ROSMINI E L'ITALIA

L'editoriale del Prof. Mola, con un prezioso Saggio della Principessa Maria Gabriella di Savoia.


Antonio Rosmini  Serbati (Rovereto, 1797-Stresa, 1855) fu il massimo filosofo italiano e teologo apprezzato da quattro papi  della prima metà dell'Ottocento: Pio VII, Pio VIII, Gregorio XVI e Pio IX, che lo volle nella speciale “commissione” per la proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione benché ne avesse già condannato alcune opere. Il suo libro “Le cinque piaghe della Santa Chiesa” è sempre attuale. Nell'ultimo capitolo Rosmini afferma che la Chiesa deve vivere di offerte libere, non di tributi imposti dallo Stato ai cittadini, deve rinunciare a privilegi e pubblicare i suoi bilanci.  Appena stampata (nel 1848, ma era stata scritta nel 1832) l'opera finì nell'Indice dei libri proibiti. Su delibera del Santo Uffizio, nel 1887 papa Leone XIII condannò quaranta “proposizioni” del filosofo. A quei tempi l'Italia era divisa in due dalla questione romana. Pio IX aveva scomunicato Vittorio Emanuele II che, un boccone dopo l'altro, con l'annessione di Roma del 20 settembre 1870, aveva debellato lo Stato Pontificio e si era insediato al Quirinale. 

   Rosmini, cattolico adulto, filosofo di polso e pensatore ammirato da Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo e dalla schiera di cattolici liberali del suo tempo, nella seconda metà del Novecento venne debitamente rivalutato anche dalla Chiesa. Il 18 novembre 2007 fu celebrata a Novara la sua beatificazione, decretata da Benedetto XVI al termine di una “causa” iniziata nel 1994.  

   La sua fattiva influenza sul pensiero e sugli istituti di Carità è stata approfondita dal Simposio organizzato a Stresa dal Centro internazionale di studi rosminiani (21 al 25 agosto) con interventi, tra altri, di Ernesto Galli della Loggia, Luca Mana, Federica La Manna, Vittorio Sgarbi, Ettore Gotti Tedeschi, Alberto Mingardi, Giovanni Maria Vian e dell'on. Daniela Ruffino. Nel Simposio, ispirato da liberalità rosminiana, si è parlato anche di carboneria massoneria e società segrete. Il Simposio è iniziato con la presentazione degli “Scritti autobiografici. Diari” di Rosmini: un volume in ogni senso poderoso, curato da padre Ludovico Maria Gadaleta, che, con suor Benedetta Lisci, è il punto di riferimento costante degli studi rosminiani.  

   Particolarmente apprezzata è stata l'ampia relazione svolta dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia su “Rosmini e Casa Savoia” anche perché Carlo Alberto di Sardegna, il Re dello Statuto, nel 1848 affidò a Rosmini la delicata missione presso Pio IX per rinsaldare i rapporti tra il “Piemonte” e lo Stato Pontificio dopo l'Allocuzione del 29 aprile con la quale il papa si era dissociato dalla guerra contro l'Impero d'Austria.  

    Per la sua importanza proponiamo ai lettori del “Giornale del Piemonte e della Liguria” la Relazione della Principessa, presidente della Fondazione Umberto II e Maria José e custode della memoria storica di Casa Savoia. 


Aldo A. MOLA    


CARLO ALBERTO E ANTONIO ROSMINI. DUE PROFETI DELLA CONCILIAZIONE 

Carlo Alberto di Savoia (1798-1849), Re di Sardegna, e Antonio Rosmini  Serbati (1797-1855) sono due protagonisti della storia della prima metà dell'Ottocento.  Carlo Alberto fu acclamato Re d'Italia sul campo di battaglia di Goito nel 1848. Per consenso generale, Rosmini fu il massimo filosofo e teologo della Chiesa cattolica. Le loro biografie mostrano tratti accomunanti che, pur nella diversità dei ruoli svolti, ne  fanno emergere le “virtù eroiche”. Carlo Alberto sentì  di essere chiamato dalla Provvidenza a realizzare la missione sognata da generazioni di patrioti: avviare l'indipendenza e l'unità dell'Italia. Anche nel pensiero di Rosmini, sintetizzato nella formula “Adorare, Tacere, Gioire” la Provvidenza è centrale.     

     Entrambi si sentirono votati al rigore, al sacrificio e a un ruolo di profeti. Di Carlo Alberto lo scrisse Giosue Carducci nell'Ode “Piemonte”. Di Rosmini lo affermò Papa Paolo VI in un udienza concessa alle suore rosminiane.

 

La predestinazione

   In Carlo Alberto la dedizione a una missione metastorica fu instillata sin dall’infanzia dal pastore Jean-Pierre Vaucher che molto incise sulla sua inclinazione all’introspezione spinta sino alle soglie del misticismo. Ne scrisse egli stesso in lettere confidenziali e in appunti. Nel corso di viaggi e cerimonie, circondato dalla folla che gli mostrava affetto e devozione anche con chiassose feste tradizionali, il sovrano si chiudeva in se stesso. Sentiva la struggente sete  di solitudine di cui scrisse con sensibilità il suo primo biografo, Costa di Beauregard, in La Jeunesse  du Roi Charles Albert:lo prologue d’un règne.   

   Carlo Alberto medesimo confidò le sue certezze a Quelques unes des nombreuses graces que le Seigneur  me fit. Vi ricordò di essere stato  salvato da due tentativi di avvelenamento, due rischi di morire tra le fiamme, due incidenti durante giochi  infantili, due volte dal pericolo di spezzarsi collo e reni, due di rimanere sotto il calesse ribaltato, due gravi incidenti di caccia, due rischi di naufragio, due di cadere vittima di attentati, due per la caduta improvvisa del cavallo sotto di sé: la prima volta mentre accompagnava Vittorio Emanuele I, da poco restaurato a Torino sul trono del regno di Sardegna, mentre si recava  a Superga nella festa del nome di Maria; la seconda  mentre audacemente saltava un largo fossato e il cavallo mancò la presa sul terreno... 

  Se la Provvidenza, anzi il Seigneur (come Carlo Alberto scrisse) in tante occasioni gli aveva mostrato così benevola attenzione voleva dire che era preservato per una missione altissima: unire l’antica e la nuova storia, superare   contrasti apparentemente invalicabili, avviare verso sintesi e nuove forme di conciliazione. Non per caso il suo motto fu “Tutto migliorare e tutto conservare”.


Il Re dello Statuto e della guerra per l'indipendenza

    Asceso al trono trentatreenne, il Principe di Carignano prese su di sé la storia della Casa e ne portò la croce: “cilicio ed estasi” è stato scritto della sua complessa personalità studiata da Francesco Cognasso e da Narciso Nada, da Romolo Quazza e da Giorgio Falco, storico acuto della preparazione dello Statuto promulgato il 4 marzo 1848. 

   Proprio lo Statuto, apprezzato dal Presidente Emerito della Repubblica, senatore Francesco Cossiga, che ne volle la ristampa anastatica, fu l’approdo del percorso intrapreso dal re sin dall’adolescenza. Il re volle la Carta quale fondamento e cornice di un’era novella. Va ricordato che sin dal novembre 1847, quattro mesi prima della promulgazione dello Statuto, con regie patenti Carlo Alberto rese elettivi i consigli comunali, provinciali e divisionali: migliaia e migliaia di cittadini furono chiamati a  scegliere liberamente la classe dirigente locale. E questa divenne i vivaio dei futuri componenti della Camera del Regno di Sardegna e poi di quello d'Italia. 

  Il marzo 1848 annunciò la Nuova Italia fondata sull'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi qualunque sia la loro confessione religiosa e sulla adozione del “tricolore nazionale” in luogo della bandiera azzurra della, ma con lo scudo sabaudo nel bianco. Entrambi fondamenti dell'unità nazionale durarono un secolo, nella buona e nella cattiva sorte.

  Al centro di una storia segnata da tumulti, insurrezioni, rivoluzioni, guerre, tra “primavera dei popoli” e conflitti dinastici, Carlo Alberto consumò l'ultima stagione della sua parabola tra il marzo e il luglio 1849. A differenza di quanto solitamente si crede, la battaglia di Novara fu provò il valore dell’Armata sarda. I “piemontesi” inflissero agli asburgici perdite superiori a quelle subite, come documenta Piero Pieri nella Storia militare del Risorgimento. Però Carlo Alberto ebbe chiaro che il suo Regno aveva risorse materiali e militari del tutto inferiori rispetto all'Impero d'Austria. Esso contava però su una forza morale superiore: lo Statuto, che aveva aperto definitivamente la via verso l'unità e l'indipendenza. Per salvare la sua missione e consegnarla al futuro, doveva abdicare e offrirsi quale esempio supremo di sacrificio a cospetto dell’Europa sia dei sovrani sia dei movimenti “popolari” e dei travagli spirituali che da decenni animavano le pagine di Silvio Pellico e di Vincenzo Gioberti, dei Tapparelli d’Azeglio (Roberto, Massimo e il loro fratello gesuita, Luigi) e di Antonio Rosmini Serbati.

  Carlo Alberto lasciò in eredità al figlio Vittorio Emanuele II le grandi riforme avviate sin dall'ascesa al trono in ogni settore della vita pubblica e sociale: Consiglio di Stato, istruzione, promozione delle comunicazioni, fondamentali per lo sviluppo dell'economia, riassetto della burocrazia e delle Forze armate e promozione di istituti caritativi d'avanguardia. Attuò una immensa opera di ammodernamento senza clamori, anticipando il corso della storia.   

          

Rosmini filosofo, teologo e protagonista “politico”: fede e libertà

   Per quanto possa sconcertare, in tempi recenti sono comparsi profili dei Regni di Carlo Felice e di Carlo Alberto nei quali il nome di Rosmini neppure compare. Eppure il trentennio  di storia che lo ebbe protagonista tra il marzo 1821 e il 1849 non sono comprensibili se si smarriscono i suoi fondamenti religiosi e ideali e se ne trascurano le figure di riferimento. Tra queste  Antonio  Rosmini Serbati si staglia al di sopra di ogni altra.  Il discendente del principe Tomaso Francesco di Carignano lo sentì vicino, affine,  più dei molti e pur  importanti teologi e filosofi a lui coevi. 

   Anzitutto colpisce un dato apparentemente esterno ma suggestivo. Carlo Alberto fu il Savoia dei quattro re: nel corso della sua vita si susseguirono sul trono i tre fratelli, Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I e Carlo Felice, e poi, alla conclusine del suo ventennio di regno, tra il 1831 e il 1849, iniziò quello di suo figlio, Vittorio Emanuele II, che in un un decennio condusse il Piemonte dalla sconfitta alla proclamazione del regno d'Italia, nel marzo 1861. 

  A sua volta Rosmini fu l’ecclesiastico dei quattro papi: Pio VII,  il cui Panegirico egli pronunciò a Rovereto nel 1823  subito suscitando l’allarme dell’Austria;  Pio VIII,  che ne incoraggiò gli studi e la pubblicazione del Nuovo saggio sull’origine delle idee, pilastro portante del suo sistema filosofico e, conseguentemente, della sua concezione della società ; Gregorio XVI, che Rosmini conobbe e apprezzò, ricambiato, sin dal suo primo viaggio a Roma;  e infine Pio IX, che nel 1849 egli seguì nell’esilio da Roma a Gaeta e a Napoli con l’affetto filiale di chi nel Pontefice vide sempre il Vicario di Cristo. 

   Questa certezza è il caposaldo indispensabile per comprenderne ragione e fede, i sentimenti e la pienezza della forza argomentativa da Rosmini versata nel Trattato della coscienza morale, nella Filosofia del diritto e nel celebre saggio su Le cinque piaghe  della Santa Chiesa: opera che fece da spartiacque  nella sua operosa esistenza e per molti aspetti conserva una straordinaria attualità.

   Colpisce l’assonanza del suo itinerarium mentis in Deum con quello di Carlo Alberto. Mentre il principe di Carignano viveva nascostamente nel Castello di Racconigi attendendo il suo astro tra memorie e libri, dal nativo Trentino Rosmini si trasferì a Milano. Scelse di vivere presso  San Sepolcro, la chiesa che sin dal nome distintivo costituiva una lezione quotidiana. Da lì si sentì chiamato al Santo Calvario di Domodossola: uno spazio propizio alla meditazione.

   Come Carlo Alberto si sentì e rimase re, biblicamente responsabile nei confronti dei  sudditi, così concentrazione su filosofia e teologia Rosmini trasse forza per avviare opere di carità: rafforzate anche dal suo incontro con il cattolicesimo subalpino, in un’età segnata da fervide  iniziative, come ricordano le congregazioni religiose volute da Giuseppe Cottolengo, e da Giulietta Falletti di Barolo, nata Colbert (ma a questi pochi esempi molti altri potrebbero essere aggiunti).

   In Religione cattolica  e Stato nazionale dal Risorgimento al secondo dopoguerra lo storico Francesco Traniello ha richiamato l’attenzione sulla pastoralità dell’impegno dei cattolici soprattutto piemontesi di metà Ottocento, a cominciare da Vincenzo Gioberti, solitamente considerato un democratico “acceso” ma in realtà poco fiducioso nella spontanea bontà dell’uomo. Anche per Gioberti  la virtù  è frutto di conquista, autodisciplina, sacrificio.

  Altrettanto valeva per Carlo Alberto, che aveva senso drammatico della storia e del prezzo che il suo corso esige. Lo scrisse con “parole non caduche “ (la definizione è dello storico  Francesco Salata): “Peu de grands exemples ont sauvé milliers de personnes, ont raffermé la discipline dans l’armée et preservé nostre pays des scènes de désordres qui ont désolé et ensanglanté d’autres nations”. 

  Su quelle premesse, nella certezza che l’interlocutore sapesse cogliere l’animo di chi lo elesse a proprio tramite, Carlo Alberto inviò Antonio Rosmini a Pio IX, in veste di “messo straordinario”, per gettare le basi di un concordato tra il regno di Sardegna e il Sacro Soglio e verificare la fattibilità della ventilata confederazione degli Stati italiani con presidenza del Santo Padre. Rosmini era chiamato ad attuare il sogno dei cattolici liberali, per i quali l’unione degli italiani era nell’ appartenenza alla Chiesa, senza necessità di unificazione sotto una medesima corona. Le tragiche vicende della lotta politica in Roma spezzò sul nascere ogni speranza. L’assassinio di Pellegrino Rossi (15 novembre 1848) anziché mostrò il crudo volto del primato del del terrorismo politico, a tutto vantaggio di chi, come il cardinale Antonelli, era contrario a vere riforme dello Stato pontificio in direzione liberale e costituzionale.

  Chiusa ogni ipotesi di un governo da lui presieduto e del conferimento del cappello cardinalizio quale  meritato riconoscimento della sua opera teologica, filosofica e di organizzatore dell’Istituto della Carità, a Rosmini non rimase che tornare a Stresa: spettatore  dell’ultima dolente fase del regno di Carlo Alberto.

   Se ne deve concludere che egli sia stato uno “sconfitto”? In una visione di breve periodo ci si potrebbe o dovrebbe rassegnare ad ammetterlo. Ma in una osservazione storica di più ampio respiro va constatato che nell’ultimo lustro di vita Rosmini rimase il punto di riferimento carismatico per Alessandro Manzoni, Niccolo Tommaseo e per uno stuolo di cattolici come lui convinti della conciliabilità tra fede e liberalismo. Tra i molti basti ricordare il grande Cesare Balbo, autore delle Meditazioni storiche in cui riprese e approfondì le Speranze d’Italia, e Massimo d’Azeglio.

    Padre Atanasio Canata, autore del Canto nazionale e docente nel collegio scolopico di Carcare,  a metà del “decennio  di preparazione” dominato da Camillo Cavour,  osservò che fra il 1853 e il 1855 morirono decine e decine di cattolici-liberali di grande autorevolezza: Cesare Balbo, Silvio Pellico, Antonio Rosmini appunto e molti molti ancora, quasi un’epoca si stesse chiudendo e le loro vite risultassero superflue. Così non fu. Infatti  le loro opere, gli scritti e gli esempi di vita, continuarono ad alimentare il dialogo tra l’Italia nascente e la Chiesa, tra il pensiero cattolico e quello di liberali che, va osservato, non furono mai irreligiosi né meno ancora anticristiani.  

   Risulta significativo che nessuno abbia mai proposto di abolire o modificare l’articolo 1 dello Statuto e che dal canto suo nei momenti fondamentali, soprattutto nelle ore più difficili, la Chiesa di Roma non abbia mai fatto mancare il sostegno diretto e netto al giovane regno d’Italia: a conferma del magistero morale e culturale dei due giganti solitari, Carlo Alberto e  Rosmini.

   In tale contesto va infine ricordata la proposta  avanzata dal re di Sardegna all’illustre filosofo di traslare le salme dei Principi sabaudi da Superga alla Sacra di San Michele: sperone erto a vegliare sull’integrità del regno proprio nella valle che ne aveva veduto gli albori quasi un  millennio prima.

  Antonio Rosmini fu il pensatore di riferimento  di altri quattro papi: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Se papa Leone XIII nel 1887 aveva condannato all'Indice quaranta sue “proposizioni”, sin dal Concilio ecumenico vaticano II, su impulso di monsignor Luigi Bettazzi, iniziò la sua riscoperta a valorizzazione, coronata con la beatificazione pronunciata da papa Benedetto XVI e celebrata a Novara il 18 novembre 2007. La Chiesa ha riconosciuto le sue virtù eroiche. 

   Vi è motivo di sperare che  in una visione matura del cammino umano altrettanto faccia la storiografia con la figura e l'opera di Re Carlo Alberto: non “italo Amleto”, né “Re tentenna” ma profeta della Nuova Italia, capace di conciliare fede e libertà, storia nazional e missione universale come prospettato dal pensiero di Antonio Rosmini.      


Maria Gabriella DI SAVOIA