RE VITTORIO EMANUELE III (1900-1946): MEZZO SECOLO DI STORIA D'ITALIA

Dall’Editoriale del Giornale del Piemonte e della Liguria di domenica 6 ottobre 2019, a firma del prof. Aldo A. Mola, dedicato alla figura del Re Vittorio Emanuele III, un grande Sovrano che gli italiani debbono conoscere nella sua vera luce, dopo decenni di ingiuste ed ingiustificate denigrazioni da parte della maggioranza dei media.


RE VITTORIO EMANUELE III (1900-1946): MEZZO SECOLO DI STORIA D'ITALIA


Lo scarno “Diario della Casa Militare del Re”, ricostruito per il 1922-1924 su agende del Primo aiutante di campo e carte dell'Ispettorato di Pubblica Sicurezza del Quirinale, e l'“Itinerario generale” dal 1° giugno 1896 al 24 ottobre 1946, manoscritto ad Alessandria d'Egitto da Vittorio Emanuele III, dicono l'essenziale delle “opere e giorni” del sovrano che per mezzo secolo resse le sorti dell'Italia. Tra i pochi fatti di rilievo del settembre-ottobre 1922 spiccano le sue visite agli studi del pittore Giuseppe Augusto Levis (a Racconigi) e dello scultore Leonardo Bistolfi (a Torino), il viaggio in Belgio (10-14 ottobre) e il rientro in treno da San Rossore (Pisa) a Roma, la sera del 27 ottobre, ove il presidente del Consiglio Luigi Facta gli presentò le dimissioni del governo. Dalle 10.30 dell'indomani il Re ricevette al Quirinale i presidenti delle Camere (Tittoni e De Nicola), Cocco Ortu, Orlando, Federzoni, Salandra, De Nava e De Vecchi. Non vi sono appunti per i tre giorni seguenti, nei quali, fallita l'ipotesi di un governo Salandra e assenti da Roma Giolitti e Meda, rappresentanti delle maggiori forze costituzionali, sentiti in via breve direttamente e indirettamente i portavoce del Paese, il 29 il Re anticipò l'incarico a Benito Mussolini, che giunse a Roma la mattina del 30, presentò la lista dei ministri e il 31 si insediò a capo di un governo di unione costituzionale comprendente fascisti, nazionalisti, popolari, democratici sociali, giolittiani, Gentile all'Istruzione, il generale Diaz alla Guerra e l'ammiraglio Thaon di Revel alla Marina. Lo stesso 31, dopo giorni di attesa sotto la pioggerella autunnale con poche munizioni da fuoco e da bocca, gli “squadristi” sfilarono per Roma preceduti dalla banda musicale capitolina e ne partirono con treni sveltamente allestiti. L'indomani Roma era tranquilla, come d'uso. Il 4 il Re si recò all'Altare della Patria e il 5 partì per San Rossore. L'Italia aveva un governo, approvato il 17 novembre alla Camera con 306 voti contro 116 e il 27 al Senato, ove ebbe 19 voti contrari su 398 membri. All'opposto di quanto a lungo ripetuto quella coalizione non fu affatto “subito regime”. La Camera era quella eletta nel maggio 1921 con la regìa di Giolitti. Il Senato contava appena due iscritti al Partito fascista. 

Re costituzionale per l'Unità e la Libertà

Il Re, trentunenne, aveva i poteri ereditati con la Corona dal padre, Umberto I, assassinato cinquantaseienne a Monza il 29 luglio 1900. Dopo il regicidio i più si attendevano una sterzata autoritaria. Invece Vittorio Emanuele III l'11 agosto giurò fedeltà allo Statuto e dichiarò di consacrarsi alla “monarchia liberale”: pace interna e concordia “di tutti gli uomini di buon volere” per consolidare Unità e Libertà. Il 14 novembre 1901 un regio decreto determinò gli “oggetti da sottoporsi al consiglio dei ministri”, incluse le proposte di trattati e le questioni internazionali in generale. Precisò che il presidente del Consiglio (all'epoca era Zanardelli, affiancato da Giolitti all'Interno) rappresentava il governo e manteneva “l'unità di indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri”, i cui titolari dovevano previamente sottoporgli le loro proposte. Quello degli Esteri doveva conferire con lui “su tutte le note e comunicazioni” che impegnassero il governo nei suoi rapporti con gli altri Stati. Il presidente era dunque l'interlocutore apicale tra il Re e i “suoi ministri”.

Nella cosiddetta “età giolittiana” si susseguirono undici diversi ministeri: Saracco, Zanardelli, Giolitti (3 governi), Fortis (2), Sonnino (2), Luzzatti e, all'indomani del 4° governo Giolitti, Salandra, che dopo l'attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 e la conflagrazione europea, intraprese la via del cambio di alleanze (dalla Triplice con gli Imperi Centrali all'Intesa anglo-franco-russa) anche per annientare il predecessore. Non solo ago della bilancia ma motore immobile della vita istituzionale, governativa e, di concerto, parlamentare, rimase il sovrano. Lo si vide nella guerra di Libia (1911-1912) e nella crisi del maggio 1915 quando Salandra si dimise il 13 perché non contava sulla fiducia della Camera e il 17, riprese le redini e chiese i pieni poteri, accordatigli a scatola chiusa dalle Camere il 20-21 seguenti, due giorni prima della dichiarazione di guerra all'Impero austro-ungarico. Secondo lo storico Luigi Salvatorelli la decisione dell'intervento fu il primo dei tre “colpi di Stato” di Vittorio Emanuele III: nel maggio 1915, nell'ottobre 1922, quando incaricò Mussolini, e il 25 luglio 1943 quando lo destituì. Nei due primi casi, in realtà, il Re affidò la ratifica della decisione alle Camere. E nel terzo? Riportò l'Italia alla sua genesi.

Dall'intervento nella Grande Guerra al regime 

Trasferita “in sua assenza” la gestione dei regi poteri allo zio Tomaso di Savoia-Carignano, quale Luogotenente generale (come già avvenuto nel 1848, quando Carlo Alberto, ebbe luogotenente il principe Eugenio), poiché volle seguire di persona la guerra di concerto con il Comandante Supremo Luigi Cadorna, il Re non intaccò alcuna prerogativa del Parlamento. Il 25 settembre 1919 a cospetto dell'irruzione di Gabriele d'Annunzio in Fiume e mentre la Camera, screditata, era ormai alla vigilia dello scioglimento, in via eccezionale il Re convocò un “Consiglio della Corona”: i presidenti delle Camere, del governo, i suoi predecessori, gli esponenti dei partiti, Diaz e Thaon di Revel. Confermò la sua visione di Re costituzionale. Il socialista Turati non si presentò.

In un'Europa inquieta (affermazione del comunismo sovietico in Russia e del nazionalsocialismo in Germania e a fronte dell'impotenza della Società delle Nazioni, cui rimasero estranei gli USA) l'Italia passò da democrazia parlamentare a regime di partito unico. Il cambio non avvenne in un giorno e non fu un colpo di mano di Mussolini e del Partito nazionale fascista, nel quale nel febbraio 1923 confluirono i nazionalisti di Corradini, Federzoni e Rocco. La premessa fu la legge elettorale presentata dal sottosegretario alla Presidenza, Giacomo Acerbo, e approvata dall’apposita Commissione parlamentare (diciotto membri) presieduta da Giolitti, con il sostegno di liberali, democratici e popolari. Fortemente maggioritaria, essa assegnò due terzi dei seggi al partito che avesse raggiunto il 25% dei voti. Il “listone nazionale” (comprendente Salandra, Orlando e De Nicola, cattolici, democratici ed ex socialisti) ottenne il 65% dei voti. Dopo il  “delitto Matteotti” (10 giugno 1924) le opposizioni disertarono la Camera, con l'eccezione di giolittiani e comunisti.

Fu quel Parlamento ad approvare via via le “leggi fascistissime” che anno dopo anno erosero le libertà politiche senza però intaccare lo Statuto sotto il profilo strettamente formale. Anche la drastica repressione della stampa, delle associazioni, dei partiti e dei sindacati liberi non cancellò la Carta Albertina, posto che questa prevedeva le libertà civili e politiche ma ne demandava la disciplina alle Camere. Per esempio l'art. 28 recitava: “La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”. In regime statutario a fare le leggi non era il Re ma il Parlamento. Se approvate, il Re le controfirmava, come oggi fa il Presidente della Repubblica (salvo “messaggi”).

In “La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista“ (il Mulino, 2018) lo storico dell'amministrazione Guido Melis ha documentato l'oggettiva continuità tra l'età liberale e la seguente. A parte alcune estromissioni mirate (per esempio di alcuni massoni, perché politicamente orientati), i “quadri” delle cariche statuali e locali dopo il 1922-1925 rimasero pressoché identici.

Proposta dal ministro Rocco, una nuova legge elettorale (17 maggio 1928) conferì al Gran Consiglio del Fascismo (che ancora non aveva veste istituzionale: la ebbe solo il 9 dicembre) la designazione di 400 deputati, da approvare o respingere in blocco. Partiti e politici liberali, socialisti, cattolici, demo-radicali furono completamente spazzati via. Solo alcuni loro esponenti avevano o avrebbero trovato riparo in Senato. Contrariamente all'opinione corrente, il Gran Consiglio non esercitò alcun potere sulla Corona, avendo unicamente titolo a esprimere un “parere” (non vincolante) su leggi (mai emanate) concernenti la successione, le attribuzioni e le prerogative del Re. La monarchia rimase intatta, anche nel potere esclusivo di dichiarare la guerra e approvare i trattati (art. 5 dello Statuto),  che invano Giolitti aveva tentato di modificare a favore del Parlamento. 

L'11 febbraio 1929 il Concordato Stato-Chiesa costituì un altro corposo successo del regime, rafforzato negli anni seguenti con l'imposizione del giuramento di fedeltà al duce per tutti i pubblici impiegati. Il rilancio della stabilità monetaria (“quota 90”), della produzione cerealicola e di quella industriale, orchestrata dall'Istituto per la Ricostruzione Industriale, presieduto dal già socialista e massone Alberto Beneduce, suscitò ampio consenso a favore di Mussolini, forte di “pieni poteri”.


La solitudine del Sovrano...

Nel 1936 la lunga e costosa guerra contro l'Etiopia, sorretta da abili operazioni di propaganda (l'offerta di “oro alla Patria”, la lotta contro le  inefficaci “inique sanzioni” deliberate dalla Società delle Nazioni) e l'intervento in Spagna a sostegno dei nazionalisti guidati da Francisco Franco contro la caotica Repubblica rafforzarono il potere personale del Duce e la liquidazione delle residue opposizioni all'interno e all'estero.

Nel complesso e articolato consolidamento del proprio “mito”, ormai alternativo alla Corona, Mussolini si valse di formidabili strumenti per soggiogare l'opinione nazionale: lo sport, la cinematografia, la radio di stato e i maggiori quotidiani, allineati alle sue direttive anche tramite il Ministero per la Stampa e la Propaganda (1935), poi Cultura popolare; nonché la Milizia, il partito stesso, il Dopolavoro e le denigrazioni, i sussurri, in specie contro il principe ereditario. 

Il Re rimase via via isolato. Non potendo certo valersi di antifascisti in esilio, ferocemente avversi alla Corona (fu il caso di Carlo Sforza, ancorché Collare della SS. Annunziata), cercò invano chi, dall'interno del regime, fosse disposto a contrapporsi al “duce del fascismo” e/o a temperarne le pulsioni e l'attrazione che Mussolini subiva da parte della Germania di Hitler, che, più incalzante dopo la visita in Italia (maggio 1938), lo sollecitava a sbarazzarsi della monarchia. Perciò, malgrado la personale avversione e i ripetuti tentativi di rinvio, il Re si trovò anche nell'impossibilità di rifiutare la firma delle leggi razziali dell'autunno 1938, approvate dalla Camera con 360 voti su 400 (tra i pochi “assenti ingiustificati” vi fu Italo Balbo) e da 150 senatori tra i 160 presenti e i 400 e più in carica. Se, in alternativa, avesse abdicato, avrebbe scaricato il peso della decisione sul figlio Umberto, a sua volta al bivio: firmare o abdicare, a favore del principe di Napoli, di appena un anno e quindi da affidare alla Reggenza del “prossimo parente” (art. 12 dello Statuto; nel caso era il duca Amedeo d'Aosta). S'aggiunga che Mussolini era trionfalmente reduce dalla Conferenza di Monaco dalla quale era uscito quale salvatore della pace europea con plauso di Gran Bretagna e Francia.

Il “consenso” al regime non venne meno neppure nel 1939, quando l'Italia non entrò in guerra a fianco della Germania (forte del patto di non aggressione con l'Unione Sovietica di Stalin), né quando, all'opposto, il 10 giugno 1940 intraprese la “guerra parallela” che di errore in errore si risolse nella quasi immediata perdita dell'Africa Orientale, nello sparpagliamento delle armate su teatri bellici remoti (inclusa la Russia) e nell’incapacità di difendere il territorio nazionale, anche per le gravi perdite subite dalla Marina e la modestia bellica dell'Aeronautica.

Riprese in pugno le sopite ma mai rinunciate prerogative della Corona, il 25 luglio 1943 nel corso di un breve colloquio a quattr'occhi il Re revocò Mussolini, lo fece “fermare” (non “arrestare” come suol dirsi) e lo sostituì con il Maresciallo Pietro Badoglio, al quale il “duce” scrisse di essere pronto a collaborare. Mentre il governo riuscì a ottenere l'armistizio (3 settembre), seguito dal trasferimento del governo stesso e dei Reali da Roma a Brindisi (9-11), il “prelievo” di Mussolini al Gran Sasso d'Italia da parte dei tedeschi pose le premesse dello Stato repubblicano d'Italia (poi RSI).


...in pace a Vicoforte, in attesa della Storia

Il governo del Re ottenne il riconoscimento da parte degli Alleati, inclusa l'URSS. Nella primavera del 1944 gli anglo-americani imposero al Re di trasferire tutti i poteri della Corona al figlio, Umberto principe di Piemonte (5 giugno), che il 25 giugno sottopose ai cittadini la scelta della forma dello Stato. Vittorio Emanuele III abdicò il 6 maggio 1946 e partì alla volta dell'Egitto, unico Stato del Mediterraneo all'epoca non belligerante con l'Italia (il Trattato di pace venne fatto sottoscrivere il 10 febbraio 1947). Lì morì il 28 dicembre 1947, cittadino temporaneamente “all'estero”, tre giorni prima che entrasse in vigore la Costituzione che lo avrebbe privato di ogni diritto e condannato all'esilio, come toccò ai suoi discendenti maschi (il repubblicano Giuseppe Chiostergi, massone, propose di estendere l'esilio anche alle femmine).

La vera “storia” di Vittorio Emanuele III rimane da scrivere. È la biografia degli italiani dall'Unità nazionale al ritorno della democrazia parlamentare, radicata nella monarchia rappresentativa, come emerge dal confronto tra lo Statuto Albertino e la Carta ora vigente.

Il 17 dicembre 2017, alla vigilia del 70° della sua morte, la sua salma è stata trasferita da Alessandria d'Egitto nel Santuario di Vicoforte (Cuneo), ove due giorni prima era giunta quella della Regina Elena dal cimitero di Montpellier, con il placet del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

“Requiescant in pace” nel Mausoleo voluto da Carlo Emanuele I, come dal 2011 auspicato dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia con il benestare del Vescovo Luciano Pacomio, inarrivabile storico del Catechismo cattolico.


Aldo A. Mola