FOCUS DI APPROFONDIMENTO: "MONARCHISMO PRE-UNITARIO"

Iniziamo il dibattito sul "Monarchismo pre-unitario" con l'intervento di Gianluigi Chiaserotti, che considera il delicato passaggio dalla divisione in regni all'unificazione nazionale: un passaggio non casuale ma propiziato da un solido e fecondo retroterra culturale. 


CONSIDERAZIONI SU ALCUNE TRADIZIONI STORICHE ITALIANE


In questo particolare momento storico (dilaniato anche da una pandemia), offuscato dalla caduta di certe tradizioni, come, da ultima, anche il cambio di alcune parole (ritengo più per paura che per adeguamento alla traduzione della liturgia dalla lingua greca) in quello che era una certezza: il Messale Romano.

Momento in cui l’ignoranza e la superficialità emergono e regnano sovrane, sono necessarie due parole sulle  vere ed autentiche tradizioni della nostra Patria.

Infatti, proprio quando sarebbe necessario rivalutare la Monarchia come forma istituzionale e di unità, alcuni sparuti gruppi portano ad esempio le tradizioni dei regni preunitari, ma in senso errato, e cioè essenzialmente come diniego dell’Unità medesima conquistata nel 1861 grazie e soprattutto alla visione di grandi uomini a cui la nostra patria ha dato i natali.

Codesti sparuti gruppi operano essenzialmente al sud, in quella Napoli, antica capitale del Regno delle Due Sicilie, la quale, grazie proprio alla grande dinastia borbonica, ebbe i suoi momenti di gloria, di fasto, di civiltà (la prima ferrovia italiana fu la Napoli Portici).

Ma questi c. d. “gruppi neoborbonici”, da meri ignoranti, contestano solo, ed in modo becero, l’unità d’Italia che poi volontariamente il sud accettò.

Al riguardo mi torna alla memoria quel capolavoro letterario che è “Il Gattopardo” [di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957)], ove il protagonista, Don Fabrizio, lirico e critico nello stesso tempo, con occhio disincantato, fuori dagli avvenimenti, li vede mutare, li vede sfuggire dal di lui controllo e, suo malgrado, è del tutto incapace di adeguarvisi. «[…] è meglio il male certo che il bene non sperimentato […]» scrive l’Autore, facendo suo, un proverbio millenario nel momento in cui il protagonista vota affermativamente per il plebiscito di annessione al Regno d’Italia, e ciò con stupore generale della gente di Donnafugata, restia a ratificare, sia per ragioni personali, sia che per fede religiosa, sia anche per aver ricevuto immensi favori dal passato regime. Ma anche perché questa gente effettuò un viaggio “ad limina Gattopardorum” in quanto stimava impossibile che un Principe di Salina, Pari del Regno delle Due Sicilie, potesse votare in favore di quella che la gente denominava Rivoluzione.

Ma ciò non era una rivoluzione.

Era il naturale evolversi di una situazione che sfociò il 17 marzo 1861 nella Proclamazione del Regno d’Italia.

Ma questa unità partiva da lontano. Partiva dalla visione di Dante Alighieri il quale già la considerava come una, pur nella diversità delle tradizioni e dei costumi dei suoi abitanti, minuziosamente elencati, regione per regione, nel suo “De vulgari eloquentia” (I, X).

I Siciliani, gli Apuli, i Calabri, i Napoletani, i Toscani, i Genovesi, i Sardi, i Romagnoli, i Lombardi, i Trevigiani, i Veneziani, tutti elencati da Dante nel suo grande libro sulla lingua volgare, pur nella loro grande diversità, con la poesia e la letteratura fiorita tra il ‘200 ed il ‘300 hanno raggiunto ciò che cercavano, una lingua «volgare, illustre, cardinale, regale e curiale», che sembra non appartenere a nessuno perché deve essere comune a tutti.

Ma cosa era l’Italia?

La nostra penisola era, da secoli, divisa e per nulla tenuta in considerazione. Quindi  le grandi e potenti nazioni d’Europa avevano trovato un campo aperto alle loro ambizioni.

L’Italia era considerata una semplice espressione geografica.

Tutti si erano lanciati verso l’Italia, come, oserei dire, su una facile preda: Francia, Spagna, Austria erano venute a conquistarvi intere provincie: le due più  grandi città d’Italia, Milano e Napoli, erano cadute in mano straniera. Ed i superstiti piccoli Stati Italiani, anche se di nome avevano conservato la loro indipendenza, di fatto finivano con il gravitare, come satelliti, intorno ai pianeti europei.

Gli Italiani non erano più nessuno in casa propria.

Ed è veramente triste affermarlo!

Per lunghi, lunghissimi anni (più di trecento), nelle più fiorenti regioni italiane, francesi, tedeschi o spagnoli vi comandavano. 

In questa situazione, anche attraverso i secoli, si erano levate voci che incitavano gli italiani a riconquistare la libertà perduta. Voci di poeti, di storici, di politici, di musicisti che testimoniavano la rivolta morale della parte più nobile del paese.

Ma perché l’Italia si risollevasse dalla decadenza, non bastava il richiamo di pochi spiriti eletti.

Era necessario che il risveglio penetrasse profondamente nell’animo della nazione.

Era necessario che gli italiani si trasformassero, si facessero, per così dire, un’anima nuova. Per acquistare la libertà, necessitava che negli animi sorgesse il desiderio, il bisogno della libertà.

Per raggiungere l’unità, era opportuno superare le divisioni, acquistare la coscienza di formare un’unica famiglia, affratellata in un’unica sorte. Per ottenere l’indipendenza, gli italiani dovevano apprendere  quello che, nei secoli, avevano dimenticato: a lottare, a combattere, a morire per la loro causa.       

Eccoci quindi alla storia del nostro Risorgimento che non è soltanto quella di un seguito di insurrezioni e di battaglie: è ben di più, è la storia di un popolo che si trasforma, che si rinnova, è la storia della nuova Italia che nasce.

E’ quindi la storia della sua vera ed autentica tradizione.

Ma quando questa c. d. “Nuova Italia” nasce?

Nasce molti anni prima, cioè alla fine del secolo XVIII, con quel grande movimento politico che scoppiò in Francia: la Rivoluzione Francese e tutte le conseguenze che portò.

L’ascesa di un astro come Napoleone Bonaparte (1769-1821), la sua discesa in Italia del 1796-97, e l’elevazione, il 7 gennaio 1797, in Reggio dell’Emilia, del primo tricolore italiano [anche Dante (in Purg. XXIX, vv. 121-126) previde i colori della bandiera italiana].

Quindi anche l’Italia  partecipa a questo fervore di rinnovamento, che percorre l’Europa: vi partecipa con i suoi uomini migliori. L’inerzia degli italiani si scuote. Un’avanguardia di pensatori e di uomini di azione si mette in testa del movimento, e ciò nelle grandi città che formano i centri più attivi della vita italiana.

Ecco, a Milano, Cesare Beccaria (1738-1794), filosofo, giurista, letterato, che ispira con il suo libro più famoso “Dei delitti e delle pene”, la riforma del diritto penale; e Pietro Verri (1728-1797), economista e storico, che lascia una profonda impronta, con i suoi studi e con la sua opera  sul terreno filosofico e finanziario.

Ma non di meno è quanto accadde a Napoli, centro di questo risveglio: con Gaetano Filangeri (1753-1788), giurista e filosofo, il quale espose un pensiero frutto della grande cultura napoletana antecedente l’Unità d’Italia, rappresentata da Giovan Battista Vico (1668-1744) e da Pietro Giannone (1676-1748), i quali interpolarono la dottrina di Charles-Louis de Secondat, barone de la Brède et de Montesquieu (1689-1755); Antonio Genovesi (1713-1769), il quale, anch’egli, seguì le lezioni del Vico e, ordinato sacerdote, insegnò metafisica ed etica all’Università di Napoli, ma dopo l’incontro con l’economista Ferdinando Galiani (1728-1787), si dedicò all’economia, di cui tenne nel 1754 la prima cattedra in Europa.

Nelle “Lezioni di commercio o sia d’economia civile” (1765-1767) il Genovesi trattò del valore (connesso, utilitariamente, alla soddisfazione dei bisogni) ed anche di politica economica, combinando tra loro posizioni mercantiliste, liberiste e fisiocratiche, al fine di conciliare l’etica con il lusso generato dallo sviluppo economico; e tanti altri, che sarebbe lungo ricordare, filosofi, giuristi, economisti, tutti, si puo’ dire, operai della costruzione della nuova fabbrica, se mi sia permesso di denominare così la nostra Penisola.

Sarebbe il caso che i c. d. “neoborbonici” riflettessero e studiassero anche su quanto poc’anzi detto.  

Sono tutti personaggi che hanno posto in evidenza quel “lumen rationis” delle idee illuministe di fine secolo XVIII e che ispirarono la Rivoluzione Francese.

Gli eserciti della repubblica francese discendono dalle Alpi come un torrente devastatore; ed è, man mano che spazzano via, con le loro vittorie, gli eserciti degli antichi dominatori, spazzano via anche unitamente i vecchi Stati, i vecchi ordinamenti, le vecchie classi dirigenti.

E’ veramente un mondo nuovo che nasce, in quei giorni…..

L’Italia si copre di repubbliche [la Cispadana (1796), la quale si fonderà (27 giugno 1797) con la Transpadana, dando vita alla repubblica Cisalpina, con capitale Milano]  ad immagine e somiglianza della grande repubblica francese. Sono delle creazioni improvvisate, disordinate, confuse, che si reggono sulla forza delle armi francesi più che sulla propria forza. Ma sono delle creazioni nuove. Non più sovrani, non più privilegi: tutti son chiamati a collaborare, la strada è aperta per tutti.

Le nuove parole del secolo, libertà, eguaglianza, popolo, nazione, che prima esistevano come idee vaghe ed alquanto astratte, divengono ora per gli italiani, qualcosa di vivo, di presente, ma soprattutto di concreto.

Gli anni trascorrono.

Il generale rivoluzionario Bonaparte si trasforma nell’imperatore Napoleone; le repubbliche si trasformano in regni.

L’Italia aveva trovato (purtroppo) in Napoleone un nuovo padrone, che prese il posto degli antichi. Ne prese il posto, ma non fu uguale a loro.

I vecchi padroni rappresentano il passato.

Il nuovo padrone rappresenta, non ostante tutto, l’avvenire. Anche se porta sul capo una corona  anche se si comporta, qualche volta, come un tiranno, resta per l’Italia come per la Francia, il figlio della rivoluzione.

La corona  è detta “del ferro” o “ferrea”, ed è conservata attualmente nel Duomo di Monza. Essa molto simboleggiò la storia italica e,  in senso lato, quella europea. Detta corona è il simbolo per antonomasia dell’Unità e del Regno d’Italia.

Negli stati napoleonici gli italiani vengono chiamati a governare, partecipano alle cariche pubbliche; imparano così quello che non avevano appreso prima, a reggersi da soli, ad occuparsi delle loro attività politiche. Ed apprendono anche quello che da secoli avevano dimenticato, a combattere. Sorgono eserciti italiani, combattono sotto bandiere italiane. Gli italiani riprendono le armi in mano, cominciano ad adoperarle: la lezione di Napoleone è anche per gli italiani, una lezione di forza.

Quando, dopo vent’anni, il grande Còrso viene sconfitto ed abbattuto, codesta è l’eredità che egli lascia all’Italia: la coscienza di se stessa, la coscienza di formare un popolo, ed una nazione.

Non fu soltanto una semplice disfatta di un uomo, che vedeva crollare le sue sconfinate ambizioni di dominio: con lui, era la rivoluzione che veniva vinta ed abbattuta. Il vecchio mondo prendeva la sua rivincita. I sovrani d’Europa, radunati a Vienna in congresso, si proposero di restaurare l’antico edificio, che la Rivoluzione e Napoleone avevano sconvolto. 

Restaurazione”, appunto, è il nome che danno alla loro opera: restaurazione del vecchio ordine politico e sociale che aveva preceduto la rivoluzione.

Restaurazione anche in Italia. Gli antichi stati vengono richiamati in vita; gli antichi sovrani risalgono sui loro troni. Ritorna, come prima, l’Austria. Più forte di prima: ai suoi antichi dominii della Lombardia ha aggiunto una nuova conquista, Venezia. La vecchia, gloriosa repubblica di San Marco era stata travolta dagli sconvolgimenti del periodo rivoluzionario: ora, divenne una preda dei vincitori.

Così, l’Italia Settentrionale, dal Ticino all’Adriatico, diviene una provincia austriaca: e con essa, Vienna tenne nelle sue mani le chiavi della Penisola.

Ma la “Restaurazione” fu l’inizio di una nuova stagione per la nostra Penisola, che, culminerà, come più volte abbiamo detto, nell’Unità d’Italia.

Agli ideali illuministici, razionali, che portarono alla Rivoluzione Francese, si comincia a contrapporre quel nuovo movimento culturale che è il Romanticismo.

Da principio puo’ apparire che il Romanticismo, predicando il ritorno alla tradizione od esaltando il sentimento, in netta antitesi al razionalismo illuministico, sia alleato alla Restaurazione. Ma si vede che la rievocazione della storia, l’esaltazione delle tradizioni nazionali, il richiamo alla coscienza popolare significano solo l’alimento del patriottismo. Fare appello, come i romantici, al sentimento individuale, alla libera espressione del cuore e della fantasia, in antitesi alle regole del classicismo, significa alimentare la battaglia per la libertà contro lo spirito autoritario della Restaurazione. 

Romantico diviene sinonimo ovunque di liberale e patriota.

Non dimentichiamoci che il Romanticismo nasce in Germania da quel movimento (pre-romantico) denominato “Sturm und Drang”, “impeto ed assalto”.

La cultura del Romanticismo, infatti, non vive isolata in una sua “turris eburnea”, (la torre d’avorio), ma partecipa caldamente alla battaglia politica che attorno a lei si svolge.

In ogni paese, le università con i loro studenti e docenti costituiscono altrettanti focolai di agitazione liberale e di cospirazioni. Il poeta, il dotto, il musicista si sentono investiti di una specie di missione morale e, come tali, non ascoltati dai loro contemporanei.

La pubblicazione di un’opera di poesia romantica, di una grande opera storica o la rappresentazione di uno dei melodrammi romantici, come quelli dei musicisti Vincenzo Bellini (1801-1835), eppoi di Giuseppe Verdi (1813-1901), di Gioacchino Rossini (1792-1868), tutti in Italia, destano ondate di commozione e fremiti di entusiasmo, che li trasformano in altrettante battaglie di libertà.

Animatrice del patriottismo nazionale, la cultura romantica mantiene del resto vivissimo l’anelito umanitario ad una fraternità estesa al di sopra delle barriere nazionali.

A mio modo di vedere sono queste tutte le tradizioni dei Regni Preunitari che andrebbero rivalutate.

Furono appunto queste tradizioni che sfociarono nell’Unità d’Italia.

Tradizioni che Casa Savoia ebbe il coraggio di fare sue.

Concludo con quanto scrisse il grande storico Gioacchino Volpe (1876-1971):

«[…] La Monarchia, quella Monarchia rappresentata da quel Casato di antica origine, che nel ‘700 rimase l’unico Casato in certo senso “nazionale” della Penisola, cominciò ad operare, anche senza proporselo, per l’unità, sin da quando, nel ‘600 e ‘700, essa, per difendere il suo Stato o per guadagnare qualche provincia o città della Lombardia, ebbe a fronteggiare stranieri e soltanto stranieri, Spagna o Austria o Francia, richiamando su di sé l’attenzione, la simpatia e qualche speranza di Italiani di ogni paese, stanchi di tanta sarabanda di conquistatori e predoni, e diventando il punto di convergenza loro. […]».

E scrive ancora il Volpe:

«[…] E il dualismo (Italia monarchica e sabauda e l’Italia di popolo) era poi destinato a scomparire, quasi risolvendosi in forza, nel crescente riconoscimento che la Monarchia era l’unità, era la continuità, era la forza necessaria in un paese che aveva, e per di più poco benevolo, il Papato. […]».


Gianluigi CHIASEROTTI


Foto di copertina: "Mappa degli anti stati italiani centro-settentrionali", da Mappa antichi stati italiani - Stato Landi - Wikipedia