Perché il 25 luglio 1943 Vittorio Emanuele III nominò capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio (Grazzano Monferrato, 28 settembre 1871 - 1° novembre 1956) anziché il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore (Torino, 28 luglio 1879-Alassio, 20 novembre 1958) o il glorioso ma anziano maresciallo Enrico Caviglia (Finale Marina, 4 maggio 1862 - 22 marzo 1945)? Al riguardo sono state ricamate molte narrazioni. Comandante supremo solo dal 1° febbraio 1943, Ambrosio era ancora poco noto in Italia e meno ancora all'estero. Secondo una spiegazioni suggestiva, il re scartò Caviglia perché si sarebbe detto che con lui “si tornava alla Massoneria”. L'affermazione è poco convincente. Caviglia era cattolico praticante e quindi, all'epoca, incompatibile con la “Setta Verde”. Benché avesse motivo di non fidarsene ciecamente, il Re optò per Badoglio. Lo sapeva apprezzato all'estero, in specie dai francesi, e non ne ignorava i contatti con gli inglesi. Secondo un documento nel 1982 pubblicato da Elena Aga Rossi, il maresciallo aveva rivelato di non ritenersi più vincolato a Casa Savoia e di essere pronto a sostituire Mussolini. Come il re intuiva, il premier britannico Winston Churchill prese nota. L'annuncio del nuovo governo contenne l'infelice formula “La guerra continua”, scritta da Vittorio Emanuele Orlando. La domanda assillante però era: sino a quando? Perché? Se quella in corso era una “guerra fascista”, per di più a fianco della Germania nazista, perché continuarla? Ormai il nemico era in casa, mentre il grosso dei militari italiani non era in patria ma in terre lontane o già nei campi di prigionia del nemico.
Un Castellano in cerca del Comando anglo-americano
Tutte le fonti documentarie, la memorialistica e persino la narrativa (valgano d'esempio “Primavera di bellezza” di Beppe Fenoglio e i ricordi autobiografici di Italo Calvino che, rientrato a Sanremo dal servizio militare a Mercatale di Vernio, con alcuni amici vagheggiò la costituzione di un improbabile “movimento universitario liberale”) descrivono l'Italia dell'agosto 1943 come Paese “in sospeso”. Sottoposti a massicci bombardamenti anglo-americani sulle città più importanti (Napoli, Milano, Torino, Foggia e, per la seconda volta, anche Roma) gli italiani anelavano alla pace. Il governo si trovò tra la dura incudine delle divisioni germaniche irrompenti dal Brennero in assetto di guerra col pretesto di soccorrerlo e il pesante martello degli anglo-americani. Ignorando che nella conferenza di Casablanca (14-26 gennaio 1943) le Nazioni Unite avevano deciso che i vinti dovevano arrendersi “senza condizioni”, il 7 agosto Vittorio Emanuele III autorizzò l'avvio di contatti con gli “Alleati” per approdare a trattative armistiziali. Come scrisse in un'ampia relazione ad Ambrosio (datata da Algeri il 15 dicembre), tra fine luglio e inizio agosto il generale Giuseppe Castellano si offrì di raggiungere “in qualsiasi modo” Eisenhower, comandante delle forze anglo-americane, “per far conoscere le nuove intenzioni dell'Italia dopo la caduta del fascismo”, a cospetto della “già palese occupazione da parte dei tedeschi”. Castellano (Prato, 1893 - Porretta Terme, 1977) nel 1942 aveva coronato una brillante carriera militare con la nomina a generale di brigata, il più giovane dell'esercito italiano. Svolse un ruolo fondamentale il pomeriggio del 25 luglio, a margine del gelido colloquio tra il re e Mussolini. All'improvviso, la mattina del 12 agosto Ambrosio gli ordinò di partire il giorno stesso per Lisbona per contattare il comando anglo-americano. In un incontro fortuito con il ministro degli Esteri Raffaele Guariglia il generale percepì che questi non nutriva molta fiducia nella sua missione. Gli raccomandò solo di non farsi scoprire e di chiedere agli Alleati di sbarcare a nord di Roma per metterla al sicuro dai tedeschi. Di lunga e vasta esperienza Guariglia riteneva che le trattative dovessero rimanere riservato dominio del corpo diplomatico. Non sapeva che per gli anglo-americani la resa dell'Italia non era più una questione “politica” – e quindi diplomatica – bensì prettamente “militare”. Contrariamente a quanto si pensava a Roma, l'Italia non aveva proprio nulla da “trattare”. Doveva solo “eseguire” le condizioni che le sarebbero state dettate. Privo di credenziali, a parte l'invito a riceverlo scritto su un biglietto dall'ambasciatore britannico in Vaticano, Francis Osborne D'Arcy, al suo collega a Madrid, Samuel Hoare, Castellano partì con passaporto intestato a tale Raimondi, funzionario del ministero di Scambi e Valute. Poiché non conosceva una parola di inglese si valse per interprete di Franco Montanari, nipote di Badoglio e console italiano a Lisbona. Il viaggio fu avventuroso. A Genova il loro vagone rischiò di essere dirottato verso Torino, donde sarebbe proseguito in direzione Bardonecchia-Modane: una linea interrotta da bombardamenti. Per buona sorte, il treno proseguì invece verso la Costa Azzurra. Partito da Roma il 12, Castellano giunse a Madrid il 15. Profittò di una sosta di poche ore per farsi ricevere dall'ambasciatore britannico Samuel Hoare. Dal 1917 in Italia nei servizi segreti militari britannici, secondo Giovanni Fasanella (Nero di Londra, Chiarelettere, 2022) nel gennaio 1918 questi aveva ingaggiato Benito Mussolini quale informatore e agitatore politico contro giolittiani, neutralisti e socialisti. Poi esponente dei conservatori, era stato ministro degli Esteri e dell'Interno. Assegnato a Madrid, aveva concorso a dissuadere Franco da scendere in guerra a fianco di Hitler. Fattosi riconoscere, Castellano fu accolto con cordialità ed espose con franchezza non solo le tragiche condizioni dell'Italia ma anche l'intento di combattere i tedeschi. Era un pensiero suo, non del governo. Hoare gli dette un biglietto per il collega a Lisbona, Ronald Campbell, e gli assicurò che lo avrebbe tempestivamente informato del suo arrivo. Giunto a Lisbona alle 22 del 16 agosto, il generale cercò il contatto con l'ambasciatore britannico. Accolto con formale cortesia, ebbe la sensazione che Londra non fosse stata affatto informata della sua missione. Rimase due giorni in attesa di convocazione, tramite un messaggio firmato “du Bois”, che sarebbe stato recapitato a Montanari. Alle 22.30 del 19 Castellano fu finalmente ricevuto da Campbell, nel frattempo raggiunto dal generale Walter Bedell Smith, capo di stato maggiore del comando alleato ad Algeri, dall'incaricato d'affari statunitense Georg Frost Kennan e dal generale Kenneth Strong, capo dell'Intelligence Service anglo-americano: una delegazione del massimo livello, che lo salutò con un cenno del capo. Nessuna mano tesa. Il generale cercò di esporre il suo punto di vista, da comunicare al comandante supremo Dwight Eisenhower: gli italiani intendevano concorrere alla guerra contro i tedeschi. Per tutta risposta Smith lesse le condizioni della resa che l'Italia era tenuta a sottoscrivere senza obiezioni di sorta entro le 24 del 30 di agosto (il cosiddetto “armistizio breve”), pena un attacco distruttivo, e gli illustrò la Dichiarazione redatta il giorno prima da Roosevelt e Churchill nel corso della conferenza di Quebec. Castellano non commentò i documenti che era tenuto a recare a Roma, ma se ne fece illustrare i contenuti e perorò uno sbarco anglo-americano “nelle vicinanze di La Spezia o uno sbarco a Rimini” per costringere i tedeschi a arroccarsi nell'Italia settentrionale, “abbandonando tutta la parte centro-meridionale”. I suoi interlocutori lo ascoltarono “impassibili”. Castellano aggiunse infine che “per condurre a termine i preparativi di una effettiva collaborazione” il governo aveva bisogno che trascorressero almeno quindici giorni tra la firma della resa e il suo annuncio. Non ottenne alcun chiarimento. Fornito di una radio rice-trasmittente, di cifrario e di una “parola chiave” per “aprire” le comunicazioni, il 23 agosto Castellano prese il treno con Montanari alla volta di Roma. Vi giunse il 27, tre giorni prima dell'accettazione della resa. Nel timore di essere intercettato da tedeschi, nel viaggio di rientro non comunicò l'esito della missione. In mancanza di notizie da Roma mandarono a Lisbona con missione analoga alla sua i generali Francesco Rossi e Giacomo Zanussi, già addetto militare a Berlino e quindi accolto freddamente dagli interlocutori. Ai nuovi venuti gli anglo-americani consegnarono sia lo strumento di resa già dato a Castellano sia le clausole aggiuntive (il cosiddetto “armistizio lungo”, approntato, come il “corto”, molto prima che gli italiani contattassero gli Alleati). Giunto nella capitale Castellano consegnò il testo della resa al comandante supremo Ambrosio, che lo comunicò a Badoglio. Mentre continuavano i durissimi bombardamenti “pedagogici” sulle principali città italiane (il 13 agosto Roma, poi Torino, Milano, Napoli, Foggia...), appreso che il governo Badoglio si stava avviando alla resa, il 18 agosto 1943, nel corso della conferenza a Quebec (12-24 agosto) il presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Roosevelt e il premier britannico Winston Churchill avevano scritto che «la misura nella quale le condizioni (di resa) saranno modificate in favore dell'Italia dipenderà dall'entità dell'apporto dato dal Governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra». Accanto al governo venne evocato “il popolo”, del tutto ignaro di quanto stava avvenendo. Gli italiani avrebbero ricevuto tutto l'aiuto possibile delle Nazioni Unite ovunque avessero combattuto contro i tedeschi. Al momento dell'armistizio il governo di Roma doveva ordinare alla flotta e agli aerei di consegnarsi agli alleati. Dai porti del nord le navi dovevano recarsi «nei porti a sud della linea Venezia-Livorno». Il governo Badoglio aveva quindi motivo di ritenere che gli anglo-americani si sarebbero attestati a nord di Roma e di Firenze sulla costa occidentale e su quella romagnola a est.
La “trafila” dei “tre puntini”: realtà o fantasia?
L'11 agosto al Comitato delle correnti antifasciste Bonomi concluse che «se si dovrà chiamare il popolo per cacciare i tedeschi dall'Italia, si dovrà farlo quando gli anglo-americani avranno messo piede in Italia, non prima. Prima si sciuperebbe lo slancio popolare e si verserebbe inutile sangue.» Al tempo stesso decise il “distacco dal governo Badoglio”, che però la pensava allo stesso modo. Il 12 agosto, lo stesso giorno della partenza di Castellano alla volta di Lisbona via Madrid, Bonomi lasciò Roma per una pausa ristoratrice a Santa Marinella. Il 19 rientrò nella capitale. Ricevutolo a colloquio il 20, più per sapere che per dire, Guariglia non lasciò trapelare alcunché sulla missione Castellano. Il 21 Bonomi si incontrò con Bartolomeo (Meuccio) Ruini (1877-1970) e Carlo Galli (1878-1966), appena nominato ministro della Stampa e Propaganda nel governo Badoglio. «Decidiamo di darci del tu, in ricordo dell'antica compagnanza» annotò Bonomi nel “Diario”. Di quale natura essa era? Per comprenderlo occorre tornare ai loro anni giovanili. Laureato in legge e avviato a prestigiosa carriera diplomatica, il 24 maggio 1905 Galli fu ricevuto apprendista massone nell'importante loggia “Rienzi” di Roma, la stessa in cui cinque anni prima era stato affiliato Ruini, futuro presidente della Commissione dei Settantacinque che stilò la “bozza” di costituzione della Repubblica italiana. Nell'incontro del 21 agosto 1943 i due confratelli formarono con Bonomi un triangolo massonico? L'interrogativo si impone anche alla luce dell'opera di Paolo Cacace “Come muore un regime” (ed. il Mulino, 2022), ricco di riferimenti a massoni nel collasso del regime mussoliniano. Secondo lui, “a quanto pare” anche Bonomi era affiliato alla Libera muratorìa. È vero che il massone non è tenuto a dichiararsi pubblicamente tale mentre non deve propalare i nomi dei confratelli né i “travagli di officina”, ma Bonomi non ha mai fatto trapelare alcun cenno sulla propria iniziazione. Non solo. In risposta alla “inchiesta sulla Massoneria” condotta dall'“Idea nazionale” nel 1913, egli dichiarò che «se la Massoneria insiste a mantenersi segreta e a circondarsi di riti e di formule che oggi fanno sorridere, essa obbedisce, forse inconsciamente, a quello spirito di mistero e di ossequio superstizioso che venne diffuso e mantenuto per tanti secoli dalla Chiesa». Quanto all'“ideario” massonico precisò: «Non so, non avendovi mai appartenuto, se la Massoneria abbia una sua filosofia più incline al materialismo che allo spiritualismo, all'internazionalismo che al nazionalismo». Aggiunse: «ogni azione palese od occulta di partiti, di sette, di associazioni pubbliche o segrete nelle amministrazioni dello Stato è sempre profondamente dannosa». Era una dichiarazione veridica o per allontanare insinuazioni? Tanti asserivano che i socialisti riformisti italiani erano eterodiretti dalla “massoneria universale” (un mito comodo per molti massoni e altrettanti massonofagi) e più probabilmente dal Grande Oriente di Francia. Ne era convinto Mussolini, all'epoca socialmassimalista e deciso a espellere i massoni dal partito socialista, come deliberò il congresso di Ancona nell'aprile 1914. Di varie personalità politiche e militari citate da Cacace come massoni si hanno prove sicure. Ne sono invece del tutto prive quelle di Badoglio, che Cacace classifica “massone coperto”, mentre Diaz risulterebbe “in odore di massoneria”, formula che non dice nulla di concludente. Sicuramente massoni furono i generali Luigi Capello, Giacomo Carboni, Gustavo Pesenti e Ugo Cavallero, iniziato al GOI e poi regolarizzato nella Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI) lo stesso anno dell'iniziazione di Vittorio Valletta (1917). Lo furono anche l'avvocato Carlo Aphel (il cui “complotto” volto a rovesciare Mussolini è stato sopravvalutato) ed Elia Rossi Passavanti (la cui iniziazione non è citata da Cacace). Invece, contrariamente a quanto scrive Cacace, non si ha alcuna prova che siano stati massoni Marcello Soleri, i generali Giuseppe Castellano e Angelo Cerica, né il conte Giuseppe Volpi di Misurata. Tra i massoni della GLI si possono invece segnalare, documenti alla mano, Giuseppe Bottai (per breve tempo attivo nella loggia “La Forgia” di Roma, ma radiato per morosità e assenteismo) e il generale Fernando Soleti, forzatamente condotto a Campo Imperatore per garantire l'incolumità di Mussolini all'arrivo dei tedeschi capitanati da Otto Skorzeny. Ciò che più conta, al di là del massonismo di questo o quel gerarca o notabile, è l'assenza di un sia pur labile indizio di una rete che nel corso del tempo e, ancor più, dopo lo scioglimento delle logge (1925-1926) abbia unito in un disegno univoco i massoni delle maggiori comunità liberomuratòrie italiane e che l'immaginario piano antimussoliniano sia stato ordito da iniziati (raccolti in assemblea? informati per circolare o direttive sussurrate dall'uno all'altro orecchio?) e si sia valso di relazioni fraterne e di partecipe sostegno da parte di massonerie di altri Paesi, segnatamente di Francia, Gran Bretagna e delle grandi logge degli Stati Uniti d'America. Il Grande Oriente d'Italia costituito in Francia nel 1930 (con sede formale in Inghilterra) su impulso di Eugenio Chiesa, Giuseppe Leti, Arturo Labriola, Cipriano Facchinetti, Arturo Giannini (poi autore delle esilaranti “Memorie di un fesso”) e infiltrato da agenti dell'Ovra, chiese invano il riconoscimento da parte delle comunità massoniche raccolte nell'Associazione Massonica Internazionale (AMI), la cui storia è stata documentata da André Combes. Altrettanta indifferenza gli fu riservata dalla Gran Loggia Unita d'Inghilterra, da molti ritenuta depositaria e dispensatrice di regolarità e legittimità. La genesi preminentemente massonica del “combinato disposto” Gran consiglio/iniziativa del Re è una leggenda della Repubblica sociale italiana, insufflata da uno spretato massonofago, da decenni incline a vedere ovunque la regìa occulta dei Figli della Vedova, già editore in Italia del famigerato “Protocollo dei Savi Anziani di Sion”. Per cercare di ridimensionare Mussolini e salvare se stessi anche i gerarchi partecipi al Gran consiglio del 24-25 luglio non avevano bisogno dell'assistenza del Baphomet. Pr capire il dramma in corso bastavano le notizie sull'avanzata degli anglo-americani in Sicilia e la tardiva cognizione dell’enormità degli errori commessi da Mussolini sin dalla guerra d'Etiopia, soprattutto dal 1938 in poi e infine con le dichiarazioni di guerra all'URSS e, non bastasse, agli USA: una potenza che non attendeva altro per entrare nel Mediterraneo a spese non solo delle ambizioni tardonazionalistiche del fascismo ma anche di Francia e Gran Bretagna, il declino dei cui imperi coloniali datò dalla nuova guerra dei trent'anni (1914-1945).
La solitudine del Re
Come già osservato, per una prima conclusione, si può dire che protagonista della svolta del luglio 1943 fu Vittorio Emanuele III. Egli si valse di militari ligi al giuramento di fedeltà al re, l'unico che erano tenuti a pronunciare. Anche per quel motivol con delusione di Castellano gli anglo-americani ostacolarono la riorganizzazione delle forze armate regie e isolarono il Re, con la connivenza dei cattolici, che vi vedevano il nipote dello scomunicato Vittorio Emanuele II, debellatore dello Stato pontificio, e di tanti “liberali” che sorsero a pretenderne l'immediata abdicazione, la rinuncia di Umberto alla successione e il passaggio della corona a Vittorio Emanuele, principe di Napoli, di soli sette anni e quindi sotto tutela di un reggente, che sarebbe stato nominato chissà come, perché a norma dello Statuto doveva essere designato dal Parlamento. Ma la Camera dei deputati non esisteva più e il Senato era nell'impossibilità di radunarsi. L'Italia era in regime istituzionale provvisorio. Al tempo stesso va ricordata l'ostilità verso la monarchia di molti democratici del lavoro, anche dai trascorsi massonici. Infine, nel dicembre 1943 Nicolò Carandini dichiarò a Bonomi che i liberali volevano «una monarchia pulita e non un cencio sporco come è l'attuale sovrano». In quelle condizioni venne subìta la resa, evento che merita analitica trattazione.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA. Giuseppe Castellano (Prato, 1893-Porretta Terme, 1977) in abito civile alla firma della resa. Militare valoroso, a riposo dal 1947 pubblicò “Memorie” e diresse una catena di alberghi. Sulla firma della resa v. Rosanna Romanisio Amerio, “3 settembre 1943. L'Armistizio è stato firmato qui. Appunti siracusani”, ed. Morrone, 2023.