Centenario di Italo Calvino

CON MARZIA TARUFFI E LUCA FUCINI
DAL “SENTIERO” ALLA “PUNTA DI FRANCIA
di Aldo A. Mola

Il parricida?

 È impresa disperante fare i conti con Italo Calvino. Lo scrittore irretisce nella sua prosa che procede ora a scatti, come i suoi passi lungo le fasce delle borgate sanremasche, ora con periodi fluenti, scanditi da fitta interpunzione, parentesi, trattini: un labirinto all'apparenza nitido, infine imprevedibile. Il lettore si sente burlato. Ma è Calvino stesso a mettere sull'avviso. Nelle pagine più schiettamente autobiografiche, La strada di San Giovanni, mentre alterna ricordi affettuosi e invenzioni irridenti evoca il suo irrisolto dissidio col padre. «Parlarci era difficile. Entrambi d'indole verbosa, posseduti da un mare di parole, insieme restavamo muti, camminavamo in silenzio a fianco a fianco per la strada di San Giovanni […] Muti, guardando terra, assorti ognuno nel proprio pensiero, impenetrabili.» A distanza di decenni dalle scarpinate mattutine che suo padre, Mario, agronomo di fama internazionale, imponeva a lui e a suo fratello Floriano, futuro prestigioso cattedratico all'Università di Genova, per portare a valle dal loro podere ceste piene di frutta e di ortaglie, lo scrittore confessa «il rovello che ancora continua in queste pagine non completamente sincere» e l'incolmabile «crepaccio» che continuava a dividerlo dalla figura paterna, come in una tragedia classica.    Per venirne a capo non rimane che leggerlo, seguirne passo passo il mezzo secolo della sua lotta sisifea con la “parola”, dall'adolescenza alla morte nell'ospedale di Santa Maria della Scala in Siena, dieci giorni dopo l'ictus cerebrale che il 6 settembre 1985 lo aveva colpito nella sua casa di Roccamare a Castiglione della Pescaia. È quanto da molti anni fa Marzia Taruffi, demiurga dell'Ufficio Cultura del Casinò di Sanremo, con la regìa di conferenze, tavole rotonde e convegni. Il prossimo 5 dicembre corona il lungo impegno con il volume Camminando sul sentiero dei nidi di ragno, ampia Antologia delle tematiche calviniane (ed. De Ferrari), da lei curato con partecipe sensibilità poetica. L'opera non cala bruscamente la saracinesca a conclusione del Centenario. Invita, anzi, a riprendere il cammino, come piaceva al padre dello scrittore: «ogni pista era buona pur di far chilometri a piedi fuori delle strade, battendo vallata per vallata la montagna giorni e notti, fino in Piemonte, fino in Francia, senza mai uscire dal bosco, aprendosi la strada, quella strada segreta che lui solo sapeva e che passava attraverso tutti i boschi, che univa ogni bosco in un bosco solo, ogni bosco del mondo al di là di tutti i boschi, ogni luogo del mondo in un luogo al di là di tutti i luoghi». Mario era un uomo libero in tempi di regimi e “catechismi” opprimenti, che suo figlio Italo, si svincolò con Antonio Giolitti e altri, dalla metà degli Anni Cinquanta e ritenne superati ma allungarono la loro ombra cupa ancora per decenni.   

I conti di Italo Calvino con la Massoneria... 

A quasi quarant'anni da quando fu raggiunto dalla Grande Visitatrice, Italo Calvino serba molti “segreti”, che meritano di essere esplorati. Nella miriade di saggi e articoli pubblicati nel centenario della sua nascita è rimasta per ora in ombra la sua “attenzione” per la massoneria. Eppure l'Ordine liberomuratòrio è stato centrale nella vita, nella memoria, nell'opera e, si può dire, nei tormenti dello scrittoreGiunge quindi in buon punto il saggio di Luca Fucini La Massoneria nel Ponente Ligure. I Persistenti di Ventimiglia: 1866. L'autore ha, tra molti, due pregi sempre più rari: la ricerca dei documenti d'archivio e la visione della Massoneria qual essa è, un Universo che non si lascia ingabbiare in confini statuali. Come l'Aquila bicipite, insegna del 33° grado del Rito scozzese antico e accettato, stringendo negli artigli la spada della giustizia, fonte e garante di libertà, veglia sui due emisferi: quasi parabola dello scrittore nato a Santiago di Cuba ma orgoglioso di dichiararsi ligure, interprete dei Due Mondi come Giuseppe Garibaldi, nome distintivo della loggia di Porto Maurizio nella quale suo padre Mario, iniziato nella loggia “Mazzini” di Sanremo (Grande Oriente d'Italia, matricola 13.414), venne affiliato.    Nei volumi e saggi di Fucini le logge del Ponente emergono quale crogiolo di molteplici apporti. Anzitutto furono (come ancora sono) intreccio tra Italia e Francia. Le relazioni fraterne hanno retto allo spostamento dei confini politici e dei conseguenti usi linguistici imposti dall'amministrazione pubblica. Lo spazio liguro-franco-piemontese è indifferente (e anche insofferente) ai “termini” fissati dai trattati tra gli Stati. È incontro delle Alpi con il Mare, epicentro di due sfide: da un canto la via dei monti per svalicare dalla opima Costa Azzurra e dall'aspro Ponente nelle valli del Cuneese, verso la pingue pianura padana; dall'altro l'apertura a perdita d'occhio sul Tirreno, il Mediterraneo, e la tentazione di forzarne gli stretti. Ne è sintesi il vissuto di Garibaldi, il nizzardo che il 4 luglio 1807 nacque suddito dell'Impero napoleonico, fu da ragazzo “uomo di mare”, navigò presto sino al Mar Nero, circumnavigò il globo, si arroccò nell'isola di Caprera e per la sua salma chiese, invano, la pira omerica.    Fucini documenta che i Calvino furono della sua stessa tempra, a cominciare da GioBernardo, detto “Italianissmo”, nonno di Italo. Accolto il 14 maggio 1874 nella loggia “Liguria” all'Oriente di Sanremo, “regolarizzata” il giorno prima, GioBernardo, medico e filantropo, aveva alle spalle un lungo percorso massonico. In una missiva del 20 settembre 1870, scritta nella villa del principe di Piombino e spedita con porto-lettera a carico del destinatario, non per avarizia ma perché in quei frangenti era impossibile trovare francobolli per il regno d’Italia, narrò al fratello Francesco la sua irruzione in Roma «in mezzo a un fuoco di moschetteria che sembrava cadesse la grandine». Su impulso dell'arciprete Domenico Angherà e di militanti mazziniani e garibaldini, da un decennio il Mezzogiorno si stava popolando di logge, aperte al “basso clero” e a quanti non avevano ancora templi nelle loro terre d'origine per le reiterate crisi del Grande Oriente d'Italia dopo il suo trasferimento da Torino a Firenze e per la caotica gran maestranza di Ludovico Frapolli. 

..e con gli Antenati    

Come GioBernardo, orgogliosamente massone fu anche suo figlio, Mario.    Della massoneria Italo Calvino sapeva più cose di quante ne abbia lasciate trasparire quando ne accennò nel Barone rampante e in La Strada di San Giovanni, ove, con una punta di orgoglio, annotò: «La tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste da portare giù, era sotto il fico, a fianco dell'antico casolare di Cadorso (dove viveva la famiglia dei manenti), con ancora la traccia sbiadita sopra la porta del simbolo massonico che i vecchi Calvino mettevano sulle loro case…». Tacque però ostinatamente quel che non poteva non sapere ma, in un impeto di ribellione giovanile, aveva deciso di rifiutare, mandando al diavolo il simbolismo. Nondimeno, prima della militanza nel Partito comunista italiano, da lui vissuta quasi come espiazione per un esponente della media borghesia qual era, appena rientrato a Sanremo dal “servizio militare”, un giorno dell'agosto 1943 Italo si raccolse con amici. «Seduti in cerchio su una grande pietra piatta in un torrente vicino al suo podere» dettero vita a un fantomatico Mul, Movimento universitario liberale. Mentre uscivano da un regime non sentivano alcun bisogno di nuovi totalitarismi.    Lo scrittore rimase a lungo silente sulla massoneria, refrattario al linguaggio dei simboli altrui. Passò decenni a inventarne di suoi. Sul punto rimase come si descrisse nella Strada: incapace di comunicare con gli Antenati che sentiva diversi e incombenti anche quando ne faceva protagonisti delle sue opere più riuscite, subito famose e ancora fresche, come Il barone rampante, pubblicato nel 1957, l'anno della sua seconda “liberazione”: dall'immobilismo del Partito comunista italiano, connivente con la spietata repressione dei “compagni” polacchi e degli ungheresi. 

… e di Eugenio Scalfari 

Quel silenzio è un buco nero mai colmato neppure nella verbosissima corrispondenza con Eugenio Scalfari. Compagni di banco al liceo “Giovanni Domenico Cassini” di Sanremo, i due si confidarono sugli argomenti più disparati. Possibile che non si siano mai scambiati il più remoto cenno al massonismo dei rispettivi genitori? Neppure i calvinologi più sperimentati, come Mario Barenghi, si sono soffermati sull'interrogativo che nondimeno proprio nel centenario attende “più luce”, come esclamò morente il massone Goethe. Persino l'iniziazione di suo padre e del nonno viene elusa. Ne è esempio l'ampio saggio di Diego Mattei, Cent'anni con Italo Calvino, pubblicato nel quaderno 4157 (2 settembre 2023) di “La Civiltà Cattolica”, ove, riecheggiando approssimativamente quanto Calvino stesso scrisse, si legge che «entrambi i genitori erano liberi pensatori agnostici, se non apertamente anticlericali: il padre fu mazziniano, anarchico e poi socialista; la madre atea e socialista». Sono “etichette” che richiederebbero lunghe e qui impossibili precisazioni sulla loro incompatibilità, a cominciare dall'inconciliabilità fra Mazzini (“Dio, patria e famiglia”) e l'anarchia e dalla storicizzazione dell'“anticlericalismo”, che nella quasi totalità dei casi tra Otto e Novecento si sostanziava nell'avversione nei confronti della chiesa cattolica ma non di altre denominazioni cristiane (a cominciare dalla valdese, che non mancò di influenzare la formazione del giovanissimo Italo, discepolo del massone valdese Ugo Ianni) né di altre confessioni religiose.    Nella poderosa opera Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore (Hoepli), Domenico Scarpa ricorda che nel 1938 il futuro fondatore di “la Repubblica” approdò a Sanremo col padre, Pietro, chiamato a “dirigere il Casinò”. Sulle motivazioni di quell'incarico (precisamente la direzione artistica) aleggia il mistero. Nell'anno della sterzata antimonarchica e filogermanica di Mussolini e delle leggi contro gli ebrei non si trattava di un “incarico” qualunque. Dagli archivi attentamente perlustrati da Marzia Taruffi, che ne ha scritto in Uno, cento, mille Casinò di Sanremo (Genova, De Ferrari, 2015) e in altri accurati saggi, non è emerso nulla. Però sappiamo che Pietro Scalfari (nato a Monteleone Calabro il 7 febbraio 1896) fu iniziato massone nella loggia “Antica Vibonese Rinnovellata” il 25 agosto 1920, quando ancora risultava “studente” (nella “matricola” generale del GOI figura al numero 58.053). Valoroso combattente nella Grande Guerra, seguace di Gabriele d'Annunzio a Fiume, Pietro seguì le orme di suo padre, Eugenio (classe 1852), stimatissimo docente nel locale ginnasio e autore di scritti storico-letterari, iniziato nella medesima loggia il 18 novembre 1918 (n. 52.111: la stessa in cui entrò Antonino Scalfari (classe 1891, possidente, n. 52.110).    Va ricordato che tra la fine della Grande Guerra e il 1922 le iniziazioni nel Grande Oriente d'Italia balzarono da poco più di 1500 a 4-5.000 all'anno e che in molti casi gli adepti si fermarono al grado di apprendista. È quindi difficile certificare l'influsso effettivo dei maestri venerabili su apprendisti e compagni in anni affannosi. Ma lo era sicuramente quando il “testimone” passava di padre in figlio per generazioni, come accadde per gli Scalfari e per i Calvino.    Di certo, quando fu chiamato a Sanremo, il quarantaduenne Pietro aveva raggiunto la notorietà necessaria e sufficiente per l'incarico. Chi doveva sapere sapeva. Lui non aveva motivo di ostentare antiche appartenenze o simpatie per “associazioni” proibite come il Grande Oriente d'Italia, le cui logge erano state sciolte dal gran maestro Domizio Torrigiani nel novembre 1925 per metterne gli affiliati al sicuro dalle persecuzioni del regime fascista ormai imperante. Nel 1938 persino i Rotary, popolati di massoni in sonno, stavano ormai ripiegando le loro insegne per prevenire il divieto d'imperio da parte dell'ormai paranoico regime mussoliniano, mentre, anche su pulsione di un innominabile sacerdote da tempo spretato, dilagava il mito del complotto demo-pluto-giudaico-massonico ai danni dell'Italia.    In molte famiglie del Ponente Ligure il testimone dell'appartenenza massonica circolava frequentemente. Come ha documentato Filippo Bruno nel vasto repertorio La Riviera dei Framassoni (Centro Editoriale Imperiese, 2011), era il caso dei Sartore e dei Quaranta di Taggia e dintorni, legati ai Bianco di Cannes-Valdieri-Torino. Perciò il silenzio sugli “antenati” massoni (che, come si è detto, erano i padri e i nonni) nel fitto carteggio tra Italo Calvino ed Eugenio Scalfari risulta quanto meno curiosa.    L'interrogativo però non si restringe ai loro anni giovanili. Investe una questione più alta: perché la “cultura progressista”, dai radicali ai comunisti, all'indomani della guerra ostentarono tanto silenzio sulla massoneria? Il Partito comunista togliattiano, come noto, doveva attenersi disciplinatamente alla “scomunica” dei massoni risalente alla Terza Internazionale di Mosca (voluta da Lenin e ribadita da Stalin), salvo chiederne nel 1948 i voti a sostegno del Fronte popolare che utilizzò per contrassegno il faccione di Giuseppe Garibaldi, “primo massone d'Italia”. E chi nel “Partito” aveva comunque militato e ne aveva condiviso pubblicamente giudizi e pregiudizi trovava arduo cancellare il passato prossimo. Ma i “radicali”? Nelle “storie” pubblicate scritte negli anni Sessanta-Settanta (è il caso di quella scritta da Alessandro Galante Garrone) la massoneria non compare, quasi non fossero stati proprio antichi e mai pentiti Liberi Muratori a fondare il primo partito radicale e a farne il perno della Lega della democrazia e il volano di un'Italia Nuova, libera dallo stantio anticlericalismo di maniera e al tempo stesso rispettoso delle “società segrete” senza le quali l'unità nazionale non sarebbe mai nata, come affermò il “fratello” Giosue Carducci, primo scrittore italiano insignito del premio Nobel per la letteratura. Al quale un altro seguì: Salvatore Quasimodo, il 31 marzo 1922 iniziato massone nella loggia “Arnaldo da Brescia” della sua città nativa e iscritto nella matricola del Grande Oriente al numero 65.026. Nove anni dopo fu per breve tempo impiegato all'ufficio tecnico di Imperia, ove conobbe antichi iniziati come GioBatta Dulbecco, nativo di Porto Maurizio, affiliato alla “Popolo Sovrano” di Torino.    Sarà un caso o è perché la libertà non conosce confini, proprio come le chiome degli alberi che stormiscono ai venti, indifferenti alle “barriere” amministrative fra gli Stati?    Come l'Antologia curata da Marzia Taruffi, anche il corposo saggio di Fucini invita a rileggere Calvino pagina dopo pagina, facendo altresì riflettere su un fatto curioso. Quando ridusse il Barone rampante per l'edizione scolastica, l'autore omise, tra altri, il XXV capitolo, tutto incentrato su massoni e massoneria e sull'“idea di società universale” pacifica, liberale e progressiva, incarnata da Cosimo Piovasco di Rondò, supremo dignitario massonico. È comprensibile che la “potatura” sia stata operata per i tempi e la destinazione di quella versione “per ragazzi”. Era il 1959: il passato remoto. Che però a quanto pare non passa. Nel centenario calviniano il quotidiano fondato dal figlio del massone Pietro Scalfari ha proposto in edicola l'edizione scolastica del Barone anziché l'originaria, quasi i lettori odierni siano “rim-bambini” e debbano essere tenuti al riparo dai raggi della Vera Luce. Aldo A. Mola 

DIDASCALIA Copertina del saggio di Luca Fucini La Massoneria nel Ponente Ligure (Taggia, Ed. Antea, 2023). Avvocato, Console onorario di Francia per la provincia di Imperia, già impegnato in delicate missioni militari (anche a Herat, in Afghanistan), Fucini è autore di importanti libri, tra i quali spiccano Il Barone dell'Impero. Tomaso Borea d'Olmo (Albenga, Sorbello, 2000), in cui documenta che Calvino trasse ispirazione dalla sua figura per l'“invenzione” del Barone rampante, Misteri e segreti della Massoneria a Sanremo (Arma di Taggia, Atene, 2010) e Les geométries d'Italo Calvino. Le geometrie di Italo Calvino (Liberfaber, 2020).    L'atteso volume curato da Marzia Taruffi (Camminando sul sentiero dei nidi di ragno. Antologia sulle tematiche calviniane, Genova, De Ferrari) comprende gli undici Racconti vincitori nel 2022 e nel 2023 nella sezione speciale del Premio letterario internazionale “Casinò di San Remo Antonio Semeria” dedicato alla poetica calviniana, «rivissuta in un continuum spazio-temporale, costituito da nuove vicende, sensazioni e immagini, che i premiati hanno reinventato sulla strada che porta a San Giovanni». Il libro è arricchito da saggi di Francesco Sabatini, Marino Magliani e del presidente di LuccAutori Demetrio Brandi.    Presidente dell'UniTre Sanremo e dell'associazione culturale Esprit, componente del Comitato di indirizzo del Corso di laurea in giurisprudenza dell'Università di Genova e vincitrice del Premio Acqui Storia Edito/Inedito con Il Podestà ed Esterina (poi ed. De Ferrari), Marzia Taruffi ha pubblicato saggi storici e romanzi tra i quali L'orologio di Villa Sultana (ed. Golem, 2023, Premio Sapori del Giallo Mondadori).