"E QUINDI USCIMMO A RIVEDER LE STELLE"

Breve sintesi del DCC Anno Dantesco.


Siamo così giunti al termine del DCC anno dalla morte di Dante Alighieri.

Tanto è stato scritto.

Tanto è stato pubblicato.

Tanto si è ricordato.

Non voglio, ma soprattutto, non devo aggiungere altro.

Mi limiterò ad una breve sintesi di codesto 2021, o sintesi dantesca, anche se, a mio modestissimo parere, il Sommo Poeta non va ricordato un solo anno, ma sempre.

Ed il cosiddetto annuale DanteDì (espressione creata dal linguista Prof. Francesco Sabatini) del 25 marzo ne è il limpido esempio.  

Codesta sintesi verte su alcuni dei temi ricordati quest’anno:

Dante ed il Tricolore, Dante e la Lingua Italiana, Dante e l’Italia.

Un aspetto essenziale riguarda senza dubbio il fatto ch’egli fu ispiratore della Bandiera Italiana nei suoi colori tradizionali: Verde, Bianco e Rosso.

E due sono i colti riferimenti danteschi.

Il primo, una terzina (Purg. XXX, 31-33) dedicata all’amata Beatrice:


«[…] Sovra candido vel cinta d’uliva

donna m’apparve, sotto verde manto

vestita di color di fiamma viva»


Secondo alcune interpretazioni, i colori del velo, del manto e della veste alludono alla fede, alla speranza ed alla carità: «le quali tre virtù sono solo della Teologia, e per questo sono dette teologiche» [secondo l’umanista e filosofo Cristoforo Landino (1424-1498)].

Il secondo, senza dubbio in Purg. XXIX, 121-126:


«Tre donne in giro dalla destra rota

venìan danzando: l’una tanto rossa

ch’a pena fora dentro al foco nota

l’altr’era come se le carni e l’ossa

fossero state di smeraldo fatte

la terza parea neve testé mossa;».


Anche qui le tre donne sono le virtù teologali: fede, speranza e carità.

Ma queste tre virtù devono essere poste a fondamento della vita civile, fatto cui il Sommo Poeta teneva molto.

Ed Infatti il 7 gennaio 1797, duecentoventiquattro anni or sono, in Reggio Emilia l’assemblea della Repubblica Cispadana decretò che il bianco, il rosso e il verde fossero adottati come i colori della bandiera nazionale, con codeste testuali parole:


«[...]Reggio Emilia, 7 gennaio 1797, ore 11. Sala Patriottica. Gli intervenuti sono 100, deputati delle popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia. Giuseppe Compagnoni di Lugo fa mozione che si renda Universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori, Verde, Bianco e Rosso e che questi tre colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti. Vien decretato. [...]» (Verbale della riunione del 7 gennaio 1797 del congresso della Repubblica Cispadana).


Ma la storia del nostro tricolore ha comunque origini più lontane nel tempo.

E possiamo quindi affermare che, anche in questo, Dante ispirò, e bene, la futura Bandiera Italiana, simbolo di unità.

Altro aspetto dantesco è la tradizionale sua paternità della Lingua Italiana.

L’Italia è considerata da Dante Alighieri come una, pur nella diversità delle tradizioni e dei costumi dei suoi abitanti, minuziosamente elencati, regione per regione, nel suo “De vulgari eloquentia” (I, X).

I Siciliani, gli Apuli, i Calabri, i Napoletani, i Toscani, i Genovesi, i Sardi, i Romagnoli, i Lombardi, i Trevigiani, i Veneziani, tutti elencati da Dante nel suo grande libro sulla lingua volgare, pur nella loro grande diversità, con la poesia e la letteratura fiorita tra il ‘200 ed il ‘300 hanno raggiunto ciò che cercavano, una lingua «volgare, illustre, cardinale, regale e curiale», che sembra non appartenere a nessuno perché deve essere comune a tutti.

Era l’Italia che Alessandro Manzoni (1785-1873)  nella poesia “Marzo 1821”  dedicata a Teodoro Körner (1791-1813), poeta e soldato della indipendenza germanica (nome caro a tutti i popoli che combatterono per difendere o per conquistare una patria), circa sei secoli dopo Dante, auspicava «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», un’Italia unita politicamente, con un solo esercito, una sola lingua nazionale, una stessa religione, una sola memoria storica, una stessa origine e identici sentimenti.

Ma sicuramente l’ultimo e fondamentale aspetto che riassume ed amplia quanto fin qui esposto è la paternità di Dante riguardo all’Unità d’Italia.

Ciò più volte risalta nella Divina Commedia.

E qui che possiamo fare certamente il parallelo tra i tre Canti politici dell’opera, il Sesto di ciascuna Cantica.

Il Canto VI dell’Inferno è il cosiddetto Canto dei Golosi e protagonista ne è Ciacco. Esso, rievocando le discordie intestine di Firenze, lo fa corrispondere armonicamente al Canto VI del Purgatorio, quello di Sordello da Goito, in cui Dante impreca le discordie d’Italia e quindi al VI del Paradiso in cui Giustiniano fa rivivere, in una drammatica sintesi, le secolari vicende dell’Impero.

Così che da una visione politica particolare (Firenze), la poesia dantesca si eleva gradatamente ad una visione politica nazionale (Italia) più ampia e quindi universale (Impero).

La grandezza dell’Italia nel passato e la penosa situazione che ha sotto gli occhi portano il Sommo Poeta ad una violenta invettiva contro il nostro Paese.

Ed è proprio nel Canto VI del Purgatorio, con l’affettuoso incontro di due concittadini mantovani, i poeti Sordello da Goito (1200/1210 ca.-1269) e Virgilio (70 a. C.- 19 a. C.), che vien suscitata in Dante un’amara e spietata apostrofe contro l’Italia del suo tempo, terra di tiranni, di dolore e di malcostume, simile ad una nave senza capitano nel mare in tempesta: «Ahi, serva Italia, di dolore ostello, […]/nave sanza nocchiere in gran tempesta,/non donna di provincie, ma bordello! » (Purg. VI, 76-78).

Gli abitanti di una medesima città si odiano e si dilaniano e non c’è pace in nessuna zona.

L’opera dell’imperatore Giustiniano, che aveva dato adeguate leggi all’Italia, risulta inutile, perché le leggi non vengono fatte rispettare.

Gli ecclesiastici, invece di dedicarsi alle cose sacre, si appropriano del potere laico, in mancanza dell’autorità politica voluta da Dio stesso per tenere a freno l’Italia, simile ad una cavalla selvaggia.

Questo è il Canto amato dai protagonisti del nostro Risorgimento.

Ma Dante è anche colui che, per primo, delinea i confini della nostra Penisola.

Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra patria, includendovi, già nel ‘300, l’Istria ed il Tirolo Meridionale.

Celebri i versi nel Canto IX (112-114) dell’Inferno:  «[…] Sì com’ad Arli, ove Rodano stagna,/sì com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi termini bagna, […]».

Intuì, interpretò ed alimentò la coscienza nazionale.

Ne deplorò le divisioni interne.

Portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora.

Un ulteriore pensiero che mi viene a conclusione di codesto anno è sicuramente la riscoperta da parte degli studiosi e degli appassionati delle ipotesi sul cosiddetto Veltro riferendosi all’unica ed autentica profezia “ante eventum” della Divina Commedia nel Canto I dell’Inferno.

A chi si riferiva Dante? E l’enigma è ancora in piedi, anche se personalmente ritengo che si potesse anche riferire a sé stesso.

La Commedia Dante la scrisse essenzialmente durante l’arduo esilio.

Ed in questo periodo egli sperava, e dal profondo del cuore, un salvatore per la sua Firenze: un salvatore che non arrivò mai.


«e quindi uscimmo a riveder le stelle»


Meglio non si poteva intitolare questo mio breve pensiero conclusivo. 

Il dantista Padre Luigi Pietrobono (1863-1960) a commento di questo verso scrive [1]: «Già comincia a spirare in questi versi un’aura nuova. Dal tutto e dal male si torna al bene; dalla morte alla vita; dall’aria senza stelle a un cielo, dove le stelle che segnano la mèta, chiamano l’uomo e con la loro bellezza eterna gli dicono: fin qui. Ascendi: la tua legge è questa.».

Ancora una volta l’attualità di Dante è impressionante.

Ed è, grazie alla sua attualità, che viene naturale adattarlo alla situazione odierna.

L’Italia è forte, è una Nazione solida, e supererà, ed alla grande, questo momento inatteso, inaspettato e non voluto.

In ogni epoca, l’umanità ha dovuto combattere contro il cosiddetto male: poteva trattarsi di affrontare i barbari al tempo dell’antica Roma, gli infedeli ai tempi delle Crociate, la cupidigia od anche un’epidemia, come al presente.

Dante è «[…] l’apostolo ed il profeta dell’Italia che verrà. Dopo di lui verranno Petrarca, Machiavelli, Ariosto, quindi Vico, Alfieri, Foscolo, Leopardi, […]»  Carducci e Pascoli, «[…] e col tempo i grandi sognatori d’Italia, fino agli scrittori, i poeti  ed i pensatori risorgimentali […] fu Dante il vero fondatore d’Italia» come limpidamente scrive Marcello Veneziani [2].

Dante è il simbolo della modernità e ciò lo ricollega ai teorici del Risorgimento, come poc’anzi ho detto, che riusciranno a fare l’Italia. Tuttavia rimane ancora oggi la necessità che si sentano veramente Italiani quanti hanno l’onore di appartenere al paese più bello del mondo, il faro della civiltà, che da Roma si è esteso nell’Occidente Cristiano eppoi oltre gli Oceani.

Concludo con le parole di Niccolò Tommaseo (1802-1874), linguista, scrittore e patriota:


«Leggere Dante è un dovere; rileggerlo un bisogno; sentirlo è presagio di grandezza».


Gianluigi CHIASEROTTI


[1] La Divina Commedia, Inferno, SEI, 1983, pag. 440, 139

[2] Dante, Nostro Padre, Vallecchi, Firenze 2020, pag. 13