SU CONTE DA VOLTURARA VOLTEGGIA L'OMBRA CUPA DI SALANDRA

Dòtto e sagace ritratto di "Sua Emergenza" Giuseppe Conte da Volturara. Dall'editoriale del Giornale del Piemonte.


SU CONTE DA VOLTURARA VOLTEGGIA L'OMBRA CUPA DI SALANDRA


Crisi di sistema

L’emergenza sanitaria precipita in crisi di sistema. Lacera il tessuto sociale. Investe le istituzioni. Da decenni la “politica” è scesa di molti gradini nell'interesse dei cittadini. Lo documentano due “fatti” inoppugnabili. In primo luogo il crollo dell’affluenza ai seggi, scesa al di sotto del 50% anche in elezioni regionali e persino comunali, le più sentite. Presidenti di regioni e sindaci rappresentano un quarto o meno degli amministrati. I presidenti delle province sono gufi impagliati che spesso non vedono come sono ridotti gli edifici scolastici e le strade di cui rispondono. In secondo luogo la lontananza, vieppiù lacerante, tra le istituzioni e il Paese. Ne è specchio la logorroica auto-apologia pronunciata giovedì 30 aprile da Giuseppe Conte alla Camera e al Senato. Tutto ha detto il presidente del Consiglio, di sé e per sé, tranne un pur misero cenno all'incipit della Costituzione: “L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Ancora una volta ha rimediato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che per viatico del 1° maggio ha esortato ad affrontare i “ritardi antichi”, riecheggiando i “vizi originari” del Paese deplorati dal suo predecessore Giorgio Napolitano anche nel 150° del Regno d'Italia. Se mai nella “festa del lavoro” fossero sfilati cortei avrebbero fatto ala i volti di impietriti di imprenditori, cassintegrati, disoccupati e dei disperati in cerca di un lavoro qualunque (anche in nero se non si ritorna almeno ai “voucher”) e sono ormai alla fame, che è sempre pessima consigliera. A risalire la china non basta la pioggia di redditi di cittadinanza, elemosine, prestiti mascheranti partite di giro (“tanto ti do, tanto mi restituisci, e con interessi”), di congedi parentali per mettere toppe private alla mancanza di una seria politica per le famiglie. Riaprire le fabbriche a inizio maggio e promettere “micro-asili” da giugno per i bambini da 3 a 6 anni la dice lunga sulla acclarata incapacità del governo di programmare e fronteggiare l'urgenza. Procede a strappi, a segmenti, ignorando gli italiani  da 6 a 14 anni, quelli fino ai 18 e via via per classi di età sino ai vituperati “anziani”. 

La crisi, dunque, investe tutto e tutti. Anzitutto i “ludi cartacei”, come “Buonanima” definì le elezioni. Durante il suo non rimpianto regime si registrò la massima partecipazione al voto, perché bisognava “credere, obbedire, combattere”: ritornello in questi tempi riecheggiato da chi retoricamente dice che “siamo in guerra”. E poi i “tornei oratori” nelle Aule parlamentari: esibizione di parole e gesti “ad usum” dei telespettatori, cioè dell'esigua minoranza che ancora cerca il bandolo di una matassa troppo ingarbugliata. Come ha ricordato Matteo Renzi, tempestivo interprete del malessere serpeggiante nel paese, i cittadini non si attendono un uomo della provvidenza né un capo dai pieni poteri. Ne hanno già avuti abbastanza. Attendono che le istituzioni facciano quello che compete loro, senza travalicare il limite di legge e dando prova di “senso dello Stato”, che poi è solo elementare buon senso, come insegnò il più grande statista italiano dall'unità a oggi, Giovanni Giolitti. Diversamente il sistema è condannato a crollare di schianto, come accadde agli Stati pre-unitari, corrosi al loro interno e sprofondati nell'abisso che essi stessi avevano generato.


Conte, figlio dell'Emergenza

Sua Emergenza Giuseppe Conte, classe 1964, avvocato, docente universitario, è presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana. Com'è potuto accadere? Che cosa accadrà? Il saggio di Miguel Gotor su “L'Italia nel Novecento” (Einaudi) offre una robusta cornice. Per focalizzare la scena odierna occorre fare un passo indietro: il fallimento della riforma della Costituzione “siglata” da Maria Elena Boschi e propugnata da Matteo Renzi. Il progetto mirava a salvare il “sistema”, ma risultò aggrovigliato e confuso, in specie su natura e scopi del Senato. Fu affossato dal referendum del 4 dicembre 2016. Renzi si dimise l'indomani. Il suo successore, Paolo Gentiloni, in carica dall'11 dicembre, ebbe il merito di traghettare il paese sino alle elezioni del 4 marzo 2018 senza traumi. Il quadro partitico, già segnato da profonde crepe, ne uscì sconvolto. Il Movimento 5 Stelle ispirato da Beppe Grillo conquistò 222 deputati su 630 ed elesse capogruppo Giulia Grillo. La Lega ne contò 125, il Partito democratico 111, Forza Italia 104, Fratelli d'Italia 32. Il gruppo “misto”, come la  Zattera della Medusa, aggregò 14 deputati di Liberi e Uguali, esponenti di gruppi minori, antieuropeisti e europeisti, chierici vaganti e altri, già sotto le insegne del M5S ma reietti.

Dopo quei ludi cartacei iniziò la crisi più lunga della Repubblica. Il centro-destra (Lega, Forza Italia, Fratelli d'Italia) si propose quale coalizione di governo. Invano. “In alto” venne sommessamente osservato che esso non aveva la maggioranza dei seggi alla Camera. Non era saggio mandarlo a procacciarsi i voti mancanti tramite manovre oscure prima della fiducia dell'Aula. Tra Pentastellati e Lega iniziò la laboriosa trattativa conclusa con il “Contratto per il governo”: un “patto” tra partiti comprendente clausole del tutto incostituzionali (quali, tanto per memoria, l'esclusione dal governo di chi risultasse massone, quasi fosse appestato) e una sorta di “gran consiglio” delegato a dirimere in sede extraparlamentare eventuali différends tra i “soci”. Il 21 maggio 2018 la “ditta” M5S-Lega propose a Mattarella di nominare presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Chi era costui? Carriera forense e accademica a parte, il 27 febbraio il capo politico dei 5S, Luigi Di Maio, lo aveva ventilato ministro della Pubblica amministrazione (ruolo oggi ricoperto da Fabiana Dadone, pentastellata, cebana, laureata in legge). Incaricato di formare il governo, il 27 maggio Conte cozzò contro il rifiuto del Quirinale di nominare Paolo Savona ministro dell'Economia e delle Finanze. Sulle orme di Giorgia Meloni, Di Maio  minacciò di incriminare Mattarella per tradimento della Costituzione. Per tenersi in forma il M5S adesso interdice il Quirinale, ora per allora, alla presidente della Corte Costituzionale prof. Cartabia, rea di sostenere che il presidente del Consiglio ha “funzioni legislative” solo “per tempi limitati e per oggetti definiti” (art.76 della Carta). Il capo dello Stato affidò la formazione di un “governo tecnico” a un economista, Carlo Cottarelli, che poche ore dopo rinunciò poiché era miracolosamente risorta la “possibilità di un governo politico”. Nuovamente incaricato (31 maggio), Conte accettò “senza riserva” e presentò la lista dei ministri, comprendente quali vice presidenti il segretario della Lega, Matteo Salvini, ministro dell'Interno, e Di Maio, ministro dell'Industria e dello Sviluppo Economico, con Savona alle Politiche comunitarie.

La navicella del governo prese il largo fra tensioni quotidiane dei suoi vogatori. Il navarca Conte subì umiliazioni pubbliche, masticò amaro ma resse sino a quando il 9 agosto 2019, in un raptus mai spiegato, Salvini annunciò la sfiducia al governo (senza però lasciare la carica) e spalancò una voragine (governi “al buio”, elezioni emotive...) nella quale il sistema rischiò di precipitare. Fu Matteo Renzi a salvare il salvabile. Prospettò la coalizione di diversi, dagli affetti per nulla stabili: M5S, Liberi e Uguali (ai quali non parve vero di divenire partito di governo) e Democratici, il cui segretario, Nicola Zingaretti, non è neppure deputato: sorte curiosa per il partito che accomuna la tradizione di grandi esponenti parlamentari quali Palmiro Togliatti, Enrico Berlinguer, Achille Ochetto, da un canto, e Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Benigno Zaccagnini, dall'altro.

Mattarella incaricò Conte di formare un nuovo governo, che si insediò il 5 settembre. Basata su numeri abbastanza ampi alla Camera ma risicati al Senato, divisa nei presupposti e nelle prospettive ultime (i Pentastellati erano e rimangono intrinsecamente anti-sistema), l'alleanza fu ed è “condannata” a durare per la sua minorità elettorale nel Paese, come mostrato dalle consultazioni che si sono susseguite dal rinnovo degli eurodeputati (maggio 2019) sino ai consigli regionali di Umbria, Calabria ed Emilia Romagna: tormentoni enfatizzati oltre ogni opportunità. Le ultime (dagli esiti diversi: al successo del piddino Stefano Bonaccini in Emilia e Romagna si contrappose quello della forzista Jole Santelli in Calabria) furono celebrate il 26 gennaio 2020. Era appena ieri, eppure sembra un'era geologica fa. Qual era l’agenda politica in quel momento? Conte, soci di governo, opposizioni e “media” già si struggevano in vista del rinnovo di consigli regionali e comunali in calendario per il resto dell'anno, nonché del referendum confermativo sulla riduzione dei Parlamentari, fissato per il 29 marzo. Era la via maestra per distrarre l'attenzione dai problemi del giorno. La produzione industriale andava male, i debiti non esigibili dalle banche pure, il malcontento cresceva. Il governo studiava le alchimie più sofisticate per aggiralo e tacitarlo, anziché per dare risposte concrete.

Poi d'improvviso il Paese fu da un vento rapito. Ma non prese affatto a volare. Dovette iniziare a fare i conti con l'epidemia, un mese e mezzo dopo classificata pandemia a sgravio di responsabilità nazionali. Mentre dai videoschermi dispensava futili assicurazioni sulla preparazione dell'Italia a fronteggiarla, Conte mise le mani avanti con la memorabile delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, con la quale, ignari Parlamento (colpevolmente distratto) e cittadini in spasimante attesa del Festival di Sanremo, il governo si prese sei mesi per decretare ad libitum. Dopo i decreti legge vennero introdotti sino alla nausea quelli del Presidente del Consiglio e di ministri vari, talora validi per pochi giorni.


Salandra, figlio di Tròia

Conte nacque a Volturara (detta Appula per distinguerla dall'omonima Irpina), sparuto villaggio sui colli della Daunia (nome di un'antica loggia cara al neognostico Carlo Gentile: “I Dauni costanti nel dovere”). Da lì la strada verso est conduce a Lucera, ove Federico II di Svevia stanziò la sua più fedele guardia del corpo, islamica. Lucera è un simbolo ed è anche un bivio: o per Foggia o per Tròia, la città nativa di Antonio Salandra (1853-1931), un notabile dalla lunga carriera politica (per il Mulino ne ha scritto con eleganza il suo biografo, Federico Lucarini). Dopo traversie e tappe che qui non mette conto narrare, giurista di fama, autore di opere insigni, sottosegretario di Stato alle Finanze con Rudinì e Crispi, ministro con Pelloux e Sonnino, nel marzo 1914 Salandra fu nominato presidente del governo da Vittorio Emanuele III su consiglio del suo predecessore, Giolitti.

Con la gratitudine tipica di uno dei dodici apostoli, come ha scritto Luigi Compagna nell'acuto saggio “In guerra contro Giolitti” (ed. Rubbettino) Salandra si prefisse un obiettivo precipuo: annientare lo statista piemontese, fargli terra bruciata all'intorno,  cacciarlo da Roma. A offrirgli la grande occasione furono la conflagrazione europea e il cammino “lento pede” dall'alleanza con gli Imperi Centrali a quella con l'Intesa, sconsideratamente sottoscritta a Londra il 26 aprile 1915. Essa impegnò l'Italia a entrare in guerra contro “tutti” i nemici entro 30 giorni dalla firma. Già a inizio marzo Salandra aveva avuto un sussulto lacerante: il governo non aveva il sostegno del Parlamento, non la certezza dell'accordo con l'Intesa  né il placet del taciturno Capo dello Stato.

Dopo vicende talmente aggrovigliate che non possono essere riassunte in poche righe, il 13 maggio 1915 il governo rassegnò le dimissioni perché sulle sue “direttive nella politica internazionale” mancava “il concorde consenso dei partiti costituzionali richiesto dalla gravità della situazione”: figurarsi quello degli anti-sistema (repubblicani e socialisti). Ma il 17 seguente, avuto il reincarico, Salandra approntò il disegno di legge per avere la “delegazione di poteri legislativi in caso di guerra e per l'esercizio provvisorio”. Il 20-21 ottenne la fiducia dalle Camere, pur contrarie alla guerra. Sotto “ricatto morale” non votarono l'intervento ma eventuali poteri straordinari. Il trucco funzionò. Così Salandra ebbe mano libera per dichiarare la guerra, ma, con doppiezza, lo fece solo contro l'impero austro-ungarico, in violazione dell'accordo di Londra, alimentando la diffidenza dei nuovi alleati.

Con lungimiranza analoga a quella mostrata dal governo Conte che è rimasto sostanzialmente inerte dal 31 gennaio al 26 febbraio 2020, l’esecutivo del 1914-1915 non provvide alle urgenze dell'esercito, nella stralunata convinzione che la guerra si sarebbe chiusa prima dell'autunno. Non armi, non munizioni, non cavalli, non vestiario per l'inverno. Il Comandante Supremo, Luigi Cadorna, tempestava quotidianamente il governo di richieste, che lo lasciava senza risposte.

Nel maggio 1916 gli austro-ungarici lanciarono la spedizione di primavera per alleggerire la pressione sul fronte sud. Il re chiese personalmente allo zar di Russia di attaccare da est l'esercito nemico. Nicola II aderì. Nel frattempo Cadorna non solo fermò la “spedizione punitiva” ma in pochi giorni spostò segretamente la massa critica sul fronte est e lanciò l'offensiva conclusa con la liberazione di Gorizia. Che cosa escogitò Salandra? La convocazione di una sorta di “consiglio di guerra” comprendente egli stesso, il ministro degli Esteri Sonnino e una pletora di “politici” e di “esperti” per imbrigliare il Comandante Supremo. Cadorna rifiutò seccamente. Benché all'oscuro delle manovre di un presidente in caccia di consensi e di plausi a sostegno del “sacro egoismo” e della sua convinzione di essere entrato da protagonista nella Storia, la Camera lo mise in minoranza. Costretto alle dimissioni, non tornò mai più al potere. Gli subentrò la compagine presieduta da Paolo Boselli, succubo delle fazioni parlamentari. L'ombra di Salandra aleggiò a lungo sull'Italia. Oggi è monito per il suo conterraneo.


El Condor pasa...” 

Per dirla con Alessandro Manzoni, qual è il “sugo” di quella vicenda? La politica è arte di governo. In una democrazia parlamentare essa non si basa sull'arroganza, sulla furbizia. E' responsabilità. Governare richiede senso dello Stato, che è anzitutto – ripetiamo – buon senso, capacità di ascolto, dedizione al Paese. Virtù che non si apprendono sfogliando le pandette.

Ora, nessuno mette in dubbio la buona volontà di alcuni ministri del governo attualmente in carica, né la buona fede di quanti gli hanno dato e magari ancora gli daranno fiducia “a emergenza in corso”. Però due considerazioni s’impongono. La prima è che per fronteggiare la crisi l'esecutivo ha varato misure tardive e poco efficaci a contenere il virus e altre certamente in grado di limitare – talora in modo illegittimo – le libertà costituzionali dei cittadini. La seconda è che il governo nella sostanza  ha demandato la responsabilità d’individuare i presupposti di quelle stesse misure a “esperti” nominati ex post in numero esorbitante con “ritorni” di dubbia utilità.

Quando il 24 maggio 1915 l'Italia entrò nella “fornace ardente” il Re, capo delle forze di terra e di mare, andò da Roma al fronte (anzi,“alla fronte”, come scriveva Cadorna) e vi rimase ogni giorno per vedere, capire, incoraggiare. Partiva la mattina per i segmenti più disparati delle battaglie e lungo itinerari noti a lui solo, consumava due uova sode e un'insalata seduto a terra con gli ufficiali del seguito, assisteva agli assalti, più volte scampò le bombe nemiche anche, si disse, per le sue qualità rabdomantiche. Non visse la guerra nella solitudine del Quirinale, ove, anzi, la Regina Elena organizzò l'Ospedale Territoriale n. 1 per curare feriti gravissimi.

L'Italia sopravvisse ai governi Salandra, Boselli e Orlando. Resse anche alla sconfitta (non disfatta né rotta) di Caporetto e infine vinse. Alzava il tricolore con lo scudo sabaudo come ha ricordato il generale Oreste Bovio nella sua esemplare Storia dell'Esercito italiano.

La Stella d'Italia splendeva in un cielo azzurro terso, ben diverso da quello del maggio 2020, che ha poco di “radioso”, gonfio di cumuli forieri di grandinate  e solcato da sinistri battiti d'ali...: quelle dell'avvoltoio.

Volturara Appula, sito natio di Conte, trae nome da “voltur”, un rapace della famiglia degli accipitridi. Scaltro, audace, arrogante, orgoglioso del collaretto di penne sotto il collo pelato, occhio quasi aquilino, micidiale becco rostrato e schiocco raggelante, quell'uccello ha il fascino del predatore che si pasce di teneri agnelli e di carogne.


Aldo A. MOLA


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