Un inno nazionale per due città
Da Sindaco Marco Bucci ottenne che la sua Genova venisse meritoriamente elevata a Città dell'Inno nazionale. A sua volta Roberto Mirri, sindaco di Carcare, “città Calasanziana”, ha candidato il suo Comune a pari dignità. Per ottenere l'ambìto riconoscimento il 13 aprile scorso ha anche organizzato un convegno con il patrocinio dell'ANCI Liguria. Presenti la giornalista Bruna Magi, uno storico e autorità militare e civili, il rappresentante del Consiglio comunale di Genova assicurò l'attenzione della Superba al desiderio di Carcare. Ma quali sono le ragioni del contendere? Ne scrive il filologo e critico letterario Massimo Castoldi in “L'Italia s'è desta. L'inno di Mameli: un canto di pace” (ed. Donzelli, luglio 2024), un libro di rara dottrina, pacato e aperto al confronto, proprio come auspicabile in un Paese che deve mettere da parte ciò che divide e puntare su ciò che unisce. È anche la via maestra per indurre i cittadini a riconoscersi nelle Istituzioni e, quando è il momento, a recarsi alle urne per dire la loro e farle sentire meno sole mentre sull'orizzonte incombono tempeste al cui confronto quelle meteorologiche sono gravi ma rimediabili.
Un libro innovativo
Il saggio di Castoldi è scandito in cinque atti, come una tragedia classica: la nascita del Canto Nazionale; l'esame filologico di ogni sua strofa, di ciascun verso e delle singole parole, “vivisezionate” alla luce delle tante interpretazioni che ne sono state proposte nei circa 170 dalla sua apparizione; la sua fortuna dall'Unità alla Grande Guerra; la distorsione che ne fece il fascismo (anche a opera di Giovanni Gentile); la riscoperta tra anti-fascismo e resistenza, e il suo lento cammino, tra riserve d'ogni genere, sino alla proclamazione per legge a inno nazionale. Nell'impossibilità di dar conto nei dettagli di ogni pagina di questo importante lavoro, fermiamo l'attenzione sui suoi pregi principali e avanziamo qualche osservazione di merito e di metodo, per arrivare a una proposta concludente. Della vita di Goffredo Mameli, da Castoldi indicato come autore indiscutibile del Canto, non v'è nulla da aggiungere a quanto acclarato sin dagli scritti che lo ricordarono poco dopo la sfortunata morte per la ferita riportata da fuoco amico nella difesa di Roma il 6 luglio 1849. L'eroe morì tre giorni dopo la Repubblica, travolta dai francesi inviati da Luigi Napoleone, principe-presidente, “fosco figlio di Ortensia”, per spazzare via Mazzini, Saffi e Armellini e spianare la via al ritorno di Pio IX, papa-re. Alla morte, il ventiduenne Goffredo era ormai una gloria nazionale, un campione della lotta per l'unità. Assistito dal medico Agostino Bertani, visitato ripetutamente da Giuseppe Mazzini, che lo confortò dinnanzi all’ormai indispensabile amputazione della gamba per fermare la cancrena, Mameli era un simbolo. Occorreva sottrarne la salma allo scempio da parte di nemici. Provvide il padre scolopio Raffaele Ameri, che gli amministrò il viatico della buona morte. Goffredo morì nella fede degli avi, per nulla in conflitto con la scelta patriottica. Anche la ricostruzione delle prime uscite del Canto nazionale nel dicembre 1847, in occasione della tradizionale processione al Santuario di Nostra Signora di Oregina (Genova) non aggiunge molto a quanto a suo tempo narrato da Michele Giuseppe Canale, da Anton Giulio Barrili, letterato, massone, allievo del collegio calasanziano di Carcare, e dai pochi altri che precedettero la sontuosa edizione nazionale delle Opere di Mameli, curata da Arturo Codignola nel centenario della nascita. Premesso che non esiste il manoscritto inviato da Mameli a Michele Novaro affinché lo musicasse (nell'eccitazione questi gli rovesciò sopra la lucerna, che lo bruciò), Castoldi insiste su due concetti chiave: il Canto mameliano è espressione di unità e di libertà, di pace e di fratellanza, e venne scritto a Genova sotto influssi di ideali mazziniani e repubblicani. La sua “fortuna” fu presagita dal futuro cavouriano Giuseppe Massari: per lo splendore delle immagini, per la novità originale del concetto, per il vigore del sentimento o per la naturale e spontanea armonia del ritmo, la poesia mameliana vinceva al paragone con tutte le altre simili e sarebbe sopravvissuta alle ingiurie del tempo e alla dimenticanza dei secoli. Massari lo aveva ascoltato poche sera prima e ne era rimasto profondamente commosso.
Un Canto guerriero
Riconosciuti al saggio di Castoldi tutti i meriti che gli sono dovuti, alcune perplessità rimangono. Riesce difficile, se non impossibile, catalogare “Fratelli d’Italia” quale canto di pace, come invece recita il sottotitolo del libro. A parte la rievocazione dell'Elmo di Scipio (“mito da panche di scuola”, secondo Giosue Carducci), la Vittoria “schiava di Roma” e lo spirito di rivolta contro l'Austria, Aquila spennata, resta che la liberazione dal dominio straniero e l'“unione” (giobertiana, non l'“unificazione” mazziniana) non potevano essere conseguite pacificamente, con invocazioni suasorie. Già Giacomo Leopardi nella “Canzone all'Italia” aveva esclamato: “L'armi, qua l'armi!”. Occorrevano società segrete, cospirazioni, insorgenze, moti, rivoluzioni, una guerra e forse non una sola, sacrifici, insomma, sull'esempio di Francesco Ferrucci, di Giovanni Battista Perasso (“Ballilla”, come si legge in una versione manoscritta attribuita a Mameli), e dei Vespri del 1282, che si sostanziarono nel feroce eccidio dei francesi da parte dei siciliani “feriti nell'onore”. Un'altra indispensabile constatazione s'impone. Il Canto Nazionale non contiene nessun riferimento né al pensiero autentico di Mazzini, né alla Repubblica. Esso invita all'unione e all'amore fraterno, fondamento della liberazione. A lettura terminata, tornano dunque prepotenti gli interrogativi sulla data della stesura del Canto e sulla sua possibile paternità. Molto più che Mazzini vi si rinviene il neo-guelfismo, la cui onda divenne impetuosa con l'elezione di Giovanni Maria Mastai Ferretti al soglio di Pietro con il nome di Pio IX. Né si può obiettare che la guerra fosse incompatibile con il magistero pontificio. Tutt'altro. A parte le crociate, di cui la Chiesa andava orgogliosa, predominava (e lo sarebbe stato sino a ieri) il principio della “guerra giusta”. Contro gli eretici e contro gli infedeli e per la difesa del papa. Se ne fece interprete il generale Herman Kanzler il 20 settembre 1870, quando ordinò la difesa a oltranza contro l'irruzione delle truppe italiane, che infatti registrarono un numero di morti e feriti superiore a quello degli avversari, come sempre accade a chi assale senza impiegare armi più micidiali di quelle usate dai difensori. Nell'assalto, fanti e bersaglieri usarono i fucili di ordinanza, come i pontifici. Avessero continuato a cannoneggiare avrebbero lamentato meno perdite. Ma per motivi politici non dovevano infierire.
Mameli-Canata: una congiunzione astrale
Fermo restando che i “fatti” evocati dal canto Nazionale riguardano il 1846 mentre il 1847 vi è del tutto taciuto, non pare peregrino ripetere che il testo può essere frutto del padre scolopio Atanasio Canata. Già docente di Giovanni Battista Mameli, padre Canata, focoso patriota, come attestano i suoi volumi, ebbe a fianco Goffredo quando questi gli venne recato in visita a Carcare da padre Ameri. Non sorprende, perciò, che il testo non contenga alcun cenno polemico nei confronti della Chiesa romana. Come Castoldi osserva, vi convergono il pensiero di Gioberti e quello di Mazzini. Perciò, egli osserva, «una suggestiva tradizione orale, ben radicata a Carcare, ritiene che proprio a padre Canata si debba la prima paternità dell'inno rivisto ed elaborato poi dal giovane allievo, a Carcare, prima del ritorno a Genova, nel settembre del 1847, per consegnarlo alla storia. Nulla lo esclude ma nulla lo può confermare». Non solo: «Che una prima ideazione di spunti ispiratori del testo sia stata scritta da Canata lo possiamo certamente ipotizzare, ma non dimostrare.» E si può anche riconoscere che al canto attribuito a Mameli è avvenuto come per altri “testi popolari”, cioè «la convergenza di più autori nella loro genesi e lungo la loro trasmissione», «un fatto più frequente di quanto si possa pensare». Parole sagge, che meritano di essere evidenziate e persino sottoscritte, anche perché ribadite da Castoldi a proposito dell'identificazione di Balilla con «un Giovanni Battista Perasso», senza certezze documentarie ma sorretta da «un’ampia tradizione». «La tradizione orale – chiosa Castoldi – se pure non confermata , ha il suo peso nella ricostruzione storica.» Proprio come propongono i padri scolopi, il sindaco di Carcare, Roberto Mirri, e qualche studioso del Canto, senza alcun pregiudizio antimameliano. Rimane suggestivo il primissimo verso dell'Inno: «E Sorta dal feretro», poi omesso a vantaggio di «Evviva l’Italia» e sostituito dal definitivo «Fratelli d’Italia». La tomba quale scaturigine perpetua di vita rimanda ai simboli irrinunciati da altri “Fratelli d'Italia” e, per stare al Risorgimento, rinvia all'Inno di Garibaldi, che sia in quell'epoca sia nell'immediato secondo dopoguerra a lungo contese al Canto “mameliano” la palma di inno nazionale. Esso, va ricordato, suona: «Si scopron le tombe, si levano i morti/i martiri nostri son tutti risorti.» Quando le sinistre lo propugnarono quale inno della Repubblica lo fecero pensando alle formazioni partigiane garibaldine e all'adozione di Garibaldi come emblema per la campagna elettorale del 1948, quando il Fronte popolare comprese non solo i socialcomunisti ma anche l'ala sinistra dell'antico Partito d'azione e molti massoni che temevano l'avanzata del clericalismo. Furono mesi di contrapposizioni destinate a riverberarsi a lungo, sino a rimettere in discussione il voto del Partito comunista (con la significativa eccezione di Concetto Marchesi e di Teresa Noce) a favore dell'inserimento in Costituzione dei Patti Lateranensi.
Il Fratello Facchinetti
Un'ultima osservazione, quasi nota a pie' di pagina del libro di Massimo Castoldi, riguarda Cipriano Facchinetti, il ministro repubblicano al quale si deve la resurrezione del Canto Nazionale, avviato a divenire inno ufficiale dello Stato d'Italia nel 2017, settant'anni dopo l'esecuzione del IV novembre 1946. Perché non ricordare che egli era stato iniziato massone a Varese in una loggia del Grande Oriente d'Italia (matricola 34.340) e che da massone aveva militato in Italia e nell'esilio anche con cariche di rilievo? Castoldi non lo ricorda, ma, come si legge nel documento pubblicato da “Il Bagatto” (anno IV, n. 3, ottobre 2024), Facchinetti fu Grande Oratore del Grande Oriente d'Italia nell'esilio (1931 e seguenti), senza mai deflettere dalla sua linea: contrario, cioè, alla “corsa al rosso sempre più rosso”, da lui sempre deplorata. Proprio alla luce del saggio di Castoldi vi è motivo di ritenere che Marco Bucci, nuovo presidente della Giunta della Regione Liguria, possa assecondare il desiderio di Carcare di figurare a sua volta come “città dell'inno nazionale”: frutto di un'opera corale, tanto meglio se partecipata da quei padri calasanziani che formarono patrioti sia a Carcare, sia a Savona, ove ebbero allievo Luigi Einaudi, sia al San Giovannino di Firenze ove crebbe Giosue Carducci, poeta, scrittore e massone a sua volta. In attesa che le infrastrutture facciano il loro corso e tornino ad allacciare Piemonte e Liguria si può cominciare dallo spirito del Canto Nazionale: “uniamoci, amiamoci...”.
Aldo A. Mola
BOX (comporre in corpo minore) CIPRIANO FACCHINETTI, IL MINISTRO CHE NEL 1946 VOLLE “FRATELLI D'ITALIA” INNO NAZIONALE, ALMENO PROVVISORIO. AVVERTENZA PER I GRAFICI: LA FOTOGRAFIA DI CIPRIANO FACCHINETTI VA NELLA PARTE GENERALE, QUELLA A COLORI VA NEL BOX. A chiedere l'esecuzione di “Fratelli d'Italia” quale inno provvisorio dello Stato fu Cipriano Facchinetti, ministro della Difesa del III governo presieduto dal democristiano Alcide De Gasperi. Era il 12 ottobre 1946. Per effetto del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946, il 18 giugno la Corte Suprema di Cassazione aveva comunicato l'esito del voto. La repubblica era prevalsa con un modesto scarto di voti: 12.700.000 su 25.000.000 di votanti e 23.400.000 voti validi. Una minoranza, rispetto ai 28 milioni di aventi diritto al voto. Ma tutti i passaggi fondamentali della storia d'Italia sono sempre stati decisi da voti “di minoranza”, a conferma che i cittadini eleggono deputati ma poi questi non hanno alcun vincolo nei confronti di chi li ha eletti con voto segreto. Malgrado discussioni e riserve di vario genere, il 28 giugno l'Assemblea Costituente, a stragrande maggioranza repubblicana, aveva eletto presidente provvisorio Enrico De Nicola, monarchico, napoletano, già senatore del Regno. L'Italia era alle prese con la ricostruzione postbellica, resa più difficile dalla divisione del “mondo” in due blocchi: “occidentali” da un canto e “comunisti sovietici” dall'altro. Mentre rimanevano in discussione le sorti delle ex colonie (Roma sperava di ottenere almeno una solida permanenza in Libia), l'Italia era in attesa del Trattato di Pace, le cui condizioni le vennero comunicate il 10 febbraio 1947. Era assillata da urgenze angoscianti, a cominciare da rifornimenti alimentari, riorganizzazione della produzione agricola e industriale, adeguamento di salari e stipendi alla svalutazione del potere d'acquisto della moneta, rilancio dei risparmi. In alcune regioni continuava a soffiare impetuoso il “vento del nord”, il mito della “seconda ondata” del partigianato combattente contro la sua immediata smobilitazione e il fallimento dei “consigli” di fabbrica, di cascina e delle aziende private, mentre non era mai stata presa in considerazione quelli di enti pubblici. In sintesi, il cammino era tutto in salita, anche perché a quello del nord rispondeva, non meno forte, il “vento del sud”: la massa di voti a favore della monarchia nell'Italia meridionale e del volatile ma eloquente “Uomo Qualunque” fondato da Guglielmo Giannini. In molte province, dalla Campania alla Sicilia, proprio dove lo Stato aveva ripreso a funzionare con anni di anticipo rispetto a quelle dominate dalla Repubblica sociale italiana, il 70-80% dei votanti si era espresso a favore di Casa Savoia. Il governo non poteva fingere che non fosse accaduto. Non aveva motivo di esasperare i contrasti. Però alcuni nodi presto vennero al pettine. Il 4 novembre 1946 (che all'epoca si scriveva IV, come l'anniversario di Porta Pia era romanamente ricordato “XX Settembre”) bisognava celebrare la Vittoria, cerimonia di unione degli italiani, sulla scia del Milite Ignoto: la Festa voluta e celebrata nel 1921 da Vittorio Emanuele III, sommo sacerdote del rito memoriale più partecipato della lunga storia d'Italia. Per di più quel giorno i militari dovevano pronunciare il giuramento di fedeltà allo Stato. Con quale musica suggellare l'evento? Lo dicono i Verbali del consiglio dei ministri, pubblicati a cura di Aldo G. Ricci. Il ministro della Difesa propose, appunto, “Fratelli d’Italia" e l'ebbe vinta su altre ipotesi (“Il Piave” di Emanuele A. Mario) perché lo propose come soluzione provvisoria. All'epoca lo Stato non aveva ancora né bandiera (il tricolore senza scudo sabaudo né altro nel bianco venne poi approvato dalla Costituente, mentre il suo emblema divenne definitivo solo nell'aprile 1948, fuori tempo massimo), né, quindi una musica alternativa alla Marcia Reale di Giuseppe Gabetti. * * * * * Ma chi era Cipriano Facchinetti? Di modesta famiglia, sin da ragazzo repubblicano tutto d'un pezzo, a 21 anni assunse la direzione del foglio garibaldino “Cacciatore delle Alpi” di Varese. Irredentista e divorzista, inizialmente contrario alla guerra contro l'impero turco-ottomano per la sovranità su Tripoli e Bengasi deliberata dal governo presieduto da Giovanni Giolitti su precise direttive di Vittorio Emanuele III, in secondo tempo ne condivise l'obiettivo. Interventista e volontario nella Grande Guerra, gravemente ferito (perse l'occhio sinistro, mentre il destro rimase in parte compromesso), decorato di Medaglia d'Argento al Valor Militare, con il socialista riformista Leonida Bissolati promosse la Famiglia italiana della Lega universale per la Società delle libere nazioni e, di seguito, per la Società delle Nazioni, su progetto massonico. Fondatore con il repubblicano e futuro ministro della Guerra Gasparotto dell'Associazione Nazionale Combattenti, contrappose “l'Italia del Popolo” al “Popolo d'Italia” fondato da Benito Mussolini nei cui confronti fu dapprima diffidente poi avversario intransigente. I repubblicani rimasero però frantumati in correnti e gruppi oggettivamente poco influenti nell'Italia del dopoguerra quando il Paese aveva bisogno di un governo stabile, garantito dalla “legge Acerbo” e, nell'aprile 1924, dalla vittoria della Lista nazionale allestita dal Partito fascista. Le opposizioni si spartirono il residuo terzo dei seggi deputatizi. Eletto alla Camera nella circoscrizione di Trieste, il 3 giugno Facchinetti pronunciò un discorso di netta opposizione al governo Mussolini. Dinnanzi all'“affare Matteotti” si schierò per l'astensione dall'Aula (“Aventino”), dalla storiografia giudicato un errore strategico, e nel novembre 1926 fu dichiarato decaduto da deputato per assenza ingiustificata alle sedute. Espatriato in Svizzera ove venne raggiunto dalla moglie e dalle figlie, si stabilì a Parigi ove ebbe ruolo eminente nella Concentrazione antifascista, come segretario del Partito repubblicano italiano (Pri) e della Lega italiana dei diritti dell'uomo, di matrice massonica. Inizialmente fautore della convergenza tra Pri e “Giustizia e Libertà” fondata da Carlo Rosselli dopo l'evasione con Emilio Lussu e il massone Francesco Fausto Nitti dal confino di polizia a Lipari, nel 1936 Facchinetti concorse con Mario Angeloni alla fondazione del Battaglione “Garibaldi” poi comandato da Randolfo Pacciardi, repubblicano, massone e, come lui, anticomunista. Fondato il periodico “Giovane Italia” con sussidi degli USA, dopo varie vicissitudini e il placet di Mussolini al suo rientro in Italia (anziché da “arrestare” divenne “da sorvegliare”), rimase tra Franci e Svizzera sino al dicembre 1944 quando il presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi ne richiese il rientro per consolidare politicamente il governo con personalità quali Luigi Einaudi, Giovanni Battista Boeri (massone), Luigi Gasparotto, Colonnetti, Tommaso Gallarati Scotti e altri. Nominato componente della Consulta nazionale in conto del Partito d'azione (agosto 1945), nel 1946 aderì al Pri nel quale confluì la Concentrazione democratica repubblicana guidata da Ferruccio Parri e da Ugo La Malfa, già azionisti. Ministro della Difesa nel governo De Gasperi formato il 13 luglio 1946 si schierò per l’esclusione dei social-comunisti dall'esecutivo. Eletto deputato per il Pri nel collegio unico nazionale (18 aprile 1948) rimase sino alla morte punto di riferimento della democrazia senza aggettivi. Nel 1928 aveva formulato con gli spagnoli Miguel de Unamuno ed Eduardo Ortega y Gasset il progetto di una Federazione europea democratica. Per quanto militasse sul versante opposto nella scelta della forma istituzionale, si può dire che anche per lui valeva il motto di Umberto II “Italia innanzitutto”, condiviso dai molti repubblicani apprezzati da Vittorio Emanuele III cha a sua volta vide nell'intervento dell'Italia nella Grande Guerra il coronamento del Risorgimento. La sua figura mostra quanto la storia d'Italia sia una sequenza di segmenti che, a zig-zag, ha condotto all'unità nazionale e all’affermazione dei principi della libertà, della giustizia e del progresso sociale. L'Album dei Canti Patriottici (illustrazione allegata) vede Fratelli d'Italia proposta da una Cantante con scudo sabaudo sul petto. Nell'altra illustrazione Cipriano Facchinetti. Sul ruolo di Facchinetti nella Massoneria v. “Il Grande Oriente d'Italia dell'esilio, 1930-1938”, pref. di Armando Corona, ed. Erasmo, Roma, 1983. Aldo A. Mola