L'ITALIA IN AFRICA: UNA MISSIONE CIVILE

Il tema, vastissimo e aggrovigliato, richiede un'esposizione in prospettiva storica, con riferimento ineludibile ad alcuni capisaldi della Costituzione vigente. Con l'articolo 2 “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo...”.  A differenza degli articoli successivi, come rilevò anche Marcello Pera, esso non si riferisce ai “cittadini italiani” ma all' “uomo”. D'altronde, la Carta venne scritta e discussa nel 1946-47 e datata Roma 27 dicembre 1947,  dopo l'approvazione dello Statuto dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), aperto dall'enunciazione di capisaldi etici di valore planetario. Essa entrò in vigore il 1° gennaio 1948, l'anno nel quale “una tantum” l'Assemblea dell'Organizzazione delle Nazioni Unite si radunò a Parigi per approvare la Dichiarazione universale dei diritto dell'uomo.

Perduta la guerra, l'Italia era sotto il pesantissimo ricatto dell'esecuzione del Trattato di Pace (10 febbraio 1947), respinto all'Assemblea Costituente da Benedetto Croce con un discorso che meriterebbe di essere affisso in tutti i pubblici uffici. Uomo di pace e di alta cultura storica e filosofica, egli ricordò che “la guerra è una legge eterna del mondo”. Pertanto a suo avviso i tribunali istituiti dai vincitori per giudicare i vinti costituivano “segno inquietante di turbamento spirituale”, come “il vezzo di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l'entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi: pretesa che neppur Dio rivendicherebbe a sé”. I processi di Norimberga e di Tokyo, conclusi con condanne ed esecuzioni capitali, a suo giudizio erano una “infrazione della morale, ma non da parte dei vinti, sì piuttosto dei vincitori, non dei giudicati, ma degli illegittimi giudici”.

La Costituente approvò un altro articolo di fondamentale importanza, ieri come oggi: il 10°, secondo il quale “l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle nome del diritto internazionale generalmente riconosciute” e “lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”. (Per ogni approfondimento sulla differenza tra richiedenti asilo e migranti economici si veda il sito www.giovannigiolitticavour,it, sezione Documenti). I padri costituenti avevano in memoria i concittadini costretti o indotti a lasciare la patria per sottrarsi alle persecuzione da parte di estremisti del regime di partito unico, ovvero del fascismo, che poi li privò della cittadinanza e dei diritti connessi, inclusi pubblici impieghi, pensioni, etc. Essi avevano in mente anche la sorte di tanti europei raminghi per sottrarsi al nazismo, alla guerra di sterminio sistematico delle opposizioni in Spagna (1946-1938) e nei Paesi via via occupati dall'Asse, con applicazione delle leggi ai danni di minoranze, a cominciare dagli “ebrei”, questione vasta e spinosa sulla quale torneremo.

Però buona parte dei padri costituenti finse di non sapere e non vedere che anche alcuni paesi vincitori (l'Unione sovietica del Maresciallo Stalin, la Bielorussia, suo satellite, e la Jugoslavia di Tito: tutti sul banco dei vincitori che all'Italia imposero il basto del Trattato di pace) non garantivano affatto al loro interno l' “esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”, a cominciare da quelle religiose e politiche: erano regimi totalitari né più né meno di quello hitleriano. Ma nel dopoguerra non si registrò una migrazione di richiedenti asilo da quei paese verso l'Italia. All'opposto, in taluni Stati caduti sotto il controllo dell'URSS si rifugiarono militanti del partito comunista italiano ricercati o condannati per gravi crimini comuni. Praga, sovietizzata, fu tra le città più ospitali nei confronti di tale “migrazione”, che ebbe tra i suoi nomi emblematici quello di Francesco Moranino.

Malgrado le più ampie attestazioni di “buona volontà” verso i vincitori, l'Italia rimase esclusa dall'ONU, in una sorta di limbo nel quale contrirsi. Vi fu ammessa nel 1955, insieme con la Spagna di Francisco Franco: la cui salma il fatuo presidente del governo spagnolo, il socialista Pedro Sanchez, ha deciso di estumulare alla svelta dal Valle de los Caidos, ideato dal “caudillo” quale tempio della pacificazione nazionale.

Dopo la decolonizzazione, in Italia risultò sconveniente ricordare la storia e proporre un bilancio pacato del ruolo svolto Oltremare nell'Otto-Novecento, Alcune considerazioni ora si impongono per comprendere la portata del rapporto tra l'Italia e gli spazi afro-asiatici. In primo luogo va constatato che la “missione” dell'Italia nel mondo fu propugnata dai profeti dell'unificazione nazionale: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi (che dall'Uruguay giunse in Italia con il fido Agujar, già suo compagno in tante battaglie) e dalla diplomazia del regno di Sardegna, soprattutto con l'avvento di Carlo Alberto di Savoia-Carignano, che estese e rafforzò la propria rete in direzioni prima non tentate.

Gli altri Stati italiani pre-unitari non concepirono una politica coloniale. Gli sprovveduti apologeti del regno delle Due Sicilie (è il caso di Pino Aprile) dovrebbero ricordare che mentre gli inglesi vincevano la Guerra dell'Oppio contro la Cina e stroncavano sanguinosamente l'insorgenza degli indiani contro il loro dominio e mentre i francesi di Napoleone III entravano in Hanoi (1859: l'anno Solferino e San Martino) Ferdinando II di Borbone non aveva ancora capito la svolta in atto nel Mediterraneo con il taglio dell'istmo di Suez e la seconda rivoluzione industriale (lo ebbe chiaro Cavour che puntò sul “corridoio” ferroviario euro-padano: precursore della Alta Velocità di cui l'Italia oggi ha e sempre più avrà bisogno per rimanere davvero in Europa, con buona pace di tanti miopi provincialotti).

Tre anni dopo la proclamazione di Vittorio Emanuele II re d'Italia (14 marzo 1861) l'economista Gerolamo Boccardo domandò se fosse giusto, dignitoso e utile “tenersi in disparte da quel vasto movimento coloniale, in cui tanti altri popoli dalla natura meno privilegiati vanno da secoli acquistando tesori di gloria e di ricchezza”. Gli fecero eco Leone Carpi, mazziniani, garibaldini, militari, diplomatici, imprenditori ma senza esito politico sino a che il Mediterraneo risultò troppo stretto. La svolta venne nel 1881, quando Parigi, che dal 1830 con Carlo X e poi Luigi Filippo d'Orléans aveva conquistato l'Algeria con metodi brutali, impose il suo protettorato sulla Tunisia. Stipulata l'alleanza difensiva con Vienna e Berlino per pararsi le spalle, su forte pressione della Gran Bretagna (che acquisita Cipro si “impose” sull'Egitto) il regno d'Italia compì il primo passo politico: lo sbarco a Massaua. Seguirono anni di scontri armati e di progetti, conclusi nel 1890 con l'istituzione della Colonia di Eritrea, affacciata sul Mar Rosso. Con quali programmi e quale mentalità? La “Lettera” del principe Amedeo di Savoia invita appunto alla riflessione. La colonizzazione fu fortemente appoggiata dall'unico socialista scientifico dell'Italia di allora, il filosofo Antonio Labriola, nel 1888 a un passo dall'iniziazione nella loggia massonica “Rienzi” di Roma. Secondo Labriola, che aveva letto bene Karl Marx ed era in corrispondenza con Friedrich Engels, l'Italia doveva partecipare alla colonizzazione, processo di portata mondiale, e poteva sperimentare forme di socialismo proprio Oltremare, armata di “qualche minuzzolo di diritto romano e di due dozzine di articoli del codice civile”, in una terra che aveva altre e diverse regole e costumanze. Bisognava almeno rendere omaggio “al semisocialismo moderato e cooperativo di Giuseppe Mazzini”. Alla colonizzazione agricola dedicarono indagini severe Leopoldo Franchetti, già studioso con Sidney Sonnino della questione meridionale e della Sicilia in specie, Ferdinando Martini (poi autore del memoriale sull' “Affrica italiana”, di cui fu governatore civile, come ricorda il suo biografo Guglielmo Adilardi).

A distanza di quasi un secolo e mezzo risulta esemplare la figura del maggiore Pietro Toselli, caduto con i suoi uomini all'Amba Alagi. Nel corso della sua missione, Toselli ebbe modo di allestire un piccolo villaggio, al quale dette nome “Nuova Peveragno”, in omaggio al suo comune natio, nel Cuneese. Ne scrisse Vittorio Bersezio, storico, letterato, fondatore della “Gazzetta Piemontese” (poi “La Stampa”). In quell' “esperimento” Toselli accomunò cattolici, copti, ebrei, musulmani e agnostici. Ciascuno ebbe il suo spazio di preghiera o di libera meditazione, e tutti erano accomunati all'insegna della tolleranza, di un nuovo umanesimo universale. Negli stessi anni Francesco Crispi, massone dal 1861, tentò la conciliazione con la Santa Sede, come ricorda lo storico Francesco Margiotta Broglio, Premio Acqui Storia 2018 “alla carriera”. Mentre la colonizzazione inglese aveva alle spalle la chiesa anglicana, evangelici e riformati e la Francia contava sul sostegno dei missionari cattolici, l'Italia era in aperto conflitto con papa Leone XIII. Erano gli anni dello scoprimento della statua di Giordano Bruno in Campo dei Fiori (1889). Ma almeno Oltremare gli italiani dovevano essere uniti. E potevano divenirlo solo con la collaborazione tra governo e clero cattolico, senza pregiudizio verso ebrei, riformati e non credenti, all'insegna dello Statuto che aveva parificato tutti i regnicoli dinnanzi alla legge.

Quel processo venne ripreso dopo la costituzione della colonia di Somalia (1907) e con la proclamazione della sovranità dell'Italia su Tripolitania e Cirenaica(1911-1912): un cammino storico che merita di essere meglio conosciuto, proprio per ricordare a europei e non europei i capisaldi della missione civile dell'Italia in Europa e nel mondo.


Aldo A. MOLA