ELEZIONE POPOLARE DEL CAPO DELLO STATO? NO, GRAZIE

Pubblichiamo in anteprima l'editoriale del Giornale del Piemonte e della Liguria che uscirà domani 4 settembre 2022. Firmato dal prof. Mola.


Presidente del Consiglio come “sindaco d'Itala”?

L'accordo quadro di programma della coalizione Forza Italia-Lega-Fratelli d'Italia, probabilmente prevalente alle elezioni politiche del 25 settembre 2022, al punto 3 (Riforme istituzionali, della Giustizia e della Pubblica Amministrazione secondo la Costituzione) propone la “Elezione diretta del Presidente della Repubblica”.

La riflessione sulla storia conduce a concludere che essa non si addice all'Italia.

Va osservato, in premessa, che la coalizione “Azione-Italia Viva”, cioè il “Terzo Polo” guidato da Carlo Calenda e Matteo Renzi, propone una profonda revisione del Titolo V della Costituzione alla luce delle misure adottate per contenere gli effetti della pandemia di covid-19 e sue varianti, quando emerse imperiosamente la necessità della clausola di supremazia dell'interesse nazionale su pulsioni particolaristiche. A differenza dell'accordo quadro FI-Lega-FdI, il “Terzo Polo” propone l'elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri sul modello dei sindaci delle città più grandi, che verrebbe implicitamente designato dal voto popolare. L'elezione “diretta” del capo del governo mette in discussione la prerogativa fondamentale del rapporto tra capo dello Stato e presidente del Consiglio. La Costituzione vigente riserva al primo la nomina del secondo, al quale spetta la scelta della rosa di ministri da proporre al capo dello Stato per la nomina di rito (art. 92 comma 2). La riforma prospettata da “Azione-Italia Viva” è dunque gravida di incognite per le istituzioni supreme dello Stato.


L'elezionepopolaredel capo dello Stato

L'accordo quadro del centrodestra suscita perplessità anche maggiori. In primo luogo anziché di “elezione diretta” sarebbe meglio parlare di “elezione popolare”, in linea con l'art. 1 comma 2 della Carta, senza però trascurare che la sovranità del “popolo” va esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione” stessa. Come è stato osservato da autorevoli costituzionalisti, ma con prevalente attenzione per aspetti formali di architettura della Carta, la cosiddetta “elezione diretta” richiederebbe un’imponente serie di riforme ulteriori della Costituzione. Poiché l'elezione popolare ha il carattere di “plebiscito” o (come scrive la Carta) di referendum occorrerebbe in via preliminare stabilire le garanzie minime di validità del pronunciamento. Chi lo indice? E quale dovrebbe essere la percentuale minima di partecipanti e di voti validi per rendere la consultazione politicamente rappresentativa? E a chi dovrebbero essere indirizzati eventuali reclami su svolgimento ed esito della consultazione?

Alle obiezioni di natura tecnica se ne aggiungono altre, di maggior peso, che si basano sull’esperienza della storia.

Di buono c'è che questo Parlamento è sciolto. Ha fatto tutti i danni possibili, compresa la drastica riduzione dei componenti delle Camere da eleggere il 25 settembre. Da lì la rissa, a volte indecorosa, tra gli aspiranti allo scranno, da alcuni inteso come sedia a dondolo quasi vitalizia in attesa dell'ascesa spintanea al Colle più alto (nessun riferimento al “democratico” Pierferdinando Casini). A differenza del Senato, la Camera dei deputati non ha varato le riforme regolamentari minime indispensabili per agevolare l'opera di quella eligenda. Il suo avvio sarà quindi molto travagliato. Se la legislatura ora al capolinea è la peggiore di quelle susseguitesi dal 1948 a oggi, la prossima sarà tutta in salita, anche perché nessuno dei tre governi succedutisi dal 2018 ha frenato l'aumento del debito pubblico. A prescindere dalle migliori intenzioni del presidente Mario Draghi e di alcuni ministri, neppure il governo in carica è riuscito a invertire la rotta e a bloccare l'aumento del deficit, destinato a pesare come un macigno sulle generazioni venture. L'Italia, dunque, malgrado la litania di sciagure rimane il Paese di Bengodi?


Il Bicameralismo: da migliorare, mai da abolire

Per scongiurarne l'altrimenti inevitabile tracollo occorre, innanzitutto, sgombrare il campo da dispute intempestive sull'assetto istituzionale prossimo venturo. Per fortuna nessuno propone l'eliminazione del bicameralismo. E questa è buona cosa. Tempo addietro (appena ieri, a ben vedere, ma sembra anni luce lontano dall'oggi) Matteo Renzi propose la riforma del Senato e dei suoi poteri. Non risultò convincente. Il referendum del 2016 gli dette torto. Se è vero che prima o poi occorrerà superare il cosiddetto “bicameralismo perfetto” o “paritario”, anche in quest'ultima legislatura il Senato ha bocciato o almeno temperato tanti ardori della Camera. Non sarà per caso che il bicameralismo vige in tutte le democrazie parlamentari.

Il monocameralismo è di matrice giacobina. Per pavidità dei loro componenti e/o per tracotanza delle minoranze rumorose, i parlamenti monocamerali sono sempre dominati dalle fazioni più aggressive. In Inghilterra la camera dei comuni condannò Carlo I alla decapitazione. Eletta sull'onda delle “stragi di settembre”, la Convenzione repubblicana francese del 1792 dette la stura a un fiume di crimini politici spacciati come difesa della patria in pericolo: vietato pubblicare, vietato parlare, vietato pensare. Al confronto con il Terrore imposto da Robespierre (che, come Stalin, non per caso era stato in seminario) persino la “Santa Inquisizione” risulta un modello di correttezza: quanto meno prevedeva un processo.

Poiché, quando si parla di storia nulla va taciuto, occorre ricordare che la Costituzione della Repubblica romana approvata alle 2 del mattino e varata a mezzogiorno del 3 luglio 1849 fu per molti aspetti lungimirante e meritoria. Con l'art. 5 abolì la pena di morte; con gli articoli 6 e 7 dichiarò libera la manifestazione del pensiero e dell'insegnamento. Però essa istituì un'unica Assemblea. Esattamente l'opposto della monarchia rappresentativa instaurata Carlo Alberto di Savoia re di Sardegna con lo Statuto del 4 marzo 1848, ripubblicato in edizione anastatica dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga, cattolico liberale.

Con l'ottimismo sfrenato di chi organizzò complotti, insurrezioni, rivoluzioni e defezioni dei suoi seguaci dal campo di battaglia (come deplorò Giuseppe Garibaldi che se ne sentì tradito) e aveva l'attenuante di credere negli angeli, Mazzini scommise su un'Assemblea che ricalcava il modello della Convenzione francese. La “sua” costituzione fu approvata mentre i francesi di Luigi Napoleone Bonaparte principe-presidente eletto con plebiscito irrompevano in Roma e Garibaldi prendeva la via verso l'indomita Venezia alla testa di duemila volontari ai quali promise “sudore e sangue”. Mazzini si eclissò. Se pochi mesi dopo fosse stato chiamato alle urne per eleggere il capo dello Stato, il popolo romano non avrebbe esitato a votare in massa per Pio IX, papa-re, perché alla bonaria tirannide degli ecclesiastici era abituato, mentre i “liberatori” avevano lasciato pessima memoria di sé, dai “lanzi” capitanati da un luterano, autori del “sacco” del 1527, ai giacobini del 1798, ricordati come calamità.

Il l4 marzo 1861 il Parlamento bicamerale del neonato Stato unitario, sorto dalla concatenazione insurrezioni liberali-annessione-conferma plebiscitaria, riconobbe “Vittorio Emanuele II, Re d'Italia”, che già lo era. Umberto I e Vittorio Emanuele III entrarono in carica per diritto ereditario e giurarono fedeltà allo Statuto, legge fondamentale perpetua e irrevocabile della monarchia, a cospetto delle Camere riunite, espressione della volontà popolare. Tutto semplice e chiaro. Nel bene e nel male, in Italia quel regime resse sino al cambio della forma dello Stato.


La divisività dell'elezione popolare del capo dello Stato: 

Nel 1946-1947, ormai in piena Guerra Fredda, presto dominata dall'“equilibrio del terrore”, i costituenti erano divisi su molti temi fondamentali ma, fatte le debite eccezioni, concordarono su alcuni capisaldi: impedire qualunque ritorno del fascismo “storico”, sia del “ventennio” sia della Repubblica sociale; far dimenticare la monarchia; ridurre ai minimi termini l'influenza della tradizione liberale (ne ha scritto Aldo G. Ricci); includere nella Carta i Patti Lateranensi italo-vaticani (pazienza se a firmarli con il cardinale Pietro Gasparri era stato Benito Mussolini, “credente” a giorni alterni) e far eleggere il capo dello Stato da parte delle Camere in seduta congiunta e dai rappresentanti delle regioni.

In quell'Italia era chiaro che l'elezione diretta (o “popolare”) del presidente della neonata Repubblica avrebbe spaccato il Paese. C'erano tutte le premesse. Il 2-3 giugno 1946 gli italiani si erano riconosciuti in una manciata di partiti, il più votato dei quali, la Democrazia cristiana, aveva ottenuto appena il 32,5%, mentre il Partito socialista (secondo per numero di voti con gran dispitto di Palmiro Togliatti) e il comunista erano rimasti al 20% ciascuno, seguiti a distanza dagli altri, sino al Partito d'azione che, sfaldatosi al suo primo congresso, racimolò un mortificante 1,4%. Dopo decenni di conformismo coatto nelle file del “partito unico”, gli elettori si distribuivano dunque a ventaglio.

Quello stesso corpo elettorale si divise invece quasi a metà nella scelta della forma dello Stato: 12.700.000 per la repubblica contro 10.700.000 per la monarchia e 1.500.000 schede bianche. Il referendum risultò dunque divisivo e politicamente pericoloso. Se ne ebbe la conferma il 18 aprile di due anni dopo quando al bivio tra “Occidente” e Unione sovietica il 48% dei voti andò alla Democrazia cristiana, mentre il Fronte popolare socialcomunista si fermò al 30%. Anche quello fu un plebiscito: o di qua o di là. La DC, però, non soggiogò il Parlamento né poté governare da sola perché “una tantum” furono immessi nella Camera Alta un centinaio di “senatori di diritto” in buona parte di sinistra o “centristi” non clericali (liberali, riformisti, democratici del lavoro...). In quelle condizioni l'elezione diretta del capo dello Stato avrebbe certamente assicurato la vittoria a un esponente della Democrazia cristiana. Per quanto stimati, il liberale Luigi Einaudi (eletto) e Vittorio Emanuele Orlando, a sua volta liberale e proposto dalle sinistre, non avrebbero avuto storia.

Fiutato il pericolo, di referendum “politici” non si parlò più per quasi trent'anni. Nel 1974 quello imposto dalla Chiesa ad Amintore Fanfani per abrogare il divorzio confermò che la consultazione popolare su questioni sensibili suscita profonde lacerazioni e ferite inguaribili negli sconfitti. Nel frattempo, dopo Einaudi, le Camere avevano eletto i democristiani Giovanni Gronchi, considerato “di sinistra”, e Antonio Segni, conservatore capace di grandi riforme, il socialdemocratico Giuseppe Saragat e Giovanni Leone, democristiano, giurista insigne, poi travolto da una sciagurata campagna diffamatoria che logorò le istituzioni e le espose molto indebolite all'offensiva del terrorismo politico degli anni seguenti. Ne ha scritto Tito Lucrezio Rizzo nel bel volume  “Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica” (ed. Herald).

L'elezione popolare del Capo dello Stato, dunque, è divisiva e non si addice all'Italia per una lunga serie di motivi storici, la cui esposizione richiede ampio spazio (ci ritorneremo). Tra i molti va ricordata in primo luogo la potenziale contrapposizione tra l'Italia settentrionale, demograficamente ed economicamente più forte, e quella meridionale. La provenienza regionale non è mai entrata nelle talvolta ingarbugliate elezioni dei presidenti della Repubblica, anche perché ogni parlamentare rappresenta non quanti l'hanno votato bensì la nazione ed è quindi libero nelle sue decisioni ultime. Ma in caso di elezione “popolare”?

In un Paese sempre più incline all’esasperazione dei contrasti l'elezione diretta del capo dello Stato si configura inevitabilmente come incentivo al duello rusticano fra due sole fazioni. Un presidente della Repubblica eletto dalle Camere può reggere anche se prevalso con modesto margine (fu il caso di Leone, eletto anche con aiuto “fraterno”), ma difficilmente durerebbe se eletto a stretta maggioranza in una votazione diretta. I perdenti non mancherebbero di denunciare brogli (come avvenne, a ragione, nel 1946), di sentirsi mortificati per sette anni (che non sono pochi) e di non considerarsi rappresentati dal vincitore. La questione non è una disputa tra costituzionalisti. È squisitamente politica e va affrontata come tale per sgomberare il campo da equivoci ed evitare i guai ora divampanti negli Stati Uniti d'America.


La Presidenza della Repubblica va bene così com'è.

Va dato atto ai Costituenti di aver blindato la figura del capo dello Stato nella maniera più pacata: copiarono quasi parola per parola lo Statuto albertino passato dal regno di Sardegna a quello d'Italia e durato cent'anni malgrado tante vicissitudini e tragedie, inclusi il regicidio, la durissima prova della Grande Guerra e l'assalto mussoliniano al governo nel 1922. Il potere supremo rimase nelle mani di Vittorio Emanuele III che il 25 luglio 1943 se ne valse per revocare Mussolini da capo del governo e designarne il successore.

Ora, anche secondo i sondaggi a lui più favorevoli il 25 settembre il centrodestra si avvicinerà, ma non supererà, il 50% dei voti validi espressi da un possibile 65% degli aventi diritto. Nessuno dei partiti in gara viene accreditato di un consenso superiore al 25% dei consensi, pari duque al 16% circa del corpo elettorale. Solo la legge elettorale presentata da Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, grado 30° della Gran Loggia d'Italia, nel 1923 assegnò due terzi dei seggi al partito che avesse superato il 25%. Ma lì si trattava di ripartire gli scranni della Camera dei deputati, mentre il Senato era di nomina regia e vitalizio e, a parte alcuni esagitati senza troppe speranze, nessuno metteva in discussione il capo dello Stato, il Re, che tale era “per grazia di Dio” e firmava leggi e decreti “per volontà della nazione”. Il presidenzialismo è del tutto estraneo al quadro politico-partitico italiano invalso mezzo secolo fa, col declino della Democrazia cristiana e il suo mancato sorpasso da parte del Partito comunista.

Che cosa potrebbe aggiungere alle prerogative del capo dello Stato la sua elezione popolare? Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere, presiede il Consiglio superiore della magistratura, può concedere la grazia e commutare le pene, conferisce le onorificenze dello Stato, accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere, nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri e, come già detto e conviene ricordare, “rappresenta l'unità nazionale”. Non bastasse, a differenza del Re, che era tenuto a firmare senz'altro le leggi deliberate dal Parlamento, il presidente della Repubblica “prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere, chiedere una nuova deliberazione”. Deve promulgarla solo in caso di nuova approvazione (art. 74 Cost.).

Proprio per la vastità dei suoi poteri è opportuno che il capo dello Stato continui a essere eletto dalle Camere anziché dalla prevedibile furibonda contrapposizione tra “tifoserie”, costrette, per prevalere, a estremizzare i motivi di conflitto e a soffocare le legittime identità e diversità all'interno di coalizioni che cesserebbero di essere convergenza tra affini e diverrebbero unioni coatte, a tutto vantaggio della forza maggioritaria, tentata di fagocitare gli alleati e soffocare le minoranze interne, a tutto danno del pluralismo, patrimonio irrinunciabile della democrazia parlamentare.

Infine, elezione diretta del Capo dello Stato vuol dire rischio del dominio della piazza e di pulsioni umorali in un Paese che nel corso della storia si è mostrato incline all'osanna e al crucifige e possibile sovrapposizione del presidente della Repubblica alle altre Istituzioni, a cominciare dalle Camere, e in definitiva, all’abdicazione da parte degli elettori alla loro sovranità proprio mentre votano. Anziché garantire la democrazia, cioè il pluralismo, l'elezione diretta del capo dello Stato genera la tirannide di una minoranza di votanti sulla maggioranza dei cittadini. L'Italia ha già dato...La storia invita alla riflessione e alla prudenza.

La Presidenza della Repubblica sta bene così come è, non troppo diversa dalla monarchia rappresentativa alla quale si deve la nascita dello Stato d'Italia, sorto appena 161 anni fa: il più “giovane” dell'Europa centro-occidentale. Forse anche per questo motivo non suscita affatto scandalo la rielezione del Capo dello Stato, quando risulti garante di stabilità del Paese nel quadro dei suoi vincoli internazionali e nel rispetto dei diritti non negoziabili che sono alla base della Costituzione vigente come erano in nuce nello Statuto albertino.


Aldo A. MOLA


DIDASCALIA. La “Biblioteca Piffetti” trasferita da Casa Savoia da Torino al Quirinale.  Residenza dei Papi, dei quattro Re d'Italia e dei Presidenti della Repubblica il Palazzo è sintesi e simbolo della continuità di uno Stato ancora giovane, bisognoso  di pace interna e internazionale.