E' passato quasi un mese dal centenario della discussione alla Camera sulla regolamentazione delle associazioni e sull'iscrizione dei pubblici impiegati ad associazioni, nota come “legge contro la Massoneria”. Il tema è scivolato via nell'indifferenza generale dei”media”. Eppure quel dibattito fu la spallata decisiva per l'abolizione in Italia della libertà di associazione, che risaliva all'articolo delo Statuto Albertino. Forse non si è voluto ricordare che la Camera pullulava di massonofagi e di massoni pentiti (votarono a favore per far passare sotto silenzio la loro iniziazione). Contrariamente a quanto sostenuto dai più, Antonio Gramsci, deputato del Partito comunista d'Italia, intervenne per la prima e unica volta in Parlamento e non difese affatto le logge ma ridusse la fascismo-massoneria al duello tra fascisti e comunisti. Nel dibattito intervenne Benito Mussolini, che non nascose affatto il suo obiettivo: l'instaurazione del regime di partito unico. Grandi assenti furono le “opposizioni” (socialisti, repubblicani,“democratici”, popolari...) arroccati nell'inutile e perdente “Aventino”. Anche i “giolittiani” si guardarono dal prendere la parola. Le libertà scricchiolarono. Crollarono di schianto in Senato il 19-20 novembre. Ne parleremo a suo tempo.
16 maggio 1925: la legge antimassonica alla Camera
Lo smantellamento dell'opposizione da parte di Mussolini riprese il 16 maggio 1925 con la discussione alla Camera della legge detta “contro la Massoneria”. Era un sabato. La seduta era presieduta da Antonio Casertano, iniziato massone il 26 luglio del 1911 nella loggia “Losanna” di Napoli (numero di matricola 36.476). Ma chi lo sapeva? Aprì la discussione Gioacchino Volpe, che ricalcò la relazione di accompagnamento scritta da Mussolini. La Massoneria, società segreta – egli osservò –, era stata combattuta dai socialisti, per i quali essa era quintessenza della borghesia, democrazia parolaia e francofilìa. Poi aveva alimentato il riformismo. Ora era ridotta a relitto di illuminismo e di «ideologie settecentesche, pacifismo spappolato, internazionalismo, disorganizzazione dello Stato, strumento di stranieri interessi a danno del paese, vecchio e vacuo anticlericalismo, specialmente intrigo e camorre». Insignificante nel Risorgimento e sferzata dall' “inchiesta” condotta nel 1913 dall'“Idea nazionale”, essa andava sciolta, ma senza ledere il diritto di associazione. «I cittadini – affermò Volpe – siano liberi di riunirsi come vogliono: magari per evocare i morti, per consultare gli astri, per far ballare i tavolini». Aggiunse che «vi è qualche non insignificante punto di contatto fra mentalità cattolica e mentalità massonica […] Davanti a cattolici massoni c'è ugualmente l'assoluto. C'è il trascendente [….] Fra certo rito massonico e il rituale cattolico vi sono alcune somiglianze.» Di seguito, in un intervento continuamente interrotto da Achille Starace (che tenne ben nascosta la sua iniziazione alla loggia “La Vedetta” di Udine), da Roberto Farinacci (iniziato sia al Grande Oriente, sia alla Gran Loggia d'Italia) e da altri, il fascista dissidente Massimo Rocca mosse molte obiezioni contro l'articolo 2 del disegno di legge e ricordò che secondo il senatore Scialoja «anche i gesuiti sono una società segreta». A favore della legge intervennero invece Eugenio Morelli e il noto massonofobo Egilberto Martire secondo il quale in passato il governo poteva aver avuto bisogno «in casa o fuori casa della filìa settaria» ma ora, con il fascismo, non se ne sentiva più necessità. Da cattolico aggiunse che gli ordini religiosi comportavano il giuramento dei voti e legavano alla disciplina dell'ordine sacro. Proprio perciò i loro membri non assumevano «uffici pubblici di Stato»: affermazione lontana dalla strategia della Santa Sede che, con i Patti Lateranensi del 1929, ottenne invece il riconoscimento di un'ampia presenza di religiosi nei pubblici impieghi e il divieto di insegnamento nelle scuole pubbliche ai religiosi sospesi a divinis, come accadde a Ernesto Bonaiuti, discriminato anche dopo la caduta del fascismo, come ha documentato Gianpaolo Romanato. Lo Stato, aggiunse, aveva pieno diritto di indagare su funzionari, militari e giudici e di esigere una sola disciplina. Nel suo unico intervento in aula – interrotto ventisette volte, soprattutto da Mussolini, da Edmondo Rossoni (“capo” dei sindacati fascisti, iniziato segretamente alla Gran Loggia d'Italia malgrado la dichiarazione di incompatibilità tra logge e fasci), da Farinacci e da Paolo Greco, tanto che Casertano dovette chiedere che lo si lasciasse parlare –, il comunista Antonio Gramsci riconobbe alla massoneria di essere stata il “partito organico della borghesia” e ne previde l'assorbimento da parte del fascismo, come di fatto stava già avvenendo: «Poiché la Massoneria passerà in massa al partito fascista e ne costituirà una tendenza, con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine». Con l'avvento di Mussolini la Massoneria aveva cessato di svolgere il ruolo transclassista e transpartitico del periodo postunitario. La partita era ora aperta tra il blocco reazionario e la somma di partito comunista, rappresentante delle classi operaie, e forze contadine rivoluzionarie del Mezzogiorno. «Concludendo, disse Gramsci, la massoneria è la piccola bandiera che serve per far passare la merce reazionaria antiproletaria». Sapendo che nessuno avrebbe svolto tesi analoghe in Senato, ove il partito comunista non contava alcun pater, Gramsci profittò dello spazio alla Camera per indicare lo scenario futuro: lotta senza quartiere tra fascismo e comunismo. Anticipò le “tesi” del congresso di Lione del Partito comunista d'Italia (1926): guerra anche contro i socialisti, combattuti come socialfascisti, ed espulsione dei dissidenti dal partito. Nell'intervento immediatamente seguente Stefano Cavazzoni, esponente del partito popolare, concordò con Gramsci sull'irrilevanza quantitativa («forse 20 mila iscritti»: in realtà le due comunità contavano circa 50.000 affiliati) e qualitativa della Massoneria, in specie a fronte delle masse rurali del Paese. A prova della sua volatilità, osservò che era bastata la presentazione del disegno di legge perché le logge, un tempo affollate, risultassero deserte. Finse di non sapere che erano bersaglio di assalti, devastazioni e furto di liste compromettenti. La legge era dunque l'offensiva “politica”, “giuridica” e “morale” contro la disorganizzazione che insidiava la sovranità dello Stato, a suo giudizio non solo organismo giuridico ma etico, come da tempo asserito da Gentile con la formula: «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, niente contro lo Stato.» Sollecitato dalla richiesta di passare al voto, il relatore Emilio Bodrero, nazionalfascista, rivendicò la legge come affermazione della libertà contro i “poteri occulti”. Il suo intervento fu anche una mano tesa verso i massoni che a sua detta non avevano capito natura e scopi delle logge ed erano quindi “recuperabili”. Quale presentatore della legge, intervenne Mussolini. Rievocò la sua lunga militanza antimassonica nel Psi, in contrasto con Orazio Raimondo (lo ricordano Luca Fucini e Marzia Taruffi in I guardiani della Nuova Italia, Sanremo, Leucotea, 2025), e osservò che proprio le istituzioni più gelose dello Stato (magistratura, forze armate e corpo docente) erano state infiltrate dalla massoneria, «una vescica che bisogna[va] ad un certo momento bucare». Era finita l’«Italia di ieri, dove si poteva stabilire un ridicolo raffronto fra il sindaco della capitale [Ernesto Nathan, Nda] e l'uomo che sta al Vaticano», ovvero papa Pio XI.
Il colpo di coda del Belzebù massone
Il seguito della tornata riservò a Mussolini un'amara sorpresa. Casertano mise in votazione segreta un paio di disegni di legge su questioni irrilevanti (la Lotteria nazionale a favore dell'Unione italiana dei ciechi e la Tombola nazionale a favore dell'Ospedale civile di Gallipoli). Di seguito la Camera approvò la legge sull'ammissione delle donne all'elettorato femminile (242 presenti, 212 voti favorevoli): del tutto inutile perché poco dopo i consigli comunali elettivi furono sostituiti con i podestà di nomina prefettizia. Quando, verso le 20, venne chiesto il voto sul passaggio alla discussione degli articoli della legge contro la massoneria a sorpresa mancò il numero legale, sicché la votazione dovette essere rimandata alla seduta successiva, fissata a martedì 19 maggio. Riconvocati, 304 deputati votarono il passaggio alla discussione degli articoli. Riaperto il dibattito, intervennero Luigi Sansone, Alfredo Rocco, ministro di Grazia e Giustizia, Cavazzoni, Bodrero, Mussolini, Luigi Lanfranconi (altro deputato segretamente iniziato alla Gran Loggia d'Italia), Edoardo Rotigliano, Cesare Tumedei, Amedeo Sandrini, Martire, Giberto Arrivabene, Giuseppe Morelli, Gino Maffei e ancora Mussolini. Il voto per appello nominale e segreto non lasciò dubbi. Su 293 presenti si contarono 289 sì e 4 no. E' lungo ed eloquente l'elenco dei deputati massoni che votarono a favore della legge: Giacomo Acerbo, Bernardo Barbiellini-Amidei, Giuseppe Belluzzo, Giuseppe Bottai, Manfredo Chiostri, Alessandro Dudan, Balbino Giuliano, Dario Lupi, sino a Gaetano Postiglione, Elia Rossi-Passavanti, Starace, Fulvio Suvich, affiliato alla logga “Propaganda massonica”,ecc. ecc. Alla Camera la legge fu approvata nel pieno rispetto della procedura. Nel corso del dibattito nessun deputato propugnò il diritto della massoneria alla riservatezza né la liceità del giuramento dei suoi iniziati, men che meno di quelli a servizio dello Stato in magistratura, forze armate e insegnamento. I rappresentanti della pattuglia giolittiana e della destra di Salandra non parteciparono né al dibattito né al voto. Mussolini conseguì l'obiettivo percorrendo la via parlamentare. Il Disegno di legge passò quindi al Senato (che, con tutta calma, se ne occupò il 19-20 novembre).
Tutto il potere al Duce
Un mese dopo la prima bordata contro la Massoneria la Camera approvò il Regio decreto legge (Rdl)18 giugno 1925, n. 999 recante Provvedimenti economici a favore del clero, con supplementi alla congrua. Un bel regalo all'altra riva del Tevere nell'Anno Santo 1925. Con Rdl 17 settembre, n. 1595 il ruolo di notaio della Corona fu assegnato al ministro degli Esteri, di cui Mussolini era titolare. In quei mesi si registrarono profondi mutamenti a vantaggio della posizione personale del duce nell'ambito del governo. In forza dello statuto, essi non vennero decisi in parlamento (che ne fu via via informato alla riapertura dei lavori) ma nel concerto tra il re, il presidente del Consiglio e i ministri coinvolti. Alle dimissioni del generale Antonino Di Giorgio da ministro della Guerra, il 4 aprile Mussolini ne rilevò la carica ad interim. Un mese dopo nominò sottosegretario il generale Ugo Cavallero, iniziato massone in una loggia del Grande Oriente e nel 1917 affiliato in un'officina della Gran loggia, con Vittorio Valletta, futuro stratega della Fiat di Torino e da tempo addentro alle industrie degli armamenti. L'8 maggio il duce assunse l'interim della Marina, lasciata da Paolo Thaon di Revel, duca del mare, membro del Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato della Gran Loggia. Il 14 maggio Alberto Bonzani fu nominato sottosegretario all'Aeronautica, elevato da commissariato a ministero. Il 30 agosto Mussolini ne assunse la titolarità. Il 31 ottobre, tre anni dopo l'insediamento del governo, vennero “premiati” due quadrunviri: Michele Bianchi fu nominato sottosegretario ai Lavori Pubblici, di cui divenne titolare dal 12 settembre 1929 alla morte (3 febbraio 1930), mentre Italo Balbo sostituì il sottosegretario Giovanni Banelli all'Economia nazionale. Il 10 luglio Giuseppe Volpi conte di Misurata rilevò Alberto De Stefani al ministero delle Finanze. Lo conservò sino al luglio 1928, mentre Giuseppe Belluzzo, massone del GOI, sostituì Giuseppe Nava all'Economia Nazionale. Quattro giorni dopo Luigi Spezzotti (sostituito il 28 Francesco d'Alessio) e Ignazio Larussa si dimisero da sottosegretari. In quel vortice di dimissioni e di nomine Mussolini, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, fu dunque anche ministro della Guerra (interim dal 4 aprile e titolare dal 3 gennaio 1926), della Marina (interim dall'8 maggio 1925 e titolare dal 3 gennaio 1926) e dell'Aeronautica (interim dal 30 agosto e titolare dal 3 gennaio 1926), che il 12 settembre 1929 lasciò a Balbo. Il 13 agosto 1933 questi fu promosso maresciallo dell'aria e il 6 novembre venne sostituito da Mussolini che rimase ministro sino al 25 luglio 1943. Nella storia d'Italia nessuno aveva mai concentrato altrettanto potere nelle proprie mani. Se gli Esteri comportavano un rapporto privilegiato con il corpo diplomatico tramite il segretario generale e il direttore generale (incarico conferito il 31 ottobre 1922 da Mussolini a Giacomo Barone Russo, ignorando fosse massone), i ministeri militari coinvolgevano altri dicasteri chiave (Finanze, Tesoro, Economia nazionale…) e implicavano rapporti diretti e indiretti con la grande industria e il suo vastissimo indotto nonché, soprattutto, con chi per statuto aveva il comando delle forze di terra, di mare e dell’aria: Vittorio Emanuele III, che il 16 marzo 1924 gli aveva conferito il collare della Santissima Annunziata, comportante il rango di “cugino del re”.
Le ripercussioni dell'attentato di Tito Zaniboni a Mussolini
La mattina del 4 novembre 1925 Tito Zaniboni (1883-1960) venne arrestato in una camera dell'Hotel Dragoni a Roma (lo stesso ove aveva albergato Amerigo Dùmini nei giorni dell'aggressione a Giacomo Matteotti) mentre stava apparecchiando l'attentato alla vita di Mussolini. Come annunciato da tempo, il duce si sarebbe affacciato dal balcone di Palazzo Chigi per celebrare la Vittoria. Zaniboni aveva predisposto i dettagli: smontato un vetro della finestra, preparato il fucile di precisione, parcheggiato non lontano dall'albergo la vistosa automobile (una Lancia Lambda, come quella usata da Dùmini) con la quale, messo a segno il colpo, lasciare Roma alla volta del Friuli, sua base operativa. Non sapeva che uno dei suoi “complici”, Carlo Quaglia, era a stretto contatto con la polizia e aveva fatto di tutto per mettere in trappola non solo lui ma soprattutto il generale Luigi Capello, gran maestro aggiunto del Grande Oriente d'Italia, quel giorno tranquillamente a Torino. Già neutralista, poi interventista intervenuto e decorato di tre medaglie d'argento e una di bronzo, iscritto al Partito socialista, eletto deputato nel 1921 nel collegio Udine-Belluno, fautore con Giacomo Acerbo del vano “patto di pacificazione” tra socialisti e fascisti nell'agosto del 1921 e invano candidato nel 1924, dopo il delitto Matteotti Zaniboni aveva deciso che l'unica via per fermare Mussolini era ucciderlo. A spingerlo ad agire furono anche i feroci assalti alle logge d'inizio ottobre 1924, culminati nella fiorentina “notte di San Bartolomeo”, segnata da tre assassinii per mano di squadristi. Particolarmente feroci furono gli assalitori di Giovanni Becciolini, come recentemente ricordato da Stefano Bisi, gran maestro del GOI. Zaniboni, la cui asserita iniziazione massonica non è affatto documentata, si attivò senza alcuna precauzione, ignaro di essere seguìto passo passo (anche nella frequentazione di un'amante) da informatori e da agenti, sino all'arresto che servì a Mussolini per scatenare una rovente campagna di stampa contro la Massoneria quale mandante dell'attentato. Arrestato e tradotto a Roma, Capello fu accusato di averlo finanziato e di avere addirittura allestito una rete insurrezionale, pronta a scatenarsi ad attentato compiuto. Il generale ammise di aver dato a Quaglia trecento lire (un misero obolo) ma, da comandante della Seconda Armata, la più possente della storia d'Italia, respinse ogni addebito a cominciare da quello, fantasioso, di complotto armato. Domizio Torrigiani, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, non fu inquisito ma la sede della Massoneria, a Palazzo Giustiniani, fu perquisita, mentre molte logge vennero assalite. Dopo i “fatti” d'inizio ottobre il ministro per l'Interno Luigi Federzoni aveva telegrafato ai prefetti stigmatizzando la “ingiustificata deplorevole ripresa di azioni illegalistiche da parte di elementi meno responsabili del Fascismo ovvero operanti sui margini delle organizzazioni di questo” e aveva disposto che i prefetti prendessero “gli opportuni accordi con le autorità miliari allo scopo di prevenire in modo assoluto ed eventualmente di reprimere con immediata energia qualsiasi tentativo di violenze”. A cospetto della nuova ondata di assalti contro le logge, Federzoni tornò a condannare le violenze, anticipando che il governo avrebbe provveduto a reprimere la Massoneria le cui sedi vennero infatti messe sotto sequestro. Il processo a Zaniboni, a Capello e ai loro presunti ristagnò, tanto che il 26 luglio 1926 Mussolini se lamentò con Rocco, deplorando che magistratura e questura rischiavano di risultare attrici di un'azione giudiziaria per “un attentato inesistente coll'aggravante di un equivoco di persona”. La sentenza fu emessa il 22 aprile 1927 dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, presieduto dal generale Ottavio Freri. Quando tutto consummatum erat...: il duce aveva vinto grazie al Parlamento. L'arresto e la condanna, senza prova alcuna, del generale Capello furono additate all'opinione internazionale da Maria Rygier in La Franc-maçonnerie italienne devant la guerre et devant le fascisme (Parigi, 1930) e da Eugen Lennhoff (affiliato alla “Loggia nazionale” della Gran Loggia d'Italia) nel fondamentale volume Il libero muratore, che, non tradotto, in Italia non ebbe alcuna eco. La Massoneria uscì dalla vita pubblica e dai temi di studio, tamquam non esset. Eppure, a tacere di cinque presidenti del Consiglio, all'Italia aveva dato Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Salvatore Quasimodo... Il peggio venne dopo, nelle sedute del Senato del 19-20 novembre.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Il generale Luigi Capello, massone, nel 1927 condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, senza alcuna prova, a trent'anni di carcere (tre dei quali di regime speciale) per presunta complicità con Tito Zaniboni nel fatuo “”attentato” a Mussolini del 4 novembre 1925.