GARIBALDI SCRITTORE? PERCHÈ? PER CHI?

Pare che questi editoriali abbiano ventiquattro lettori. Uno in meno di quanti ne contavano i Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Forse perché si occupano di temi tristi: il passato che non passa, il presente che angoscia, il buio pesto del futuro. Per di più sull'Arno l'editorialista va per questioni di “lingua”, sì, ma solo quella che gusta una succulenta “fiorentina”. Pecca di gola (gastrimarghìa), uno dei sette vizi capitali (una volta erano otto). Orbene, accade che un paio dei ventiquattro lettori, sorpresi di scoprire che, con tutto quel che ebbe da fare, Garibaldi abbia trovato anche il tempo di scrivere romanzi, hanno chiesto di saperne di più. In effetti il  nome del Generale non compare nei repertori dei letterati famosi. Forse perché egli disse chiaro e tondo che, posata la spada, impugnò la penna per continuare la sua “missione”. Scoprì anche il gioco degli scrittori che si dichiarano devoti esclusivamente alle muse ma controllano ogni giorno se arrivano i sempre magri diritti d'autore.    Ricordiamo, allora, in via preliminare, che Garibaldi scrisse quattro romanzi: “Cantoni il volontario”, “Clelia, il governo dei preti”, “I Mille” e “Manlio”. Il primo, scritto in memoria del forlivese Raffaele Cantoni caduto nella sfortunata battaglia di Mentana (1867), è poco noto. Ebbe una prima edizione nel 1870, un'altra nel 1873. Finì in un cantone. Ristampato in poche neglette copie, è disponibile gratuitamente in internet. Modesto beneficio Garibaldi trasse dal “Clelia” e dai “Mille”. “Manlio” rimase inedito.      Tornò allora a occuparsi di “politica”. Sulla fine della vita, affaticato dagli acciacchi ma sempre vigile, ammonì che occorreva  «governare meglio o cadere». Dall'affiliazione alla Giovine Italia all'impresa dei Mille, la sua stella polare fu Italia unita, indipendente, libera. Già in Sudamerica insegnava  «Libertad para todos y si no es para todos no es libertad» fu il suo motto. Per arrivarci bisognava organizzarsi.    Al segretario della Società nazionale, Giuseppe La Farina, all'inizio del decisivo 1859 Garibaldi ripeté che «dovendo promuovere movimenti di popolo, sarebbe bene cominciare con qualche cosa di organizzato per poter dirigere la corrente come si deve». Non era più tempo di improvvisazioni né, soprattutto, di indulgere alle «cose mazzinesche», alle «suggestioni che potrebbero venirci da quei di Londra», alle «commedie che Mazzini chiama rivoluzioni». «Noi non dobbiamo esser partito – ribadì invece Garibaldi ad Agostino Bertani il 13 dicembre 1859 –, ma dominare i partiti tutti.». Dopo l'armistizio di Villafranca (luglio 1859) non rimise in discussione gli obiettivi ultimi, ma scelse la sua via. «A Vostra Maestà – scrisse a Vittorio Emanuele – è nota l'alta stima e l'amore che vi porto; ma la presente condizione in Italia non mi concede d'ubbidirvi, come sarebbe mio desiderio. Chiamato dai popoli mi astenni fino a quando mi fu possibile; ma se ora, in onta di tutte le chiamate che mi arrivano, indugiassi, verrei meno ai miei doveri e metterei in pericolo la santa causa dell'Italia. Permettetemi, quindi, Sire, che questa volta vi disubbidisca. Appena avrò adempiuto il mio assunto liberando i popoli da un giogo aborrito, deporrò la mia spada ai Vostri piedi e vi ubbidirò fino alla fine dei miei giorni.»    Mantenne la promessa, ma a modo suo. Dopo la proclamazione del Regno (1861) Garibaldi rimase condizionato dal mancato compimento dell'unità. La necessità di congiungere all'Italia Roma, Venezia e Trento continuò a imporgli l'azione, senza però cedere alla faziosità dei “rivoluzionari” dilettanti. Fu lui a professare il programma cavouriano di governare il Mezzogiorno senza gli stati d'assedio e di farne anzi la piattaforma per mostrare la validità del liberalismo italiano. «Italia e Vittorio Emanuele, ecco la nostra repubblica, ecco il voto delle moltitudini» fu il suo programma.   Col 1870, ormai definitiva la rottura con Mazzini, Garibaldi cominciò a insistere più esplicitamente sul rinnovamento delle istituzioni: non per mutar la monarchia in repubblica, ma per introdurre correttivi democratici nello Stato e nella condotta dell'amministrazione. «Che fa l'Italia? – s'interrogava nella primavera del 1873 – Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale.» Sotto accusa erano invece «Massoni, Mazziniani, Internazionalisti [...] egualmente fautori dell'indolenza democratica [...] e quindi del trionfo effimero ma reale dell'oppressione e della menzogna. Invano si chiamarono a conciliazione le parti diverse della democrazia». Denunciò il “tarlo” della discordia, del dottrinarismo. La Sinistra doveva cercare in se stessa le ragioni della sua debolezza politica e trovarvi rimedio senza indulgere ad addebitarla a speciale malizia degli avversari. “Predicò” per formare il «fascio» delle «associazioni oneste», «la Massoneria, la Mazzineria, la fratellanza artigiana, le società d'operai, di reduci, Internazionali fasci operai, ecc.». Per sgombrare il campo almeno da un equivoco, negò l'esistenza di «garibaldini». I suoi seguaci dovevano sentirsi e dichiararsi solo e sempre “italiani”.    Sin dal 1870, col memoriale “Due parole di storia”, Garibaldi tracciò lo spartiacque tra il suo gradualismo e l'avventurismo di altri, incompatibile con le prospettive di crescita democratica aperte dall'unificazione nazionale: «Io ho spinto i miei concittadini a delle imprese temerarie qualche volta, ma me le perdonino [...]. Comunque, noi non vogliamo delle Rivoluzioni-miserie. Frattanto, i miei concittadini si preparino a temprar l'animo e il corpo, a mostrar che l'Italia facendo farà davvero [...]. Ripeto: aspettare l'ora. Non far rivoluzioni da farci beffeggiare». Contro i seminatori di discordie, i provocatori di guerre civili, Garibaldi rivendicò: «Io ho sempre inteso di appartenere alla Nazione Italiana.»    Conscio della necessità di non isolare il “movimento” dalle componenti più caute del liberalismo, spiegò che i contrasti dovevano rimanere interni alla “famiglia”. Ampliamento del diritto di voto, eliminazione delle imposte indirette, dei dazi sui consumi, della tassa sulla macinazione e sul sale, da sostituire con un'imposta diretta e progressiva, abolizione della pena di morte, emancipazione femminile, interventi a favore delle classi e delle regioni più povere furono il terreno d'incontro tra Garibaldi, le diverse componenti della democrazia radicale e la nuova generazione di uomini politici, orientata da suoi antichi e fedeli seguaci come Aurelio Saffi, con il quale aveva condiviso l'epopea della Repubblica romana del 1849.    Poiché sulla sua figura e sul suo pensiero si sono accumulate dicerie infondate è bene fissare alcuni punti fermi su un aspetto centrale della sua personalità: la religiosità. Nella congerie di suoi scritti e appunti occorre distinguere i “documenti” relativi alla vita militare e politica, quelli concernenti affetti domestici e amicizie e le carte cui affidò i suoi pensieri su temi generali. Tra queste ultime speciale rilievo occupano le sue riflessioni sulla religiosità. Esse includono tre diversi temi: Dio, le religioni, le chiese intese come clero. Al riguardo, oltre alle lettere, vanno presi in esame anche i suoi discorsi e gli scritti letterari, le cui pagine gli rimasero dinnanzi agli occhi e sotto la penna più a lungo di quanto gli potesse accadere per un proclama, un messaggio, una lettera dettata (e spesso solo firmata) o vergata sul tamburo, nel vortice dell’azione. Nelle prose d’arte (per quanto arte povera, come non esitò mai a dichiarare e a riconoscere) Garibaldi compì anzi uno sforzo per conferire veste definitiva alle proprie riflessioni. Debitamente confrontate con le altre fonti utili a coglierne il pensiero, esse conducono ad affermare che Garibaldi fu credente in Dio personale, creatore e ordinatore dell’universo, provvido nei confronti delle sue creature.    Valga a conferma l’incipit del capitolo LXIII di Clelia, il governo dei preti: «Era una di quelle aurore che ti fan dimenticare ogni miseria della vita per rivolgerti tutto intiero alle meraviglie colle quali il Creatore ha fregiato i mondi. L’alba primaverile che spuntava dall’orizzonte, così graziosamente tinta dei colori dell’Iride, t’incantava...» Poco oltre, il capitolo intitolato Morte ai preti gronda di invettive contro il clero: «Tra le astuzie dei sardanapali pretini, ricchissimi com’erano, sempre mercé la stupidità dei fedeli, non ultima fu quella d’impiegare gli artisti più eminenti nella illustrazione delle loro favole.» Ai capolavori di Michelangelo e Raffaello contrappose la libertà e la dignità nazionale, «vero capo d’opera di un popolo».    Contraddizione? No. Attendeva che la Chiesa (altra cosa dal clero) si liberasse dal gravame del potere temporale e tornasse evangelica e missionaria.    In I Mille, un romanzo (mancato) sull’impresa che lo rese celebre nel mondo, Garibaldi toccò i vertici dell’anticlericalismo militante. Nella prefazione si scusò pubblicamente perché gli parve di avervi detto «abbastanza male» dei preti. Nello stesso libro, tuttavia, le roventi esecrazioni di papi, imperatori, preti (soprattutto i gesuiti) si alternano all’esaltazione, talora ingenua ma sempre appassionata, della «religione della libertà» e della religiosità in sé quale vincolo necessario all’umano incivilimento. Nell’accorato capitolo 61°, La morente, descrive la straziante agonia di Marzia, una delle eroine del romanzo accanto a Lina (Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi, personaggio storico mescolato a quelli di fantasia): «Marzia sentiva vicinissima la morte, ma dotata di sì supremo coraggio e di quell’eroismo filosofico capace di affrontarla come una conosciuta, come una transizione naturale della materia, accennò colle labbra un bacio verso Lina, che fu seguito da P. e dai cari presenti; non articolò più parola e passò tranquilla all’Infinito!» Materialismo panico? o spiritualismo?    Il capitolo conclusivo del romanzo, Il sogno, condensa le sue contraddizioni e indica la via del loro superamento. L’eroe assiste al «sorgere del figlio Maggiore dell’Infinito che spuntava dalle cime dell’Apennino (sic!)». Mentre contempla l’aurora, intravvede il nuovo ordinamento dell’Italia unita, «un governo di tutti e per tutti» («non so se lo chiamassero Repubblicano» tiene a precisare), fondato sulla giustizia e sua garante. Descrisse il “miracolo”: la riesumazione gloriosa delle ossa dei martiri caduti per la patria («Si scopron le tombe, si levano i morti,/ i martiri nostri son tutti risorti...») e, al tempo stesso, alla redenzione dei «chercuti» incluso il «santissimo padre, non più panciuto e con le pantofole dorate, ma calzato con un buon pajo di stivali, snello e robusto che consolava il vederlo». Pio IX dirigeva di persona i preti intenti alla bonifica delle Paludi Pontine: «chi colla vanga, colla zappa e coll’aratro; altri lavoravano la terra che era una delizia.» A quell’afflizione educativa, alla fatica quale risarcimento dei danni inflitti alla società non erano però solo i preti nella visione di Garibaldi: dinnanzi ai suoi occhi si affollava «una quantità di finanzieri d’ogni classe, di pubbliche sicurezze, di impiegati al lotto e tanta altra gente inutile alla società ed ora resa utilissima». «I preti diventati laboriosi ed onesti. Tutte le cariatidi della Monarchia, come i primi consueti al dolce far niente ed a nuotare nell’abbondanza, oggi piegano la schiena al lavoro. Non più leggi scritte. Misericordia! Grideranno tutti i dottori dell’Universo, oggi obbligati anche loro a menare il gomito per vivere. Finalmente una trasformazione radicale in tutto ciò che abusivamente chiamavasi civilizzazione e le cose non andavano peggio! Anzi scorgevasi tale contentezza sul volto di tutti, e tale soddisfazione per il nuovo stato sociale, ch’era un vero miracolo!»    Il sogno garibaldino di palingenesi va dunque molto oltre la o le chiese o, se si preferisce, guarda altrove:l a politica. Su religione e religiosità tornò in una lunga nota esplicativa sul concetto di Infinito: Scrisse: «Nelle presenti controversie della Democrazia mondiale, in cui si scrivono dei fascicoli numerosi per provare Dio gli uni, per negarlo gli altri, e che finiscono per provare e per negare nulla, io credo sarebbe conveniente stabilire una formola edificata sul Vero, che potesse convenire a tutti ed affratellare tutti. Per parte mia accenno e non insegno. Può il Vero, o l’Infinito, che sono la definizione l’uno dell’altro, servire all’uopo? Io lo credo; ma non lo insegno. V’è il tempo Infinito, lo spazio, la materia, come lo prova la scienza; quindi incontestabile. Resta l’intelligenza infinita. È essa parte integrante della materia? Emanazione della materia? La soluzione di tale problema è superiore alla mia capacità.»    Ricalcò analoghe riflessioni in La religione del vero: «Ov’è Dio? io ne so tanto quanto un prete ma io, apostolo del Vero, risponderò: Non lo so, ed avrò detto la verità mentre un prete vi risponderà con una delle definizioni che certamente saranno false se non vi risponde com’io vi rispondo. Chi è Dio? Il Regolatore di Mondi [...] sì, quell’intelligenza infinita, la cui esistenza, gettando lo sguardo nello spazio e contemplando la stupenda armonia che regge i corpi celesti ivi disseminati chiunque deve confessare». Il Regolatore dei Mondi per lui era il massonico Grande Architetto dell'Universo. Scrisse infine la sua professione di fede: «Il mio infimo corpo è animato siccome sono animati i milioni d’esseri che vivono sulla terra, nelle acque e nello spazio infinito non eccettuando gli astri, che possono essere animati pure. Come tutti quegli esseri io sono dunque dotato di una quantità qualunque d’intelligenza e se l’intelligenza universale, che anima il tutto, fosse Dio, io avrei allora una scintilla animatrice emanata da Dio e sarei dunque una parte infinitamente piccola della Divinità ma ne sarei una parte; quell’idea mi nobilita, mi soddisfa, fa qualche cosa del mio nulla e contribuisce ad elevarmi sulle miserie di questa vita.»    Garibaldi, condottiero, politico, scrittore, si poneva domande comuni a tanti uomini. E tentava risposte sue, forse ingenue ma sicuramente sincere, pacate. Una sorta di mano tesa verso tutti, un invito alla tolleranza universale. «Semplice, bella, sublime è la religione del vero: essa è la religione di Cristo perché tutta la dottrina di Cristo poggia sull’eterna verità. L’uomo nasce uguale all’uomo, Indi... Non fate ad altri ciò che non vorreste per voi. Chi non ha fallito getti la prima pietra sul delinquente. Simbolo di fratellanza il 1° precetto e simbolo di perdono il 2°. Simboli, precetti, dottrina che praticati dagli uomini costituirebbero quel grado di perfezione e di prosperità, a cui è suscettibile di giungere. Ma no, dice il prete: al di fuori della bottega son tutti dannati! Chi non è con me è con Satana e condannato a bruciare in eterno...»    Garibaldi credé nell’immortalità dell’anima? In un appunto in nota al Clelia osservò: «Il cadavere conserva ancora la materia. Ma ove? L’intelligenza dorme o si è divisa?»    Non aveva certezze e, ciò che più conta, non s’impancava a formulare e a imporre verità che per primo non possedeva. Quello degl’interrogativi senza risposta è il Garibaldi vero. È anche un Garibaldi molto attuale, giacché non propone una dottrina, un catechismo, un insegnamento né, meno ancora, un modello al quale attenersi rigidamente. Offre solo un esempio: quello di chi convive con i dubbi, reputa di non arrivare a darsi alcuna soluzione definitiva e tuttavia non si abbandona alla disperazione né diviene scettico o indifferente. Sente che di giorno in giorno la vita si esaurisce, ma non ne prova angoscia. Attende senza nulla pretendere. Vive, lascia vivere e nel frattempo fa quel che sente di dover fare per «guarire la gran piaga della miseria.» 

Aldo A. Mola 

DIDASCALIA. Al Quirinale Vittorio Emanuele II accoglie Garibaldi, presente l'Aiutante di Campo del Re, Giacomo Medici del Vascello, già comandante del 2° Reggimento dei Cacciatori delle Alpi. Nella Prefazione ai romanzi storici Garibaldi disse chiaro e tondo perché li scrisse: «1° Per ricordare all'Italia molti dei suoi valorosi, che lasciarono la vita sui campi di battaglia per essa. 2° Per trattenermi colla gioventù italiana sui fatti da lei eseguiti. 3° Per ritrarre un onesto lucro dal mio lavoro. Ecco i motivi che mi spinsero a farla da letterato in un tempo in cui credetti meglio far niente che far male.» Generale, deputato, artefice dell'unità nazionale Garibaldi si reggeva sulle grucce, non aveva né stipendi né pensioni. Scrisse di getto e pubblicò “Clelia” (uscito nel 1870 in inglese prima che in italiano) e “Cantoni il volontario” (1870), “I Mille”, specchio di «un'anima che sente le miserie e le vergogne del suo paese», e le “Memorie”, intraprese nel 1871, completate l'anno seguente e pubblicate nel 1874. Benché tradotti nei Due Mondi, i romanzi non gli fruttarono quel che sperava. Viveva in condizioni miserevoli. Alcuni Comuni gli assicurarono una pensione di 3.000 lire annue. Nel 1876 accettò il “dono nazionale” e nel 1880 grazie al giureconsulto piacentino e futuro presidente del Senato Giuseppe Manfroni ottenne l'annullamento delle nozze con Giuseppina Raimondi e sposò la provvida compagna Francesca Armosino, dalla quale aveva avuto Rosa, Clelia e Manlio. La sua, sì, fu “una vita inimitabile”.