UNA TORRE IMMAGINARIA

Un Tempo bianco/nero...

Un secolo, 1900-2000. A volte è necessaria una cesura netta, inconsueta per i tempi della storia che procedono per epoche, periodi ed età. Però, se non ci si ferma al 31 dicembre stabilito, la narrazione (anche quella fotografica) fatalmente slitta di anno in anno. Così ha scelto di fare Elena Franco che ha ideato e curato il volume iconografico “Ricordi in uno scatto. Torre San Giorgio dal 1900 al 2000”, in dialogo con Branca Lore Muller, presidente dell’associazione “Libertas” di Torre San Giorgio, e Luisa Riboldi (ed. Savigliano, L'Artistica, con generoso supporto di “Albertengo Panettoni”). Il “racconto” del piccolo Comune della pianura saluzzese, esattamente equidistante tra Cuneo e Torino, si ferma con la fine dell'anno 2000, un quarto di secolo fa. Parla al passato di un tempo che è già remoto.    Il libro narra di “Torre”, ma non qual è, né, a ben vedere, come già era 25 anni fa, una generazione, bensì del “piccolo borgo antico”. Non si occupa dell'intero comune, né di quelli contigui. Parla solo di una “Torre”, “usque ad sidera, usque ad inferos”. Così circoscritto, il borgo è “speculum” di sé medesimo, microspazio infinito in un flusso a-temporale. Sfida il lettore a trovarne i confini più veri, al di là delle partizioni pubbliche ed ecclesiastiche.    Le fotografie inducono ad astrarci da quanto ordinariamente si vede e a interrogarci sui più veri protagonisti del tempo. La scelta di racchiudere la visione di Torre San Giorgio tra il 1900 e il 2000 forse deluderà chi vorrebbe confrontare il borgo originario con l'ampia area urbanizzata nell'ultimo quarto del secolo scorso, tra la circonvallazione provinciale intitolata a Giovanni Giolitti e la linea ferroviaria, un tempo barriera invalicabile, e procedendo verso Saluzzo, con la sequenza di stabilimenti che sulla destra si estende quasi senza soluzione di continuità sino al limite del territorio comunale. è la clessidra di cui si legge nella prefazione a “Gente di Torre” (ed. L'ArtisticaSavigliano, 2016). A far scorrere la sabbia dall'uno all'altro bulbo, tra l'antico e il nuovo, sono la cappella campestre detta “la Madonnina” e una cascina, schermata da verde inselvatichito e da teli di plastica. Potrebbe fare da quinta per un film gotico sul Novecento. A ogni schiocco di mani dal suo tetto vola via uno stormo dal grido rapace. 

...ai margini della Storia

Per comporre il borgo antico, a sua volta dilatato sulla fine del Novecento, e la “Nuova Torre” occorrerebbero volumi libri di statistica e di economia politica. Ma si sacrificherebbe la poesia. Il volume si apre con immagini che si potrebbero bene attagliare alla Torre d'inizio Ottocento, anziché a quella del 1900. Nel corso di quel secolo, infatti, il borgo fu appena lambito dalla Storia. Ebbe la fortuna di rimanere ai margini della marcia degli eserciti che nell'età franco-napoleonica irruppero in Italia dalle valli italo-francesi e dal versante franco-ligure. Furono anni di guerre continue: le armate comandate da Napoleone “Buonaparte” da un canto, gli imperiali asburgici e persino i russi di Suvorov, giunti a Torino nel 1799, dall’altro canto.    All'indomani della tempesta, con il 1814 l'obiettivo del restaurato regno di Sardegna rimase identico a quello del regime precedente: plasmare il “cittadino”. Le istruzioni impartite dal prefetto (poi intendente) ai “maires” (poi sindaci) erano semplici e chiare. Bisognava «formare un intero popolo a nuove istituzioni, più degne di lui, più rispondenti ai suoi interessi». I sindaci e i loro aggiunti avevano l'obbligo primario di tenere in ordine lo stato civile della comunità. Ne dipendevano «la stabilità della società, e, di seguito, l'esistenza delle famiglie». Un tempo quel compito spettava ai preti. La separazione della vita civile dal culto impose il rigore dell'amministrazione senza nulla togliere all'influenza della religiosità. Nel corso dell'intero Ottocento Torre S. Giorgio rimase miracolosamente indenne da scorrerie e invasioni. Una lunghissima pausa dopo secoli di guerre devastanti. Cent'anni dopo, a inizio Novecento, i compiti della scienza dell'amministrazione pubblica erano identici. Lo sono tutt'ora. Oggi, come ieri il segreto della “politica” è (o dovrebbe essere) “governè bin”, come diceva Giolitti. Si può fare, se il governo non si accanisce a privare i centri minori delle risorse indispensabili per strade, scuole e assistenza.    Le fotografie della Torre di primo Novecento narrano un mondo che ricalca la ripartizione della società medievale in “oratores”, “bellatores" e “laboratores”. Per la piccola comunità locale, sempre oscillante sui 700 abitanti, a parte il sindaco e i suoi stretti collaboratori, “in illo tempore” quali “oratores" bastavano il parroco e alcune suore. Erano i depositari dal sacro: sintesi armoniosa di potere civile e retaggio di riti propiziatori, come le rogazioni per ottenere la pioggia e prevenire le febbri stagionali. “Bellatores” erano i coscritti, fotografati per lo più negli abiti della “festa di leva” anziché in divisa, diciottenni dai volti precocemente segnati dal lavoro; e lo erano i cacciatori, orgogliosi di farsi ritrarre con le loro prede. Ogni tempo ha la sua sensibilità, o ne ha di diverse e contrapposte. Le fotografie documentano “come eravamo”, non “cantano la morale” al passato remoto. “Laboratores”, infine, erano tutti gli abitanti, maschi e femmine, dall'adolescenza alla vecchiaia, che incombeva prima dei sessant'anni, per i fortunati che raggiungevano quella già veneranda età.    Quale “mondo” emerge  dalla raccolta? Anzitutto la “gens loci”, un grappolo di famiglie che vi vissero nel “secolo lungo”, quale fu il Novecento. Alcune vi erano attestate da secoli, anche con legami endogamici, forieri di malanni, già documentati dagli studi medici. Altre giunsero dai dintorni; pochissime da lungi. Tutte nel corso del tempo adattarono le abitazioni alle necessità e, quando possibile, alle aspirazioni. Alla vigilia della Grande Guerra nessuna casa aveva acqua potabile all'interno. La si attingeva da pozzi di scarso pescaggio. In mancanza d'acqua corrente, anche i “servizi” erano “fuori”, anzi “più in là” possibile.    Lasciando da parte le asperità quotidiane, le fotografie fissano la “celebrazione della vita”. In alcuni (rari) casi abbiamo fotografie di una medesima persona (maschio o femmina) da bambino, giovane, adulto, sposato e avviato alla senescenza. “Vita” sta anche per affermazione e rivendicazione della “casa” quale complemento della famiglia, persino con ostentazioni rischiose. È il caso delle troppe persone che si affollano su un pericolante ballatoio di legno, sorretto dalla fortuna che aiuta gli audaci. Delle “case” sono fotografati gli esterni, con le immediate adiacenze: il ciottolato, un prato, qualche fiore, sacchi, attrezzi e, poco oltre, un muretto o un muro imperiosamente divisorio. Le vicissitudini e le epidemie ricorrenti (il colera, soprattutto, e la terribile febbre spagnola nel 1918-1819) alimentarono la diffidenza verso gli estranei più che l'ospitalità. Spesso la “curmà”, con immancabili animali domestici e da cortile, prevale sull'abitazione vera e propria. È lo spazio che apre alla possibilità di respirare a pieni polmoni e dove si affollano gli strumenti di lavoro (assai tardi il trattore ebbe la meglio sul carro), le biciclette, le motociclette e infine l'automobile, al riparo di una tettoia. Bene si comprende che per gli abitanti di un borgo dall'illuminazione pubblica quasi inesistente, mentre gli interni erano rischiarati da fioche lampadine, l'idraulico e l'elettricista, quotidianamente evocati e invocati, ebbero prestigio di “oratores” accanto, al muratore e al falegname, che provvedeva a porte (con serrature dalle molte mandate), finestre e piccole riparazioni.   

Chiesa e Stato in un piccolo borgo

Nelle fotografie la vita dei torresangiorgesi figura scandita dai sacramenti: battesimi, comunione, cresime (impartite dai vescovi di Saluzzo) e matrimoni. Non ve ne sono di pentimenti, confessioni e pene. Le nozze, approdo di laboriosi “contratti”, sono tutte celebrate in chiesa sin verso la fine del Novecento. Mancano primi piani del “corredo”, ma compaiono le “sfilate” che conducono le spose verso la chiesa, precedute da ceste di fiori e accompagnate da musica. Una, particolarmente suggestiva, pare una vera e propria “processione sacrificale”. Altrettanto solenne è il corteo funebre che suggella la vita bene spesa accompagnando la salma verso il cimitero, a Torre Basse. La religiosità impregna i momenti difficili della comunità. Quando le forze cedono, la “gens” di Torre (un nome senza “cosa”, con buona pace di Tommaso d'Aquino) si volge al cielo.    Ai riti religiosi si aggiungono quelli civili. Anzitutto la scolarizzazione, che anche per Torre inizia con l'asilo, condotto da suore. Meritano attenzione i giochi dei bambini differenziati da quelli delle bambine, le calzature, i vestiti, si presume messi al meglio in vista degli “scatti”, le classi schierate con i benvoluti insegnanti per la rituale “foto ricordo”. Tra le fotografie dell'asilo spicca quella che alle spalle dei bimbi, intenti a disegnare e colorare, allinea alla parete i ritratti di Mussolini, Vittorio Emanuele III, Umberto di Piemonte, principe ereditario, e della consorte Maria José del Belgio. Manca la Regina Elena, amatissima dalla popolazione locale, che usava recarsi a Racconigi o nelle valli per intravederla e sentirla ancora più vicina di quando, con discrezione, i sovrani visitavano il caseificio Locatelli (il suo titolare fu creato senatore del Regno), gli allevamenti, le manifatture seriche in un'epoca nella quale le “ditte” ambivano a ottenere il titolo di “fornitori della Real Casa”.    Il lettore metterà a confronto la folla dei bimbi dell'asilo e delle elementari con le classi, assai più sparute, dei decenni di fine Novecento, che pure ebbero amministrazione civica e dirigenza scolastica in prima linea per difendere la scuola elementare cittadina, nel 1955 intitolata a Silvio Pellico, presidio di autonomia civica.    Lasciati tra parentesi gli anni dalla scuola primaria alla maturità (la media e, ancor più, le superiori rimasero fuori portata di tanti bambini di Torre sino al prolungamento dell'obbligo ai 14 anni, mentre un ruolo speciale svolse l'Istituto Salesiano di Lombriasco che formò generazioni di geometri, inclusi i futuri sindaci Giovanni Cravero, Mario Monge e Daniele Arnolfo, ora in carica), il racconto fotografico prosegue con il servizio militare, prestato lontano da casa. Per i più, come documenta il generale Oreste Bovio nella “Storia dell'esercito italiano”, esso era la grande occasione di conoscere terre e genti d'Italia e stringere amicizie destinate a durare nel tempo. Gli “scatti” dei soldati (molti gli “alpini”, s'intende) non fanno mai trasparire tristezza o nostalgia. Esprimono, anzi, l'orgoglio della divisa: un'esperienza dalla quale si tornava più smagati di quando si era partiti, con un che di spavaldo nel volto. La divisa e il cappello militare erano atto di fede nei destini della patria e anche garanzia di incolumità. Lo si coglie dalla fotografia di tre ragazze sorridenti nell'aia di una trattoria del paese, quasi vegliate da un ufficiale. Era il luglio del 1940, un mese dopo l'ingresso nella seconda guerra mondiale. Nessuno temeva per la sorte propria o dello Stato. Di tre anni dopo è la testimonianza fotografica dell'intreccio tra fede religiosa e scoperta che per Torre, come per l'Italia, non tutto andava nel verso sperato. Di lì il pellegrinaggio dei borghigiani a piedi sino a Saluzzo, quasi quindici chilometri, per impetrare la pace.    Dopo la guerra come tutto il Cuneese anche Torre finì tra le “aree depresse”. Lo era non solo per ottenere risorse. L'interruzione della ferrovia Cuneo-Nizza e gli intralci alle esportazioni pesarono su produzione e commercio. Anche plaghe scampate agli orrori della guerra (compresa quella “civile”: assente a Torre, se non in forma di requisizioni) vissero ristrettezze quotidiane. Lo attestano le fotografie delle case e dei volti degli abitanti, sin verso la fine degli Anni Sessanta. L'emigrazione (specialmente verso l'Argentina) non risolse alcun problema. Spesso si concluse con un mesto ritorno nella  terra dei padri. 

Quel che non si vede

Chiuso il volume, il lettore si porrà alcune domande. Mentre apprezza l'ampiezza di orizzonti, riflette su quanto la “gens” ha scelto di “fotografare” e tramandare di sé. Il ventaglio delle “assenze” è ampio quanto quello delle presenze, di cui sopra si è detto. Manca quasi del tutto la “vita pubblica”. Sino ad Antonio Arnaudo non vi sono ritratti “formali” dei sindaci, dei componenti delle giunte, dei consiglieri, né dei segretari comunali. Manca del tutto la documentazione visiva delle talora vivaci “campagne elettorali”. Persino il Municipio, nettamente migliorato dopo l'edificazione della scuola elementare, nel volume compare solo di scorcio.    Nondimeno l'ultimo trentennio del Novecento, con l'elaborazione e il varo del piano regolatore, fu decisivo per il futuro e il riassetto del borgo. Nel volume se ne intravvedono i segni con l'inaugurazione del campo da tennis, replicata più volte in coincidenza con campagne elettorali particolarmente tese, altra volta per offrire occasione di incontro di “notabili” con i cittadini, come nel 1981, quando essa venne officiata da Adolfo Sarti, già senatore e più volte ministro, poi tornato nel 1983 ad aprire la campagna per l'elezione alla Camera nel collegio Cuneo-Asti-Alessandria.    I molti interventi pubblici realizzati in quegli anni (rete fognaria, asfaltatura delle strade, marciapiedi, copertura della bealera...) sono sicuramente documentati negli archivi dei professionisti e delle imprese che se ne occuparono, ma non divennero “scatti” eseguiti da cittadini, neppure come sfondo di foto occasionali. Perciò tante trasformazioni di notevole rilievo sono avvenute senza lasciare traccia in scatti che divengono ricordi.    Altrettanto modesta, se si esclude lo “Sciusàl”, curato da Nico Vallero e “una tantum” elevato a sede comunale per il matrimonio civile del sindaco di fine Novecento, officiato dal vicesindaco e presente il democristiano Giovanni Quaglia, presidente della Provincia, modesta è l'attenzione per il “verde” e per lo sviluppo dell'abitato a ovest della circonvallazione Giolitti. Il servizio ferroviario, fotografato nel 1964, cessò di funzionare senza l'omaggio (troppo malinconico?) di una fotografia dell'ultimo treno di passaggio per Torre sulla un tempo gloriosa Saluzzo-Airasca. Lo stesso era già accaduto per le tranvie, che, con la linea ferrata, avevano fatto la fortuna di Torre rispetto all'emarginazione di comuni circonvicini, prima nettamente più dotati e doviziosi.    Altre due assenze richiamano l'attenzione. La prima è il cimitero, più che raddoppiato e di gran lunga meglio curato rispetto a quello esistito sino agli Anni Settanta. Quale ricordo rimane delle cerimonie, anche militari, che vi furono celebrate? Nel volume non ve ne è traccia. Eppure esso costituisce la continuità naturale del borgo.    La seconda assenza, anche più complessa e intrigante, è quella degli interni delle abitazioni, quasi “vietate al pubblico”. La fotografia costituisce una profanazione dell'intimità della casa? Questo silenzio conduce a riflessioni sulla psicologia della “gens loci”, restia a consentire all'estraneo di violare lo spazio domestico, riservato alla famiglia e agli amici più fidi. La fotografia è un documento. E i documenti si mostrano, non sempre volentieri, solo a richiesta di un'autorità percepita invadente se non ostile. Il riserbo della casa è pari a quello dei corpi. I maschi della Torre appaiono sempre vestiti di tutto punto, anche quando sono al lavoro nei campi. Poco o nulla da questa raccolta si cava sulla vita quotidiana: arredi, scaffali, divani, poltrone, cucine e vasellame, sale da pranzo, orologi da tavolo, pendole, via via sino a camere da letto, armadi e cassettiere dai segreti inviolabili. Un intero mondo rimane fuori portata dell'obiettivo e quindi di chi voglia capire di più.   

Protagonismo femminile

Un'ultima considerazione si impone ripercorrendo l'intero volume. Esso ha un protagonista, che si affaccia inizialmente col velo per i primi sacramenti, l'asilo, la scuola, le nozze. Da un certo momento, all'indomani della seconda guerra mondiale, anche in Torre, la donna è sempre più dinnanzi all'obiettivo della macchina fotografica, anche con certa aria di sfida, come Lucia Nicolino che, a cavallo di una motocicletta, nel 1947 fissa l'obiettivo consapevole di infrangere tanti tabù. Lo stesso vale per le quattro ragazze che marciano allegre e impettite sulla provinciale deserta. Vanno verso un futuro che le avrà sempre più al centro della scena pubblica. Alle rassegne “Con le nostre mani” erano le donne a dominare, non solo con ricami e laboriosi pizzi a uncinetto ma anche con dipinti apprezzati da un intenditore, quale il saviglianese Alessandro Mortarotti, avvocato e assessore provinciale, cerimoniere delle premiazioni a metà Anni Settanta. I primi corsi di tennis e quelli di ginnastica femminile (nel volume è documentata l'edizione del 1990) dicono che il mondo stava cambiando e recuperava memoria di sé. Lo si percepì meglio quando il 13 settembre 1993 la principessa Marina di Savoia presenziò all'intitolazione della piazza di Torre a “Umberto II, Re d'Italia”, tuttora unica in Italia. Nell'intento dei proponenti quella piazza doveva divenire un parco, alberi, panchine, zampilli d'acqua: il ritrovo che tuttora manca in paese. L'ultimo decennio del secolo proseguì nel solco del recupero della memoria storica, con la commemorazione dei Caduti il IV novembre 1999 e il varo del notiziario “Le Neuve d'la Tor” con le redattrici fotografate in primo piano. Svoltò nel nuovo millennio con l'amministrazione civica presieduta dal sindaco Attilio Mola sino al 2004, ma, come giusto, il racconto fotografico si ferma al 31 dicembre 2000.    A Torre non vi è alcuna Torre. Sulla via del Castello non si affaccia alcun maniero. Sin verso metà Settecento era segnalato un ricetto, poco distante da un fortilizio ove gli abitanti si rifugiavano in caso di pericolo, memori di saccheggi e stragi. Da un suo spalto un “trombetta” suonava il corno per segnalare ai lavoranti che era l'ora di lenire la fame, donde Cornafame, nome del borgo prima che assumesse quello odierno. Poi il “castello” fu dato in affitto a pecorai e a margari, ma, scrive don Benigno Bonetto nei “Cenni storici della vita religiosa e civile di Torre S. Giorgio” (1956), rendeva poco. Andò diruto. Le sue pietre servirono a consolidare muri di case in mattoni crudi. Non bastasse, “Giorgio” è stato cancellato dal novero dei santi riconosciuti dalla Chiesa cattolica ed è declassato a “memoria facoltativa”. Sicché la divaricazione tra “nomina” e realtà tocca il diapason.    Torre è una terra immaginaria. Da scoprire perlustrando gli scatti di vita e di memoria ora meritoriamente raccolti in volume. 

Aldo A. Mola

 DIDASCALIA: “Ricordi in uno scatto. Torre San Giorgio dal 1900 al 2000” viene presentato alle h. 21 di giovedì 10 aprile 2025 nella Pinacoteca Sismonda di Torre San Giorgio (Casa Bonino, attigua alla chiesa). Nella fotografia il treno che fu. Basta un niente per perdere il treno della Sto