.


"LA VERA VITA E' RIFLESSIONE SU SE STESSA"


Settantasei anni fa, il 15 aprile 1944, veniva vigliaccamente assassinato il filosofo siciliano Giovanni Gentile ad opera di un gruppo di gappisti. Oggi ripenso a lui e alla sua enorme eredità culturale, non solo nelle forme proprie del suo pensiero, ma altresì rintracciabile nelle filosofie di chi politicamente lo disprezzava come è il caso di Antonio Gramsci, del suo idealismo marxista debitore della filosofia gentiliana.

In questi giorni di oscurità che tutta l’Italia sta vivendo, costretto a casa, ho riscoperto vecchi libri della mia famiglia. Ritrovo tra i polverosi scaffali della biblioteca il sussidiario della scuola media pubblicato nel 1938-XVI di mio nonno dal titolo «La nuova milizia»: vi sono poesie di Papini, Alfieri, brani tratti dall’Iliade, dall’Odissea, dalla Commedia dantesca, poesie del mio conterraneo Leopardi e molto altro. Quasi ottocento pagine dedicate alle più alte opere della storia della cultura italiana, al cui confronto i manuali oggi in uso nei nostri istituti di scuola media inferiore appaiano, ad esser assai clementi, risibili. Era forte il tentativo da parte di tutto lo Stato, e segnatamente di Gentile, di edificare una élite capace, colta e preparata atta a guidare la nazione italiana nei tempi che sarebbero venuti. Questa posizione è del tutto contrapposta a quella perseguita dalle attuali normative in materia di formazione di tutte le scuole e università italiane che incessantemente reclamano e impongono l’appiattimento verso il basso del sapere affinché questo possa essere recepito da tutti, nessuno escluso.  

In questa direzione, però, lo svilimento e la destrutturazione del sapere umanistico e di quello scientifico, è inevitabile: nessuno può, peraltro, mettere in dubbio l’imbarbarimento culturale dell’Italia dei nostri giorni evidentemente derivato dalla crescente inefficacia formativa delle nostre scuole. A questo proposito val la pena citare una lettera che il figlio del filosofo, il grande fisico Giovanni Gentile jr. che fu allievo di Enrico Fermi e Werner Heisenberg, scrisse alla madre durante il suo soggiorno di studi nella Germania di Weimar: "Se tu mamma entri in una Università tedesca trovi lo spirito e la se­rietà che Papà ha tentato d’introdurre nella scuola italiana. Ma per me il difetto più grave è in tutto il sistema di vita italiano. Qui, per esempio, si cura in modo straordinario l’educazione della gioventù; dai bambini fino ai giovani di trenta anni. Qui lo studente si vede incoraggiato a studiare da mille parti e ha facilitazioni d’ogni sorta. Figurati che pagano la metà per tutto: nei teatri, nelle ferrovie, nei balli..."

Ben ebbe a dire la più grande penna del giornalismo italiano Indro Montanelli, quando definì la Riforma del 1923 scritta e voluta tenacemente da Gentile, «la più bella di tutta la storia d’Italia».

Oggi il pensiero di Gentile, dopo anni di ingiusto e intollerabile oblio, vive un’inaspettata redécouverte complice quel sentimento di tradimento che molti italiani provano, a ragione, nei confronti delle istituzioni europee e di buona parte della politica italiana ad esse assoggettata. 

Purtuttavia l’attualismo appare ancora, ai più, un sistema obsoleto, superato e inutile se considerato nella sua accezione teoretica come possibilità di lettura del mondo. Diversamente, mantiene un certo interesse se studiato come un momento significativo della filosofia della storia italiana del primo Novecento.

Spesso Gentile è dipinto come il fascista impenitente che, non pago d’esser stato l’ideologo di un regime dittatoriale (è, infatti, sua la Dottrina del fascismo), rinnovò l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana. Tuttavia, le ragioni di quell’ultima collaborazione furono tutt’altro che serene: in un primo tempo rigettò l’incarico di entrare nel Governo rivoltogli dal già ministro Carlo Alberto Bigini, ma non seppe rifiutare la stessa proposta fattagli qualche tempo dopo dallo stesso Mussolini. Accettò per una «questione d’onore», come lo stesso Gentile disse, nel nome di quella profonda coerenza che sempre lo aveva caratterizzato, di quella dirittura morale che tutti gli riconobbero nella buona e nella cattiva sorte. È vile abbandonare un amico nel momento della disgrazia, come tanti altri invece fecero. Il più grande dei biografi di Gentile, Sergio Romano, vedeva in quella «questione d’onore» un riferimento a quella sicilianità forte e solare, che accomuna gli spiriti eletti di quella terra.

Ricordo le parole del conte Pio Filippani-Ronconi che volle arruolarsi e combattere nelle Schutzstaffel nel tempo della Repubblica Sociale, non per salvare quella disgraziata guerra ormai perduta, ma almeno per redimere l’onore d’Italia.

Gentile, dunque, aderì al nuovo governo di Salò e divenne presidente dell’Accademia d’Italia, com’ebbe a dire, «con l’angoscia nel cuore», sebbene l’incarico fosse più simbolico e innocuo che altro. Anche in questo caso accolse collaboratori non fascisti, come già aveva fatto in passato. Già alla Normale di Pisa, infatti, non impose mai il suo pensiero, e la sua signorile riservatezza, lasciava piena libertà agli allievi cattolici come Branca, eminente studioso del Boccaccio, l’italianista Momigliano, i filologi Barbi e Casella e l’umanista ebreo tedesco Paul Oskar Kristeller fuggito dalla Germania di Hitler e che Gentile aiutò ad emigrare negli Stati Uniti, esattamente come fece con il filosofo Rodolfo Mondolfo anch’egli ebreo. E quando nel 1933 Branca e alcuni altri venivano espulsi perché, invece di portare il distintivo del Guf (Gruppo universitario fascista), indossavano quello della Fauci (Federazione italiana universitaria cattolici italiani), Gentile li fece immediatamente reinserire, pur tra il vivissimo scontento del podestà e di Buffarini-Guidi, sottosegretario agli Interni. Proprio a Branca egli diceva: «Tu sei tutto contro di me, sei antidealista, sei cattolico, sei antifascista; ma devo pur aiutarti». Non va dimenticato, altresì, l’aiuto esplicito dato agli studiosi e docenti ebrei alla Normale e all’Enciclopedia Italiana, sotto la sua direzione dal 1925.

Nel quadro ideologico della Repubblica di Salò, Gentile fu considerato una figura scomoda poiché politicamente moderato, mediativo e dunque poco o nulla pertinente ai valori filonazisti che caratterizzarono l’ultimo tempo del fascismo, tanto che lo accusarono d’aver trasformato l'Enciclopedia Italiana in una «casa di ebrei». Insomma, per quei fascisti, Gentile era il più significativo esponente di quella categoria di intellettuali «liberali borghesi», «pietisti» sempre alla ricerca di «concordia nazionale», di «tolleranza» verso i «mortali nemici» del fascismo.

Giovanni Preziosi, in una lettera indirizzata a Mussolini il 31 gennaio di quel malaugurato 1944, scrisse: «Compito numero uno non è la così detta concordia nazionale, della quale insieme a Gentile vanno blaterando altri, ma la totale eliminazione degli ebrei»: questo fa ben capire quanto fosse il pensiero gentiliano lontano, o addirittura antitetico, rispetto ai valori della Repubblica Sociale Italiana. Non solo: Gentile operò attivamente per liberare dalle carceri di Salò antifascisti come gli intellettuali Attilio Momigliano, Aldo Braibanti e molti altri ed esponendosi così ancor più alle critiche feroci di quelli che dovevano essere i suoi ideali alleati.

Il Gentile della Repubblica Sociale Italiana è un uomo consapevole dell’ineluttabilità dell’imminente sconfitta, comprende la gravità della situazione nella quale vive l’Italia lacerata da una tragica guerra civile: è una nazione che vede i suoi figli uccidersi e odiarsi, preda del sentimento della vendetta e dell’irrazionalità.

Gentile avrebbe voluto invece che gli italiani tornassero a dialogare. Per questo cercava e auspicava un dialogo con chi fascista non era. E quest’atteggiamento, tutt’altro che in linea con lo spirito di Salò fattosi nerissimo, ai nazisti e alle camicie nere non piaceva per nulla.

La Repubblica Sociale Italiana non aveva né il potere, né il controllo sociale e politico, né tantomeno l’intenzione di realizzare quello che il filosofo, nell’ultimo scorcio della sua vita, avrebbe desiderato per pacificare il paese sconvolto.

Il 30 marzo 1944 Giovanni Gentile ricevette una cartolina anonima, con timbro postale di Firenze del 28 marzo, recante il messaggio: «Tu come esponente del neofascismo sei responsabile dell'assassinio dei cinque giovani al mattino del 22 marzo 1944». Ci si riferisce qui ai noti martiri del campo di Marte, cinque giovani renitenti alla leva sospettati di appartenere a bande partigiane. Inutile precisare che Gentile non c’entrò nulla con la loro fucilazione, ma era considerato da molti il responsabile ideale di quella drammatica situazione, dunque colpevole.

La Repubblica di Salò offrì dunque al filosofo una scorta, che lui rifiutò nettamente: egli, come ebbe a dire, non si considerava così importante e anzi si rendeva disponibile per qualsiasi tipo di confronto con chiunque.

Gentile era divenuto un personaggio assai rilevante e scomodo agli uomini più in vista del fascismo, e sarebbe stato assai più utile come martire: di filosofi che parlano di «concordia degli animi» a quei tempi non si sapeva che farsene. Così, inviso agli stessi fascisti, Gentile era stato in breve tempo lasciato solo. Come scrisse Sergio Romano, "Gentile si servì della sua autorità per deplorare la crudeltà delle bande fasciste, invocare la pace civile degli italiani e intervenire presso il prefetto per salvare la vita di persone arrestate e condannate a morte. Vi era quindi tra i fascisti fiorentini, nelle settimane che precedettero la sua uccisione, un partito degli intransigenti per cui il filosofo era diventato un pericoloso esempio di lassismo morale e ideologico".

In un'intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 6 agosto 2004, Teresa Mattei già allieva di Gentile, deputata del Partito Comunista Italiano e facente poi parte dell'Assemblea Costituente, ha ricordato che l'iniziativa dell'omicidio del filosofo siciliano fu del marito Bruno Sanguinetti. Nell’intervista ricordò altresì il fondamentale ruolo giocato da lei stessa, nelle vesti assai promettenti di Giuda Iscariota:

Per fare in modo che i gappisti incaricati dell'agguato potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso l'Accademia d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai partigiani, poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile imbarazzo.

Così il pomeriggio del 15 aprile 1944, al Salviatino, all’ingresso di Villa Montalto, dove abitava, Gentile fu trucidato da un comando gappista costituito da Bruno Fanciullacci e Giuseppe Martini. L’episodio divise lo stesso fronte antifascista: il Cln toscano disapprovò l’accaduto (anche per la vecchia amicizia che lo legava al filosofo), mentre il partito comunista rivendicò l’omicidio.

Il colonnello Stevenson, da Radio Londra, informava dell’accaduto oltraggiando il filosofo e apostrofandolo «Arlecchino filosofo»; Togliatti non fu da meno definendolo «filosofo bestione», e immondo autore di degenerazione politica e intellettuale. Differente fu l’atteggiamento di Croce che, al di là dei forti dissapori che vi erano stati con Gentile, seppe mostrare rispetto e stima, comunque, per il grande filosofo e vecchio amico scomparso.

Sulla morte di Gentile scrisse lo storico newyorkese Anthony James Gregor: "L’assassinio di Gentile [...], fu nel suo significato profondo necessario. I capi della futura Italia antifascista avevano bisogno di un simbolo importante che denotasse una cesura storica e politica. Per un quarto di secolo, il pensiero di Gentile aveva rappresentato il fondamento razionale del governo fascista dell’Italia. La sua morte sarebbe stato il segnale della definitiva scomparsa di quest’ultimo. [...] Era necessario che Gentile morisse insieme al fascismo ideale che aveva immaginato. La sua morte ha segnato la fine di un’epoca storica".

Sul senso profondo, e peculiare della morte di Gentile si è espresso, tra gli altri, il filosofo Gennaro Sasso che aggiunge: "L’uccisione di Gentile potrebbe essere stata [...] la prova generale di quella di Mussolini; e che la ragione stesse nella volontà degli inglesi di togliere di mezzo i principali personaggi del fascismo per contrastare la diversa e persino opposta tendenza degli americani a conservarli in vita e quindi a sottoporli a processo. Uccidere Gentile significava che, a fortiori, anche Mussolini dovesse esserlo; e uccidere quest’ultimo signifi cava stroncare l’idea stessa dei processi [...]. Insomma, nel condannare a morte Gentile e Mussolini, gli inglesi avrebbero criticato coi fatti, e avant la lettre, la mentalità, come potrebbe dirsi, di Norimberga".

Il pensiero di Gentile, dopo la sua morte subì un’autentica rimozione e ancora oggi la sua filosofia divide il mondo accademico e intellettuale: c’è chi ha voluto sottolinearne la grande importanza nella storia della filosofia italiana, ed è il caso di Augusto Del Noce (il quale ricava analogie sistemiche tra la concezione dell’atto e la teoria dello Stato fascista), e chi invece ne sottolinea le lacune e le aporie, come è il caso del già citato crociano Gennaro Sasso. Il confronto resta, dunque, ancora oggi dolorosamente aperto e chi studia l’idealismo e la filosofia gentiliana, chi studia la storia della filosofia non solo d’Italia ma d’Europa, vorrebbe che l’approccio fosse, oggi, quanto più possibile scevro da intenzioni politiche o ideologiche, se ciò è possibile.

Marotta (PU), 15 aprile 2020


Luca CANAPINI