Come il vento di Giovanni Evangelista, la Storia «soffia dove vuole» Come abbiamo ricordato lo scorso 10 agosto, su direttiva di Vittorio Emanuele III e ordine di Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore generale, il 12 agosto 1943 il generale Giuseppe Castellano partì da Roma in treno alla volta di Lisbona per intavolare trattative armistiziali con il comando militare anglo-americano. Dopo breve sosta a Madrid (15 agosto), giunto a Lisbona il 16, finalmente la sera del 19 venne ricevuto con l'interprete Franco Montanari. L'ampia delegazione nemica lo ricevette freddamente e gli consegnò le condizioni di resa. L'Italia doveva accettarle senza obiezioni entro il 30 agosto. In caso contrario gli Alleati avrebbero ripreso devastanti bombardamenti a tappeto. Fornito degli strumenti per comunicare con i vincitori, il 23 Castellano prese il treno per Roma. Vi giunse il 27. Gli anglo-americani avevano acceso un lumino di speranza negli italiani con la Dichiarazione di Quebec (18 agosto.) Nei due giorni seguenti il rientro di Castellano il maresciallo Badoglio, capo del governo, Ambrosio, il duca Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, e il generale Giacomo Carboni, comandante del corpo d'armata schierato in difesa di Roma, valutarono con lui le durissime condizioni della resa. Informato il 29 agosto dell'esito della missione a Lisbona, Vittorio Emanuele III ne colse l'aspetto fondamentale: proprio mentre imponevano la resa gli anglo-americani chiamavano a risponderne il “governo del re”. Quindi l'integrità dello Stato d'Italia era salva, quale garante della loro esecuzione. Nell'impossibilità di ribaltare il corso della storia e nell'urgenza di rompere con i tedeschi, ormai aggressivamente dilaganti nel Paese, concluse che andava sottoscritta. Fu la sua terza decisione di fondamentale importanza per le sorti dell'Italia in 36 giorni. Con ventiquattro ore di ritardo su quanto imposto dagli anglo-americani nell'incontro di Lisbona (dilazione sanata dall'avviso via radio del suo imminente arrivo in Sicilia), il 31 agosto Castellano partì con Montanari per l'aeroporto di Termini Imerese. Gli Alleati lo intercettarono in volo e lo scortarono. Trasferito al loro campo presso Cassibile, illustrò il “memorandum” approntato dal ministro degli Esteri Raffaele Guariglia. Come già da lui detto a Lisbona, il governo aveva bisogno che l'annuncio della resa coincidesse con un massiccio sbarco degli Alleati (almeno quindici divisioni) a Nord di Civitavecchia e con il lancio di una divisione di paracadutisti nei pressi di Roma a supporto di quelle italiane schierate a difesa della Capitale e, implicitamente, del vulnerabilissimo Stato della Città del Vaticano. Gli Alleati promisero l'aviolancio di 2.000 uomini e intimarono l'accettazione immediata delle condizioni di resa senza alcuna obiezione. Rientrato in serata a Roma, il 1° settembre Castellano aggiornò Badoglio, Ambrosio e Carboni. Questi dichiarò impossibile la difesa di Roma per carenza di armi, munizioni e carburante, a differenza di quanto da lui affermato in precedenza. Nel pomeriggio il Re sciolse ogni riserva. La resa era l'ineluttabile approdo del cammino intrapreso il 25 luglio. Essa avrebbe avvicinato l'Italia alla meta, lungamente agognata: tornare a fianco degli Stati che ne avevano propiziato la nascita nel 1861 e che nel 1915-1918 l'avevano avuta protagonista della Grande Guerra, vittoriosa sugli imperi centrali proprio grazie all'Italia, che per prima sfondò le linee del nemico e lo volse in fuga. Vittorio Emanuele III (come a suo tempo scritto da Luigi Federzoni) era il Re di Peschiera e di Vittorio Veneto. Seguirono due giorni di confusione. Il 2 settembre, sempre affiancato dal console Montanari, official italian interpreter, e accompagnato dal maggiore Luigi Marchesi, Castellano volò per la seconda volta a Termini Imerese per essere condotto al Fairfield di Cassibile. Poiché, però, si presentò senza la necessarie credenziali, dovette sollecitare ripetutamente Badoglio a ufficializzare la sua missione quale rappresentante del governo. A volte il Maresciallo appariva l'ombra di se stesso. Anche il principe Umberto di Savoia lo notò e ne rimase sfavorevolmente impressionato.
Il dialogo muto tra il Comitato antifascista e Badoglio
Sin dal 1° settembre il Comitato Centrale interpartitico antifascista era informato di quanto stava avvenendo tramite Luigi Rusca, amministratore delegato della casa editrice Mondadori, richiamato alle armi con il grado di tenente colonnello e addetto al Servizio Informazioni Militari. Era massone, secondo Paolo Cacace, che però non adduce prove. «In via del tutto confidenziale – annotò Ivanoe Bonomi nel Diario – (Rusca) mi dice che i messi (sapeva dunque non solo di Castellano, ma anche di Zanussi, di cui già abbiamo scritto NdA) inviati al quartier generale anglo-americano sono tornati con un piano concordato che prevede lo sbarco del “nemico” con la connivenza italiana e i soccorsi del “nemico” a noi appena l'alleato (cioè la Germania, NdA) ci aggredirà per punirci della nostra fellonia.» Per capire meglio situazione e prospettive, Bonomi chiese un colloquio con Badoglio, che però, giustamente allarmato dalla fuga di notizie implicita nelle sue domande, rimase silenzioso, «molto turbato e preoccupato». L'indomani il Comitato centrale di liberazione nazionale (Ccln) invitò quelli locali a «mobilitare gli spiriti perché il popolo e le forze armate siano pronti a rispondere all'appello delle forze democratiche del paese, unite in salda concordia per la salvezza dell'onore e delle idealità della Patria». Senza esserne a conoscenza, il Ccln si allineò alle ipotesi avanzate dalla Dichiarazione di Quebec del 18 agosto, che prevedeva l'azione convergente del governo (e quindi delle forze armate, cioè della monarchia) e del “popolo”, soggetti di storia ancora distinti. Ma chi davvero rappresentavano il Comitato centrale e quelli locali? A distanza di oltre ottant'anni dall'estate del 1943 non si dispone di un censimento probante. I partiti, compresi comunisti, socialisti e democristiani, erano appena albeggianti. La Dichiarazione di Quebec aveva ignorato la Corona. La strumento di resa, invece, evocò il “capo del governo italiano”, che era nominato dal re e rispondeva a lui. Si rivolse quindi all'“Italia”, ovvero al suo “governo”, emanazione del sovrano: autorità e potestà suprema imprescindibile. Vittorio Emanuele III e Badoglio colsero il mutamento di forma e di sostanza della linea prospettata dai vincitori. Essi dettavano i loro voleri a chi aveva il potere formale ed era quindi garante dell'esecuzione del loro diktat. Da giorni i quotidiani d'oltre Atlantico avevano cessato di appellare Vittorio Emanuele III “piccolo re idiota”. Anche gli inglesi avevano messo la sordina ai toni antisabaudi prima prevalenti. Badoglio non tardò a valersi del riconoscimento anglo-americano, in specie nei rapporti con il comitato interpartitico che mirava ad assumere rango rappresentativo nelle decisioni dello Stato. Perciò alle 11 del 4 settembre il sottosegretario alla presidenza, Pietro Baratono, telefonò a Bonomi il divieto di pubblicare l'appello approvato dal Ccln il 2. Dopo un tempestoso colloquio con Badoglio, nel pomeriggio il comitato si rassegnò a soprassedere alla pubblicazione, inopportuna dopo la firma di Cassibile, avvolta nel segreto più assoluto: uno dei pochi conservati nella lunga storia del Paese. In colloqui del 5 settembre Bonomi ebbe assicurazione da parte del ministro della Guerra, Antonio Sorice, che gli anglo-americani si sarebbero attestati sulla linea Volturno-Pescara. Non era quanto i più avevano sperato, ma perdurava l'illusione che sarebbero rapidamente balzati almeno a Roma. «Assolutamente muto» in merito alle domande su accordi segreti con gli Alleati, a Bonomi il ministro Sorice prospettò il timore che i tedeschi, ormai in Italia in forze massicce e presenti nella sola capitale con almeno 8-10.000 uomini, «apparentemente borghesi ma in realtà militari ben addestrati», potessero catturare il re e il governo, una sciagura messa in conto dagli Alleati. Il 7 giunse a Roma il nuovo ambasciatore della Germania, Rudolph Rahn, molto legato a Himmler, e quasi 500 bombardieri angloamericani colpirono duramente il centro di Napoli. La guerra continuava?
Alle cinque della sera..
. Alle 17:15 di venerdì 3 settembre «per il Maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo italiano» Castellano, “Generale di brigata, addetto al Comando supremo italiano”, e Walter B. Smith, maggior generale dell'esercito degli USA e capo di stato maggiore «per Dwight Eisenhower, generale dell'esercito degli USA, comandante in capo delle forze alleate» sottoscrissero le condizioni della resa (surrender) dell'Italia presentate per delega degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e nell'interesse delle Nazioni Unite”. Esse imposero il trasferimento immediato della flotta e degli aerei nelle località designate dal Comandante in capo alleato, con i dettagli di disarmo fissati da lui, la garanzia immediata del libero uso da parte degli Alleati di tutti gli aeroporti e porti navali in territorio italiano, l'immediato richiamo in Italia delle sue forze armate da ogni partecipazione nella guerra e la garanzia che il governo avrebbe impegnato tutte le sue forze per assicurare la sollecita e precisa esecuzione delle condizioni della resa. Oltre a imporre misure di disarmo, smobilitazione e smilitarizzazione, lo strumento di resa informò lapidariamente che il comandante in capo «stabilirà un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate». La 12^ clausola avvertì che sarebbero state trasmesse in seguito «altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario». Queste, invero, erano già state comunicate al generale Zanussi inviato a Lisbona da Roma in assenza di notizie da parte di Castellano. Alla firma presenziarono anche Harold McMillan, ministro residente presso il Quartier generale delle Forze Alleate, Robert Murphy, rappresentante personale del presidente degli USA Franklin D. Roosevelt, tre altri ufficiali alleati e l'interprete Franco Montanari. La resa sancì la sconfitta militare ma salvò lo Stato, come Vittorio Emanuele III ebbe chiaro sin da quando conobbe gli esiti della “missione Castellano”. Ne fu assicurata la continuità e venne scongiurata la debellatio, sorte nel 1945 toccata alla Germania, frantumata in zone di occupazione e successivamente rimasta divisa in due sino al 1990 e in parte sottoposta al duro regime comunista filosovietico imperante anche a Berlino-est sino alla riunificazione dei tedeschi in un unico Stato. Non solo. La 2^ clausola della resa previde che l'Italia avrebbe fatto «ogni sforzo per negare ai tedeschi tutto ciò che potrebbe essere adoperato contro le Nazioni Unite»: implicava un suo ruolo attivo a favore delle Nazioni Unite da parte dell’Italia nell'ambito della guerra in corso. Come auspicato da Castellano e antiveduto dal re, era il germe di storia ventura. L'Italia non era più “indipendente”, ma rimaneva uno Stato capace di auto-governarsi. A margine della firma si svolse una riunione presieduta dal generale inglese Harold Alexander, durata sino alle 7 mattutine del 4, di somma importanza ma trascurata da tante opere sull'“8 settembre”. Mentre la Dichiarazione di Quebec aveva precisato che «le condizioni di armistizio non contemplano l'assistenza attiva dell'Italia nel combattere i tedeschi», a Cassibile Alexander pragmaticamente affermò: «Più l'Italia può assistere le forze alleate contro il comune nemico più possono essere favorevoli i termini finali.» Dette quindi per scontata la collaborazione “sul terreno”. Anzi, elencò le azioni indirette e dirette che gli italiani avrebbero potuto/dovuto compiere nell'interesse comune. Non dovevano limitarsi a fornire informazioni e a compiere sabotaggi. Tra i compiti specifici indicò «l’occupazione di Roma, con l'oggetto di salvaguardare la capitale del paese, la vita di sua maestà, il governo del maresciallo Badoglio, l'arresto del movimento tedesco in Italia» e il dispiegamento di un cordone difensivo a nord di Roma per impedire ai tedeschi di mandare rinforzi verso sud. La cosa più importante a suo avviso era «paralizzare le ferrovie». Alexander e Castellano si confrontarono a lungo sui termini concreti della collaborazione. Forse nel ricordo dei Mille di Garibaldi, l'inglese si disse convinto che «i contadini italiani armati combatterebbero bravamente la guerriglia organizzata» e domandò se «giovani leaders più arditi» li avrebbero capitanati. Non aveva percezione delle effettive condizioni politiche, militari e psicologiche degli italiani, fiaccati da tre anni di guerra, dal razionamento dei beni di consumo e desiderosi anzitutto di pace. A sua volta il commodoro britannico Royer Dick indicò le mete delle navi italiane: da La Spezia a Bona e da Taranto a Tripoli. I grandi transatlantici dovevano far rotta verso Gibilterra e da lì verso l'America. Come già convenuto con Smith, Castellano prospettò la resa delle truppe italiane disseminate nel Dodecanneso. Particolare attenzione fu dedicata ai tempi e ai modi della proclamazione dell'armistizio. Alexander propose che il Re e Badoglio registrassero l'annuncio della resa su disco da consegnare agli Alleati. Così, se essi (come prevedibile) fossero caduti nelle mani dei tedeschi, il capo di stato maggiore generale Ambrosio avrebbe dovuto parlare a loro nome da un’emittente italiana e diffondere le registrazioni. E' stato scritto che tra il 7 settembre e la mattina dell'8, senza alcuna spiegazione, Ambrosio fece la spola tra Roma e Torino proprio per consegnare alla sede Eiar di Torino il disco con la registrazione della dichiarazione di resa. Quanto al giorno dell'annuncio, appositamente interpellato il generale USA Rooks nulla disse. Si limitò a descriverne i modi: esso sarebbe stato comunicato da parte italiana alle 18.30 di un giorno “X”, preceduta di un quarto d'ora dal generale Eisenhower. Castellano ripeté quanto già detto a Lisbona: per gli italiani un preavviso di poche ore era del tutto insufficiente. Occorrevano parecchi giorni, affinché potessero regolarsi con i tedeschi, la cui eventuale resa agli italiani andava esclusa, mentre secondo Alexander, «non si doveva rimandare nessuna opportunità di uccidere i tedeschi». Per loro sicurezza gli anglo-americani trattennero Castellano in Sicilia. Il 5 settembre consentirono invece il rientro a Roma del maggiore Marchesi e del pilota Vassallo, ai quali Castellano affidò un messaggio per Ambrosio. Vi ipotizzò che la resa sarebbe stata ufficializzata tra il 10 e il 15 settembre, più probabilmente il 12. Ma questa era una valutazione del tutto sua.
Che fare?
Lo stesso giorno della resa, dopo pesantissimo bombardamento aeronavale, gli anglo-americani iniziarono a sbarcare in Calabria, tra Villa San Giovanni e Reggio, lasciando intendere che da lì sarebbero avanzati verso nord. In realtà l'attacco all'estremo litorale calabro fu un diversivo rispetto a quello sulla costa salernitana, operazione minore nell'ambito della già avviata preparazione del gigantesco sbarco in Normandia programmato per la tarda primavera del 1944 e poi attuato agli ordini di Eisenhower. Consapevole di aver fatto cadere gli italiani nella trappola, il Comandante in capo anglo-americano presenziò alla resa ma non sottoscrisse lo strumento. D'altra parte Castellano era lontanissimo dall'essere suo pari grado. Definita uno “sporco affare” sotto il profilo della lealtà, l'inganno sullo sbarco principale e sulla data dell'annuncio, destinata a mettere in grave difficoltà la Corona e il governo, rientrava nell'ottica spietata della guerra. Era stata l'Italia mussoliniana a dichiararla contro gli USA nel dicembre 1941, sulla scia del Giappone e della Germania, senza alcuna probabilità di successo e contro gli interessi della vasta e influente comunità italo-americana, a lungo larga di plausi al regime mussoliniano e inorgoglita dalle sue tante imprese, come la celebre crociera atlantica capitanata da Italo Balbo. Rimane senza risposta la domanda fondamentale: precipitando l'Italia in gravissima crisi gli Alleati fecero l'interesse loro o avrebbero avuto maggiori vantaggi se essa avesse rotto con la Germania senza lo sbandamento dell'8-12 settembre, seguito dalla “liberazione” di Mussolini da parte dei tedeschi? Non fu la resa in sé a far deflagrare l'Italia. Furono i modi e i tempi del suo annuncio, che la presero alla gola. Nell'imminenza della sua pubblicazione si svolse un conciliabolo (dalla narrazione spacciato come “consiglio della Corona”, organo mai esistito) con la presenza di Badoglio, Ambrosio, alcuni ministri, e Carboni, focosamente contrario alla sua accettazione. Marchesi che fece rompere gli indugi. Segnalò che gli Alleati avevano filmato la firma di Cassibile, pertanto irrevocabile. Mentre 500 bombardieri stavano per decollare e colpire Roma, molti e fondamentali interrogativi erano senza risposta. Come avrebbero reagito i tedeschi? L'annuncio della resa, fatto da Eisenhower da Radio Algeri alle 17:30 (18:30 di Roma) dell'8 settembre, cambiò tutto. Di ora in ora la situazione divenne più critica e confusa. Paolo Puntoni confidò al Diario che “soltanto la gravità del momento” lo spingeva a “non abbandonare il Re nei confronti del quale non tutti agiscono lealmente”. A giudizio del governo, condiviso dal re, non rimase che lasciare immediatamente la capitale e raggiungere un lembo d'Italia ancora libero da anglo-americani e non occupato dai tedeschi, a differenza di Roma. “Le forze attaccanti – disse a Bonomi il maresciallo, “triste e accasciato” - sono prevalenti per numero e soprattutto per armamento. Una resistenza sarebbe vana: prolungherebbe di poco l'agonia della città e recherebbe inutili danni”. Come aveva insegnato Carl von Clausewitz, la ritirata nel proprio territorio non è una fuga: fa parte delle regole della guerra.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA.: RAFFAELE GUARIGLIA, barone di Vituso (Napoli, 18 febbraio 1889-Roma, 25 aprile 1970) entrò in diplomazia nel 1909 e fu in servizio in molte capitali (Parigi, Londra, San Pietroburgo, Bruxelles), sino al dopoguerra, quando prese parte alla “pace di Losanna” con l'impero turco-ottomano (1922-1923). Ambasciatore a Madrid (1932-1935) mirò a influire in senso moderato sul governo della Repubblica spagnola. Dopo altre missioni a Buenos Aires e Parigi, fu assegnato alla Santa Sede sino quando vi venne nominato ambasciatore Galeazzo Cino (Nella fotografia, Guariglia, primo da sinistra, in Vaticano). Ambasciatore in Turchia fu nominato ministro degli Esteri nel governo Badoglio (25 luglio), ma giunse a Roma solo il 30, quando i tedeschi stavano compiendo l'operazione “Alarico” per prendere l'Italia sotto controllo punitivo. Nell'incontro a Tarvisio con il ministro degli Esteri germanico von Ribbentrop dette la parola d'onore che l'Italia sarebbe rimasta a fianco della Germania. Concordò la missione di Castellano in Portogallo. Il 9 settembre 1943 rimase a Roma. Riparò nell'Ambasciata di Spagna preso la Santa Sede. Nel 1944 fu nominato ambasciatore a Parigi. A risposo su sua richiesta dopo l'avvento della Repubblica, ebbe la presidenza della Commissione per la pubblicazione dei Documenti Diplomatici Italiani. Senatore per il Partito Monarchico Italiano (1954-1958) e presidente dell'Unione Monarchica Italiana, fece parte della Consulta dei Senatori del Regno voluta da Umberto II. Pubblicò un importante volume di “Ricordi, 1922-1946”, Napoli. ESI, 1949.