Vittorio Emanuele III: “narrazione” e verità

di Aldo A. Mola

Nel centenario dell'insediamento del governo presieduto da Benito Mussolini (31 ottobre 1922) uscì una decina di libri sulla mai avvenuta “marcia su Roma”, completi di addebito a Vittorio Emanuele III di “colpo di Stato”. Il governo comprese tutti i partiti costituzionali e fu approvato dalle Camere a larghissima maggioranza. Quei libri scrissero il falso. Nel 2023 altri libri e programmi televisivi hanno sorvolato sul ruolo svolto dal Re il 25 luglio 1943 (spacciando Mussolini come vittima di un altro “colpo di Stato”) e hanno ripetuto le chiacchiere sulla “fuga di Pescara”, vecchia propaganda della Repubblica sociale italiana. Il libro di un accademico è intitolato «Tagliare la corda. 9 settembre. Storia di una fuga». Dunque il bilancio storiografico del biennio 2022-2023 è magro. La verità rimane lontana sull'orizzonte. Mentre dopo il Solstizio d'Inverno la Luce torna a risplendere sulle sciagure umane occorre fare un minimo di chiarezza. 

I poteri del Re Nell'estate 1943 Vittorio Emanuele III esercitò i poteri di re costituzionale per “defascistizzare” l'Italia e così porre le premesse per trattare l'armistizio con le Nazioni Unite.    Nel 70° dell'elezione di Luigi Einaudi a capo dello Stato, il 12 maggio 2018 a Dogliani il presidente della Repubblica Sergio Mattarella citò la “nota verbale” del 12 gennaio 1954 con la quale Einaudi enunciò «il dovere del Presidente della Repubblica di evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». Aggiunse il pensiero di Einaudi, monarchico, liberale ed europeista, sul ruolo svolto da Vittorio Emanuele III nell'estate 1943 per traghettare l'Italia oltre la catastrofe. La prerogativa sovrana «può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti del popolo non sono capaci da sé di affrontare o per stabilire l'osservanza della legge fondamentale violata nella sostanza anche se ossequiata nell’apparenza». Malgrado tante leggende sulla “diarchia” (la pretesa – e da taluno oggi vagheggiata – equiparazione tra capo dello Stato e presidente del Governo), nel luglio 1943 il re conservava intatte le prerogative fissate dallo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, e divenuto d'Italia con la proclamazione del Regno.    Contrariamente a quanto solitamente asserito, la monarchia non fu affatto messa sotto tutela del fascismo dalla legge 9 dicembre 1928, n. 2693 su «Ordinamento e attribuzioni del Gran consiglio del fascismo». Il suo articolo 12 recitò: «Deve essere sentito il parere del Gran consiglio su tutte le questioni aventi carattere costituzionale. Sono considerate sempre come aventi carattere costituzionale le proposte di legge concernenti: 1, la successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona; 2, la composizione e il funzionamento del Gran consiglio, del Senato del regno e della Camera dei deputati…». Essa non interferì sulla successione. Infatti l'“organo della rivoluzione fascista” doveva esprimere il “parere” (non fu precisato se vincolante, NdA) non sulla successione e sui poteri del re ma sulle proposte di legge da sottoporre al vaglio del Parlamento ed efficaci solo dopo la firma dal sovrano.   Dal 1928 al 1943 né Mussolini né alcun parlamentare avanzò alcuna proposta di legge su successione, attribuzioni e poteri della Corona. L'art. 13 della legge citata aggiunse: «Il Gran consiglio, su proposta del Capo del governo, forma e tiene aggiornata la lista dei nomi da presentare alla Corona, in caso di vacanza, per la nomina del Capo del governo, primo ministro segretario di Stato. Ferme restando le attribuzioni e le prerogative del Capo del governo, il Gran consiglio forma altresì e tiene aggiornata la lista delle persone che, in caso di vacanze, esso reputa idonee ad assumere funzioni di governo.» Sino al luglio 1943 il duce non propose al Gran consiglio alcuna lista di suoi eventuali successori né di potenziali ministri.    Senza alcun preavviso “in alto”, il 30 marzo 1938, su proposta del suo presidente Costanzo Ciano, Collare della SS. Annunziata, la Camera deliberò all'unanimità il conferimento a Mussolini e al re del rango di Primo Maresciallo dell'Impero. Subito dopo una delegazione di deputati in camicia nera irruppe nel Senato, presieduto da Luigi Federzoni, e vociando impose l'immediata approvazione della legge, abnorme ma suffragata da un “insigne costituzionalista”. Al Re non rimase che emanarla. Il Parlamento era succubo del duce. Poco prima di essere sciolta, la Camera dei deputati approvò l'istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, formata da un numero imprecisato di componenti, parte designati dal partito e parte dalle corporazioni con procedura aggrovigliata. Il Senato, dal 1925 bersaglio di propositi mussoliniani di riforma con l'introduzione della sua parziale elettività, rimase qual era: ultimo scudo della monarchia. Non toccava al Re impedire al Parlamento di modificare in meglio o in peggio i propri ordinamenti.    Il 14 dicembre la Camera, ormai prossima allo scioglimento, approvò all’unanimità le leggi antiebraiche. Il 20 dicembre fu la volta del Senato, ove su 164 presenti a scrutinio segreto si registrarono 10 voti contrari. Anch'esse vennero emanate perché approvate dal Parlamento, dipinto quale espressione dei cittadini.  

 Acquarone: vana ricerca di un'alternativa al duce Tutti i sondaggi compiuti dal ministro della Real Casa, Pietro d'Acquarone, per verificare la disponibilità di gerarchi a concorrere ad arginare il movimentismo di Mussolini e le sempre più scalpitanti correnti repubblicane del fascismo riuscirono vani. Il 14 marzo 1940 confidò al trentasettenne Galeazzo Ciano, genero del duce, ministro degli Esteri, creato cavaliere della SS. Annunziata alla morte di suo padre, che secondo il re «da un momento all'altro potrebbe presentarsi per lui la necessità di intervenire per dare una diversa piega alle cose; è pronto a farlo ed anche con la più netta energia» e nutriva nei suoi confronti «più che benevolenza, un vero e proprio affetto ed anche fiducia». Ma Ciano preferì “tenersi sulle generali”. Più tardi annotò nel Diario che l'Italia «avrebbe marciato se lui (Mussolini) lo vorrà, quando lui vorrà, come lui vorrà». Al sussurrio su una sua possibile sostituzione agli Esteri concluse: «Dominus dedit, Dominus abstulit.» Nessun altro gerarca lasciò trasparire una pur remota disponibilità ad assecondare il proposito del Re di «dare una diversa piega alle cose».    Dopo l'intervento in guerra a fianco della Germania di Hitler, deliberato nell'illusione di un conflitto di breve durata e di poter esercitare un ruolo protagonistico al tavolo della pace, e dopo i modesti esiti nel 1940 della guerra contro la Francia e la Grecia, a cospetto delle sconfitte su diversi fronti (dall'Africa orientale alla Russia e all'Africa settentrionale) al re non rimase che attivare militari di assoluta fiducia per attuare la svolta. L'accelerazione fu impressa dall'assalto anglo-americano alla Sicilia, il 10 luglio 1943: una sconfitta non solo di immagine di Mussolini, che aveva preteso il rango di “comandante” delle operazioni militari nella certezza di aggiungere gloria a quella ottenuta con la guerra contro l'Etiopia e la proclamazione dell'impero il 9 maggio 1936.    Il 4 giugno 1943 Vittorio Emanuele III respinse il suggerimento prospettatogli da Dino Grandi (destituire Mussolini “con un colpo di forza”) e gli fece intravvedere una via: «Oggi il Parlamento tace; è imprigionato, lo so; ma c'è anche il Gran Consiglio che potrebbe costituire un surrogato del Parlamento.» Erano in molti (antichi deputati liberal-democratici, industriali, banchieri, aristocratici...) a proporsi, ma nessuno mostrava di avere un seguito adeguato a conseguire lo scopo: non solo sostituire il duce o ridimensionarne i poteri ma offrire verso l'estero una immagine nuova dell'Italia, obiettivo estraneo alle vane “cospirazioni” che lambirono anche ambienti di corte.    Dopo l'ennesimo inconcludente incontro di Mussolini con Hitler a villa Gaggia presso Feltre e il bombardamento anglo-americano su Roma (19 luglio 1943), a fronte dell'incapacità del duce di separare le sorti dell'Italia da quelle della Germania, il Re programmò la sostituzione di Mussolini con il maresciallo Pietro Badoglio, già corteggiato da taluni “cospiratori”.   

La leggenda del Gran Consiglio Il 22 luglio 1943, due giorni prima che il Gran consiglio del fascismo si riunisse a Palazzo Venezia, 63 senatori «presenti in Roma, sicuri interpreti di quanti hanno a cuore le gloriose tradizioni del Senato del regno (…) data la gravità della situazione» chiesero a Giacomo Suardo, suo presidente, di convocare “in seduta plenaria” la Camera Alta che non si riuniva da ormai quattro anni. Tra i firmatari, che parlavano a nome dell'intera Italia, spiccavano militari, diplomatici, esponenti dell'industria e della finanza. Prima che fosse esaminata, la richiesta fu scavalcata dagli eventi, a cominciare dalla seduta del Gran consiglio del fascismo, convocata da Mussolini per le 17 del 24 luglio.    La narrazione, pedissequamente calcata nel 2023 dai “media”, ha elevato quella seduta dell'“organo supremo della rivoluzione fascista” ad artefice della caduta di Benito Mussolini da capo del governo e persino del crollo del regime fascista. I “ricordi” dei gerarchi dicono tutt'altro. Nessuno degli autori e dei primi firmatari dell'ordine del giorno presentato da Dino Grandi e approvato a larga maggioranza ipotizzò che il duce si dimettesse, che il partito nazionale fascista venisse separato dallo Stato e che l'Italia dovesse arrendersi. Ebbe ragione Galeazzo Ciano quando (secondo gli appunti di Federzoni) dichiarò che i suoi fautori non volevano «indebolire né il Regime, né meno che mai il Duce». Lo ripeté invano durante il processo farsa di Verona concluso con la sua fucilazione nella schiena per tradimento: un reato inventato dalla RSI, come ha ricordato Mauro Mazza.    Letto ottant'anni dopo, l'ordine del giorno elaborato da Grandi, Giuseppe Bottai e Luigi Federzoni, con integrazioni di Alfredo De Marsico e l'adesione di altri gerarchi, lascia perplessi sul suo nitore linguistico, malgrado la lunga gestazione e le postume pretese dei suoi estensori. La concitazione prevalse. Esso, tra altro, propose «l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti stabiliti dalle nostre leggi statutarie e costituzionali». I suoi redattori probabilmente intendevano ottenere l'immediato esercizio da parte della Corona, del Gran Consiglio, ecc. delle funzioni o, più correttamente, dei poteri previsti dallo Statuto e dalle leggi vigenti. Non occorreva quindi attribuire compiti ma esercitare le prerogative di legge. L'ordine del giorno mirò esplicitamente a salvaguardare i gerarchi, la Camera dei fasci e tutte le istituzioni del regime.    Esso invitò infine «il Governo a pregare la Maestà del Re […] affinché Egli voglia per l'onore e la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio della nostra Augusta Dinastia di Savoia». A parte la ridondanza («leggi statutarie e costituzionali», quasi fossero diverse), essi rivendicarono il ruolo del Gran consiglio, del governo, presieduto da Mussolini, e delle Camere. Contrariamente a quanto asserito dalla narrativa, l'ordine del giorno non mise affatto in discussione il regime. Nel corso della lunga discussione (non verbalizzata), secondo appunti di Alfredo De Marsico, il “fascista critico” Giuseppe Bottai lo dichiarò esplicitamente: «Vi è una monarchia fascista e corporativa: a questo monarca si rivolge il fascismo. Vogliamo che il Re parli con Voi (Mussolini) e dal vostro colloquio esca l'unità degli intenti.» Di analogo tenore furono gli interventi degli altri gerarchi.    Il “verbale” scritto da Federzoni dal pomeriggio del 25 luglio sulla scorta delle tracce dei discorsi pronunciati fattegli pervenire da altri membri del Gran consiglio documenta che anche nel corso della seduta gli obiettivi ultimi di quanti approvarono l'ordine del giorno rimasero vaghi come erano nei giorni precedenti. La loro convergenza si ridusse a proporre al Re di assumere il comando delle forze armate, a proclamare il «sacro dovere per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l'unità, l'indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l'avvenire del popolo italiano» e ad affermare «la necessità dell'unione morale e materiale di tutti gli italiani in quell'ora grave e decisiva per i destini della Nazione». Come già nel corso della seduta, anche nei commenti posteriori i gerarchi avanzarono critiche ma non fecero autocritica. Perdurò la convinzione che l'invasione del territorio nazionale da parte degli anglo-americani potesse e dovesse spegnere sul nascere ogni opposizione al regime. L'appello al Re si risolveva nella richiesta alla “monarchia fascista” di affiancarlo esplicitamente e di accollarsi il peso della ormai imminente sconfitta. La convinzione che Vittorio Emanuele III si sarebbe pubblicamente schierato a loro sostegno non fu solo di Mussolini ma venne condivisa da tutti i gerarchi. Concentrati nell'elaborazione dei diversi ordini del giorno e nella ricerca di consensi in vista della loro votazione i maggiorenti del regime risultano del tutto impermeabili agli umori diffusi nel paese e quindi altrettanto impreparati ad affrontare la crisi. Si condussero come i “politicanti” che il fascismo aveva sempre scherniti. Del resto, malgrado la pomposa enunciazione di una sua “dottrina” e l'Istituto nazionale fascista di cultura presieduto da Giovanni Gentile, pur “depurato” da dissenzienti (espulsi, ferocemente picchiati, condannati a confino di polizia...) il “fascismo” era un coacervo di tendenze ondeggianti e contrastanti. La sua enorme “macchina” (oltre tre milioni di iscritti e milini di altr nquadrati nel “dopolavoro”) aveva il motore rotto e mancava di carburante. Il regime aveva messo in divisa e tesserato le masse ma nella prova suprema, la guerra, risultava di cartapesta.

 L'Italia era “in tocchi”. Il Re intervenne    La domenica 25 luglio Mussolini chiese udienza al re, con un giorno di anticipo sul consueto incontro del lunedì. Il duce ritenne opportuno precorrere le possibili ripercussioni del voto del Gran consiglio sul sovrano prima che se ne propalasse notizia da parte di suoi componenti e se ne desse notizia nei giornali. Il mandato dell'ordine del giorno era chiaro: tramite Mussolini esso “pregava” il re di assumere il comando effettivo delle forze armate da lui retto dall'inizio della guerra. Ma Vittorio Emanuele III guardava oltre il regime per riportare l'Italia nelle alleanze tradizionali. Si muoveva sulla traccia del cavouriano Emilio Visconti Venosta: “indipendenti sempre, isolati mai”. Con il ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone, il comandante dei Carabinieri, Angelo Cerica, e militari di sua assoluta fiducia, come il generale Giuseppe Castellano, aveva predisposto nei dettagli la sostituzione di Mussolini con il maresciallo Pietro Badoglio nel corso dell'udienza prevista per il 26 luglio. Taluni, come Emilio Gentile, parlano di “congiura”. In realtà, come scrisse Einaudi, il Re percepì la voce che saliva dal Paese. E non era solo “tacita”, come avevano provato i massicci scioperi di inizio marzo nel triangolo industriale. Saliva dalle città bombardate, dalla Sicilia invasa, da quanti non avevano mai condiviso l'appiattimento ideologico a fianco del nazifascismo né le leggi razziali.    Alle cinque del pomeriggio del 25 luglio il Re ricevette Mussolini. Premesso che l'Italia era «in tocchi», gli comunicò la revoca non solo del comando (che forse Mussolini aveva messo nel conto) ma da capo del governo e la sua sostituzione con Badoglio, a lui inviso. “Fermato” (non “arrestato”, a differenza di quanto si dice e si scrive) Mussolini si dichiarò pronto a collaborare. Ma Vittorio Emanuele III non ne sentiva alcun bisogno. Bisognava voltare pagina, spazzare il regime e mostrare all'estero un'Italia nuova. Era l'obiettivo delle “cordate” (militari, notabili e massoni) che assecondarono l'iniziativa del sovrano. Esse meritano una ricostruzione apposita per capire come si arrivò alla resa senza condizioni del 3 settembre e al trasferimento (non “fuga”) della Famiglia Reale, di Badoglio e dei vertici militari da Roma a Brindisi via Pescara. 

Aldo A. Mola 

Didascalia: La copertina del saggio di Angelo Squarti Perla Le menzogne di chi scrive la storia (BastogiLibri, gennaio 2024). Tra le opere innovative merita speciale attenzione il volume di Paolo Cacace Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio” (il Mulino).