LA STORIA ADDOSSO
PIÙ EUROPA, MA VERA

La Storia? Un enigma

Piaccia o meno la Storia ci cerca. La Storia non è la narrazione addomesticata del tempo che fu. È il presente, ci incalza. Un oggi sempre più aggrovigliato, in bilico, sull'orlo di sfuggire di mano anche alle maggiori potenze: comitati di oligarchi onnivori, spesso di corta veduta. La Storia odierna è appunto questo: equilibrio instabile. L'unica certezza è che sino a quando se ne scrive non è ancora sopravvenuta la catastrofe da tempo incombente: la Guerra. Non più “a pezzi” ma totale. Il “Guerrone” temuto da Pio X. Ma con ordigni nucleari. E poi? Nessuno sa con certezza e quindi nessuno garantisce quel che potrebbe accadere un minuto dopo il suo inizio. Si brancola tra le ipotesi più disparate, nell'auspicio di rinviare a tempo indeterminato l'appuntamento con l'Apocalisse.    La Storia sovrasta. Lo sapevano gli antichi di tutti i continenti. Misero in conto le profezie più pessimistiche. La rassegnazione alla Fine del Tempo. Anche le civiltà affacciate sul Mar Mediterraneo, un piccolo lago rispetto agli oceani, cercarono di dare senso al loro presente, assillate dal dubbio di avere un futuro. Rimane monito esemplare la storiografia greco-romana. Inaugurata da giganti, quali Erodoto e Tucidide, proseguita con Tacito e Svetonio finì con le “Storie Auguste”, un fastello di aneddoti, zeppo di presagi, facezie e crimini. Dopo Ammiano Marcellino, che ancora mirò a camminare sulle vette, la Storia svanì. Non c'erano più né futuro né un passato che meritasse indagini.    E ora? Proprio l'incertezza sul tempo che verrà induce a recuperare le radici del tormento odierno, fonte di insicurezza, ormai prossimo all'“incubo”: il demone che aleggia beffardo e assale improvviso. Chi è in grado di prospettare che cosa riservano i prossimi cinque, dieci, vent'anni? Ne parlò e ne scrisse lo stoico Generale Claudio Graziano, forse inascoltato. Il Novecento fu il secolo dei piani quinquennali. Li idearono sia i regimi totalitari (come l'Unione sovietica) sia le democrazie (il “new deal” di Franklin D. Roosevelt, additato a modello da Mario Einaudi, figlio “americano” di Luigi). Anche le Nazioni Unite esordirono programmando “un decennio” per vitalizzare le “terre aride”. Illusioni. Quale orizzonte attende la generazione ventura? Le decine di guerre in corso nel Pianeta e le due quotidianamente più documentate perché territorialmente prossime – quella sul fronte russo-ucraino e l'altra, nel Vicino Oriente – , impreviste nelle ripugnanti forme in atto, mostrano che l'“ingegno umano” dà i suoi frutti più sofisticati con l'invenzione di armi via via maggiormente micidiali. Indifferente a ogni appello alla pace e al recupero dell'umanesimo, secoli addietro suo orgoglio, la “ragione capovolta” evoca “lo spaccio della Bestia Trionfante”.    Sciolta la distesa di autorità mondiali raccolte in Piazza San Pietro per i funerali di papa Francesco e per l'intronizzazione del suo successore, nell'Urbe son tornati l'Asino d'Oro di Apuleio (ma senza redenzione finale) e la Babele delle superstizioni.   

Provare con la Rete?

    “Spes ultima dea”, quale correttivo al Disordine torna in edicola, come trimestrale, il periodico “Storia in Rete” (“SiR”), diretto da Fabio Andriola, autore, tra altri, di acuti saggi sulla marina militare italiana dell'Ottocento e sulla morte di Benito Mussolini. Nata come mensile nel 2005, la rivista durò sino al numero 198 (giugno 2023). Interrotto il rapporto con le edicole, il marchio “Storia in Rete” non si è mai rassegnato al silenzio. Ha continuato a tenere i contatti con i lettori, anche tramite blog di suoi collaboratori. Il cartaceo, però, è altra cosa. Gutenberg non è nato invano. Cercare la rivista in edicola significa concorrere alla difesa degli ultimi presìdi di una civiltà al crepuscolo. Lo scrive Andriola nell'Editoriale del n. 1 di questa nuova serie (“Si riparte”). Osserva che molti lettori non troveranno “Storia in Rete” nei punti vendita un tempo abituali. Non per cattiva volontà della rivista ma per la drastica riduzione delle edicole: un'ecatombe che travolge anche i quotidiani, gonfi di supplementi spesso dal costo aggiuntivo per l'acquirente, e sempre meno appetiti, a danno della “formazione”. La comprensione di un testo che non si riduca a messaggio fuggevole richiede riflessione pacata. Esige tempo. Carta canta dicevano gli antichi...    L'ultimo numero della prima serie di “SiR” ebbe in copertina l'enigma di Vittorio Emanuele III, “relegato troppo frettolosamente nel limbo della Storia”. Quel “re discusso” parve risucchiare con sé la rivista in un abisso insondabile. Ora, come detto, essa si ripropone affiancata da una fitta serie di supporti, come la Newsletter settimanale “È la Storia bellezza”, il quindicinale “Spunti di riflessione” in dialogo con Paolo Arrigotti e altri appuntamenti per tenere il passo con il bisogno, sempre più sentito, di informazione e formazione storico-storiografica.    Si può essere cautamente ottimisti? Il primo numero di “SiR” è ricco di rubriche, denso di articoli sul tema centrale e forte di recensioni raccolte nella rassegna “Un libro non per caso” curata da Aldo G. Ricci, da un quarto di secolo sua colonna portante. La rivista fa sua una linea etica: esporre “fatti” debitamente certificati, senza imporre o insinuare interpretazioni preconcette, e alimentare la “curiosità”, senza tabù, né paraocchi ideologici. Non ha né padroni né “padrini”. Vive di suo, degli abbonamenti, dei lettori, ai quali risponde, come confermano le migliaia di iscritti al suo sito, palestra di confronto.    Il punto di forza della nuova serie di “SiR” è quello originario: non perdere di vista gli accadimenti, la cronaca “che offre continue dimostrazioni di come il Passato irrompa nel nostro Presente”. Non ci si libera dalla Storia ignorandola o cacciandola come mosca fastidiosa. Essa sovrasta. D'improvviso sconquassa la quotidianità e precipita nel caos.

 I conti con la storia: il “caso Italia”

    Perché l'Italia ha più bisogno di Storia, e quindi di riviste (non sentenziose ma dialoganti) rispetto ad altri Paesi? Diciamo le cose come stanno. Tra i popoli dell'Europa centro-occidentale gli italiani oggi sono i meno attrezzati a fronteggiarne l'urto perché dal dopoguerra sono stati indotti a fare piazza pulita del proprio passato. Con il Trattato di pace del 10 febbraio 1947, ratificato dalla Costituente col voto contrario di Benedetto Croce e di Leo Valiani, l'Italia venne amputata delle terre acquisite all'indomani della Grande Guerra, costata quasi 700.000 vite, e delle Colonie. Queste non erano frutto della bellicosità mussoliniana o sic et simpliciter “fascista”. Etiopia a parte (peraltro dominata, e non del tutto, appena per un lustro: dal 1936 al 1941), erano state acquisite nei decenni dalla Sinistra Storica (Depretis Crispi...) a Giovanni Giolitti (1885-1912). Privata di quel vastissimo e costoso fardello, nel dopoguerra il Paese non dovette fare i conti con l'onda lunga della decolonizzazione, tuttora in corso. Fu quindi libero di indignarsi per quanto emerse sulla condotta di altri Stati europei in lotta per la sopravvivenza dei loro imperi. Bastino, tra i molti, i casi dell'Algeria, del “Congo belga” e del Vietnam. Con le mani libere nel loro presente, gli italiani si ritennero “innocenti” del passato. Risalirono al libro “Cuore” di De Amicis, mentre tutt'intorno la Storia continuava a pulsare. Si permisero il lusso di tenere in vita sino al 1991 partiti le cui “internazionali” erano morte e sepolte e modelli elettorali elusivi del cambiamento oggettivo del rapporto tra cittadini e istituzioni e di quello, ancora più importante, tra ogni persona e l'informazione, quasi il tempo fosse immobile.    Il numero di “Storia in Rete” in edicola pone al centro dell'attenzione e della discussione uno dei nodi decisivi per comprendere un Paese “a sovranità limitata”. Lo fa con articoli sull'adesione alla Nato, deliberata dal governo senza che i suoi membri ne conoscessero pienamente il testo e le ripercussioni. A quanto scrive Nico Perrone, autore di molti saggi a tale riguardo, si può aggiungere che protagonisti dell'adesione non furono solo Alcide De Gasperi (“istruito” da Alberto Tarchiani sin dal viaggio negli USA d'inizio 1947), Giulio Andreotti e Pio XII ma anche, e in misura e maniera determinante, il due volte “fratello” Randolfo Pacciardi, segretario del piccolo quanto decisivo Partito repubblicano italiano, nel quale, dopo la deflagrazione del Partito d'Azione, erano confluiti Ferruccio Parri e Ugo La Malfa. Altrettanto importante fu il supporto del Partito socialista dei lavoratori italiani (irrisi dai comunisti come “pisellini”), poi socialista democratico, guidato da Giuseppe Saragat, in aperta rottura con il partito socialista da Pietro Nenni messo a rimorchio del Partito comunista italiano, nel 1946 numericamente meno forte ma retto con mano ferrea da Palmiro Togliatti, mandato da Stalin in Italia con programma, tabella di marcia e sostegno finanziario protratto per decenni.    Il punto da tenere ben chiaro per capire (e “ammettere”: che non significa “subire”) come e perché l'Italia sia “a sovranità limitata” è che essa cessò di essere soggetto della Storia e decadde a oggetto con la resa senza condizione del settembre 1943, diretta conseguenza dell'intervento in guerra del 10 giugno 1940, la cui decisione ha certo alcune “attenuanti” ma risultò un errore catastrofico. Il settembre 1943, non l'aprile 1945, segnò dunque la sconfitta. Nei successivi venti mesi l'Italia, divisa in due, rimase teatro di guerra. Al Nord la Repubblica sociale fu vassalla della Germania. Al Sud il Regno riuscì a farsi accettare co-belligerante degli anglo-americani, ma non ne divenne “alleato”. Appena asceso al potere a Parigi, Charles De Gaulle disconobbe l'armistizio italo-francese del giugno 1940 e chiarì che la Francia era in guerra contro l'Italia, come rivendicarono di esserlo la Jugoslavia, la Grecia e il lungo elenco di Stati che il 10 febbraio 1947 a Parigi sedettero vincitori alla firma, estorta, del Trattato di Pace.   

De Profundis

    Il garbuglio nel quale l'Italia era avvolta venne annotato da Salvatore Satta nelle dolenti pagine di “De Profundis” (ed. Adelphi), vergate tra il giugno 1944 e l'aprile 1945: lettura obbligatoria per comprendere il dramma dinnanzi alla “morte della Patria”. «La nota dominante di questa guerra – egli scrisse – è che il popolo italiano, nella sua immensa maggioranza, ha voluto la propria sconfitta.» Era l'unico modo per liberarsi dal «regime che gravava sul paese da vent'anni come una cappa di piombo». «L’impopolarità della guerra era una indiscutibile realtà fin dal momento in cui si profilò la possibilità del conflitto, e generò una sadica volontà di dissoluzione con lo svolgersi degli eventi.» Di lì il paradosso: la “simpatia di un popolo verso il proprio nemico” (si pensi all'accoglienza riservata agli anglo-americani via via che avanzavano), lo sdoppiamento del “cittadino”, o “uomo tradizionale”, (parte amica del nemico e nemica dell'amico) e l'illusione della generalità degli italiani di uscire dal conflitto “senza pagare dazio”. Gli italiani si auto-assolsero da vent'anni di eventi, quasi fossero vissuti su un altro pianeta. Avevano plaudito al regime, riempito le piazze come mai in passato. Vinti e stravolti, dopo la sconfitta si avvolgevano nel drappo: “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scordiamoci il passato...”. Questa pretesa consolatoria, però, poteva valere tra loro, non per i vincitori, né per gli eserciti degli Stati in guerra: tedeschi da un canto, anglo-americani dall'altro. Essi patteggiarono per mesi all'insaputa degli italiani, inclusi Mussolini e il CLN Alta Italia, come ricorda Giuseppe Pardini in un denso articolo del nuovo numero di “SiR”. Trattarono la resa secondo regole militari dalle quali era escluso chi non era riconosciuto come Stato di pieno diritto. È quanto avvenne nelle ore drammatiche dell'“incontro” tra Mussolini e i vertici del Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia nell'Arcivescovado di Milano, pronubo il cardinale Ildefonso Schuster.   

Alla ricerca del Tempo remoto

    In articoli documentati e “pensati” Daniele Scalea, Marco Valle e Marcello Veneziani, intervistato da Fabio Andriola in “Storia in Rete”, illustrano varie sfaccettature del disastro di metà Novecento. A sua volta esso affondava radici nel passato prossimo e remoto. Ricordiamolo. L'Italia era uno Stato unificato da appena settant'anni se lo si fa datare dall'acquisizione di Roma; e da soli venti se lo si misura dall'annessione di Trento, Trieste, Istria, Fiume, senza plebiscito confermativo perché ad alto rischio nelle terre germanofone e slavofone. Alle sue spalle quello Stato giovane per popoli antichi aveva Roma e l'impero secolare, il suo declino e poi l'età dei Comuni e delle Signorie. Questa fu indubbiamente “felice”, più prospera di quanto fosse la condizione della maggior parte dell'Europa, ma distrasse i popoli italici (è anacronistico denominarli italiani) dal comprendere la centralità del Sacro Romano Impero, l'ascesa delle monarchie in Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo e rese l'Italia del tutto vulnerabile nella lunga guerra delle maggiori potenze per l'egemonia sull'Europa condotta in gran parte proprio per il dominio su di essa, con le scorrerie di eserciti che nel 1527-1530 non esitarono a mettere a sacco la Roma di papa Clemente VII de' Medici e ad assediare la pingue Firenze.    Ottant'anni dopo la sconfitta del settembre 1943 si può e forse si deve osservare che nel dopoguerra i partiti e in generale la “dirigenza” non fecero quanto sarebbe stato meglio fare: spiegare ai cittadini che la “sovranità limitata” andava accettata a occhi aperti anziché sofferta come un torto. Essa era la risorsa per guardare all'unico futuro vantaggioso: la federazione europea, altra cosa rispetto all'“Europa delle funzioni”, la Comunità del carbone e dell'acciaio, l'irrilevante Euratom, il Mercato comune e le varie “istituzioni” che non hanno condotto a una vera “unione europea”, ma all'attuale: labile, priva di politica estera unitaria e di difesa comune (uccisa in fasce dalla Francia che bocciò la Comunità europea di difesa), con un'assemblea eletta da un numero modesto di votanti, lontanissima dai cittadini e con figure apicali, quali la Commissione e la sua presidente, nelle quali la generalità degli abitanti non sente motivo di riconoscersi. Nel 1963 qualcuno andò ad Anversa a fondare il Movimento federalista europeo. Vox clamantis... 

I cittadini? Dicano la loro alle urne (finché sono aperte)

    Riflettere sul tasso effettivo di sovranità in dotazione dello Stato e dei suoi cittadini comporta anche di interrogarsi sull'utilizzo degli strumenti che la costituzione mette a disposizione degli elettori per interagire con le istituzioni rappresentative. È il caso dei referendum. L'Italia, va ricordato, venne certificata dai plebisciti che tra il 1848 e il 1870 scandirono l'ingrandimento del Regno di Sardegna infine divenuto “d'Italia”. La Costituente del 1946-1947 guardò con molta diffidenza la partecipazione dei cittadini al processo di formazione delle leggi. Lo riconobbe con l'articolo 50 della Carta (tra i meno noti e utilizzati): «Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità», senza passare attraverso la mediazione di partiti, sindacati, chiese e associazioni di varia denominazione. Precisato con fermezza che «l’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale», l'articolo 71 concesse che «il popolo esercita l'iniziativa delle leggi mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori [pochi invero, NdA], di un progetto redatto in articoli». Ancora più sofferta fu la genesi dell'articolo 75, che istituì il referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali (in prima istanza ne bastavano tre).    Il secondo comma dell'articolo escluse l'indizione di referendum sulla «autorizzazione a ratificare trattati internazionali», ovvero proprio sulla “sovranità”: riservata all'Esecutivo e al Parlamento, il quale, non va dimenticato, “delibera” lo stato di guerra, “dichiarato” dal Capo dello Stato in forza dell'articolo 87 comma 9 della Carta. Dopo averne a lungo discusso, i costituenti eliminarono radicalmente l'istituto del “referendum sospensivo”. Il referendum venne considerato un ostruzionismo extra-parlamentare e un’indiretta minaccia nei confronti del Parlamento, eletto a suffragio universale e diretto, unica espressione della “volontà popolare” e della “sovranità” che, come enunciato nel secondo comma nell'articolo 1, «appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Appunto.    A imbrigliare gli entusiasmi per il referendum abrogativo provvide Bartolomeo (Meuccio) Ruini, massone, radicale, rappresentante di una Democrazia del lavoro dalle fortune elettorali vicine allo zero. Egli precisò l'interpretazione autentica dell'ultimo comma dell'articolo 75 (“La legge determina le modalità di attuazione del referendum”): «Sarà necessario fare una legge generale sul referendum che dovrà risolvere molti casi. Se il popolo si pronuncia per la abrogazione di una data legge ciò non vuol dire che vi sia una vacanza nell'ordinamento legislativo e che la materia relativa resti temporaneamente senza norma di legge.»    Pur nei suoi limiti, il referendum abrogativo è dunque un'occasione (rara e preziosa) di partecipazione diretta degli elettori quale stimolo al processo legislativo. Perciò vi è motivo di avervi parte attiva: recandosi ai seggi, che non sono un teatrino, facendosi registrare e  votando come previsto dalle norme vigenti. L'esercizio del diritto di voto fa bene alla democrazia parlamentare, all'Italia e anche a un'Europa i cui vertici si sentono liberi di fare quello che vogliono se non sono incalzati dall'opinione pubblica degli Stati membri. Aldo A. Mola

 DIDASCALIA: La copertina di “Storia in Rete”. Sull'articolo 75 della Carta vennero presentati emendamenti dai Costituenti Cifaldi, Lucifero, Nobile, Targetti (nn approvati), Fausto Gullo, Nobile, Tito Oro Nobili e Preti (ritirati, decaduti, assorbiti).