
Il trascorrere dei decenni e l'assillo del presente rendono sempre più labile la cognizione del passato, avvolto nelle nebbie. Così su di esso cala una sorta di assoluzione plenaria spacciata per saggezza e persino per “senso della storia”, mentre è l'esatto opposto: ignoranza. La parola non è offensiva. “Non sapere” è del tutto normale. Chi sa qualche cosa sa di “non sapere” l'immane scibile. Parla solo di ciò che conosce. Altri invece ignorano e tuttavia parlano senza conoscenza di causa: ripetono luoghi comuni, per superficialità, per opportunismo o, peggio ancora, per cinismo. È quanto sovente accade a proposito del regime fascista, capitanato da Benito Mussolini, che si impose sull'Italia dal 1925. Non riuscì a divenire totalitario perché cozzò contro due ostacoli insormontabili: la monarchia e la Chiesa cattolica. La Corona conservò i poteri statutari. Quando venne l'ora, li usò. Per ottenerne il favore a scapito della tradizione liberale, Mussolini volle i Patti Lateranensi col Vaticano, che però fecero delle organizzazioni cattoliche l'alternativa proprio al “fascismo delle origini” e alla sua deriva verso la Germania di Hitler. Nel 1938 il partito fascista mirò a eliminare ogni associazione non irreggimentata. Ne furono bersaglio i Rotary Club, che si collocavano in un’Internazionale, e i residui circoli indipendenti, come a Cuneo accadde al “Caprissi”, fondato nel 1875. Ricordarne il forzato auto-scioglimento aiuta a capire la vocazione effettivamente totalitaria del regime, con un solo uomo al comando.
L“invenzione” e il suo rovescio
Nel 1898 Cuneo celebrò il VII centenario della fondazione. L'avvocato Tancredi Galimberti, all’epoca deputato su posizioni radical-democratiche, “inventò” che la città, un “libero comune” mai asceso a capitale di uno “Stato”, lo era di un’idea: “la libertà”. Successivamente egli scivolò su moderate, clericali e infine reazionarie. In odio a Giolitti, nel 1916 sollecitò gli industriali torinesi a finanziargli la lotta per cancellarlo nella provincia che dal 1882 lo eleggeva alla Camera. Infine fece da rompighiaccio per l'arrivo del fascismo. Perciò dal 1910 i liberali progressisti cuneesi cercarono un nuovo punto di riferimento per la città, con l'occhio volto a Roma. Lo individuarono nel trentenne avvocato Marcello Soleri dal pizzo alla moschettiere e dalla folta capigliatura da artista. Nel 1912 egli fu eletto sindaco di Cuneo alla guida di un blocco comprendente radical-democratici, il banchiere e industriale Marco Cassin, israelita, e Angelo Segre, venerabile della loggia “Vita Nova”. Occorreva riportare la città alla guida della Provincia Granda, nel clima dell'Esposizione nazionale allestita a Torino nel 1911, cinquantenario del regno. Cardine dell'associazionismo liberale in Cuneo era “'L Caprissi”, un circolo fondato nel 1875. Dopo vicende che qui lasciamo tra parentesi (vengono narrate in “Centocinquant'anni di Caprissi”, pubblicato or ora con premessa del suo presidente, Franco Civallero), estromessi i liberali dalla presidenza della Provincia e dall'amministrazione della città (dicembre 1925), due esponenti del fascismo, l'on. Giovanni Battista Imberti, podestà di Cuneo, e l'avvocato Gaetano Toselli, di lì a poco “preside” del Rettorato provinciale e futuro deputato del Pnf, si affacciarono al Caprissi. Era l'alba del 1928. Il Circolo visse una crisi, superata quando il 20 gennaio 1932 vi entrò Marcello Soleri, registrato come “avvocato”: un titolo professionale che nessuno poteva togliergli. Per lui dopo la costituzionalizzazione del Gran consiglio del fascismo (1928) e la fine del mandato parlamentare (marzo 1929), iniziò la “morta gora”. Continuò ad avere rapporti diretti ed epistolari con antifascisti, come il socialista e massone Domenico Maiocco. Nnon si piegò mai al regime. Nel 1933 il Caprissi non registrò nuovi ingressi. Navigava a vista. Tra “impresa d'Etiopia”, sanzioni inflitte all'Italia dalla Società delle Nazioni perché l'Impero etiopico ne era membro e tensioni internazionali, che si ripercuotevano sull'attività imprenditoriale di suoi soci impegnati nell'importazione ed esportazione di prodotti locali, nulla faceva presagire svolte drammatiche. Erano state cancellate la libertà delle associazioni politiche e di stampa, ma non quella di circoli che sopravvissero, sia pure sotto sorveglianza. Col 1937 il partito nazionale fascista (PNF) divenne sempre più incalzante e opprimente. Compì il balzo verso la irreggimentazione di tutte le associazioni nell'Opera nazionale dopolavoro (OND). Mussolini controllava il PNF tramite il segretario generale, nominato con decreto reale e membro di diritto del Gran consiglio del fascismo, dal 1928 elevato a “organo supremo della Rivoluzione fascista”. La tessera comportava privilegi, a cominciare dall'ingresso nei pubblici impieghi, precluso a chi non l'avesse. Per consolidare il regime dal 1926 ebbe inizio l'assegnazione di tessere “ad honorem” a imprenditori e a notabili. Poiché “pro bono pacis” i destinatari non la respinsero, anche quando non erano affatto fascisti né partecipavano alle sue cerimonie, furono spacciati per “fiancheggiatori”, generando errori di valutazione, anche da parte di “storici” capziosi. Molto più complessa fu l'inclusione delle masse nell'ambito del regime. Nell'impossibilità di creare “ex novo” associazioni e sodalizi, Mussolini inglobò nel regime quelli esistenti. Il regio decreto legge 1° maggio 1925 istituì l'ENAL (Ente nazionale assistenza lavoratori), che fece da pedana all'OND: un immenso “contenitore” nel quale vennero convogliate organizzazioni nate nel corso del tempo per promuovere l'elevazione morale, culturale e sanitaria dei lavoratori tramite sport, escursionismo, turismo, educazione artistica, cultura popolare, assistenza sociale, igienica, sanitaria e perfezionamento professionale. L'adesione offriva vantaggi pratici. I numeri confermano che all'apparenza ebbe successo. Mentre gli iscritti al PNF solo intorno al 1940 raggiunsero il picco di tre milioni, l'OND ne contò circa dieci. Il regime finse che gli iscritti fossero davvero fascisti ed essi lo lasciarono credere: un compromesso che resse sino a quando la catastrofe bellica nel 1943 infranse l'incantesimo e svelò il reciproco inganno.
Navigare necesse?
Per le associazioni l'unica alternativa alla fascistizzazione sottintesa dall'inclusione nel Dopolavoro rimase l'autoscioglimento. E questo fu il caso del Caprissi di Cuneo. Esso se lo permise perché era composto di persone che potevano vivere senza la tessera del partito e organizzare il proprio tempo senza alcuna sigla associativa, al riparo dalla “sorveglianza” dei fiduciari e confidenti dell' Ufficio politico della questura, operanti in città. Sulla fine del 1937 il federale cuneese del PNF, Antonio Bonino, chiese imperiosamente al Caprissi di aderire all'Opera nazionale dopolavoro. I suoi soci erano commercianti, negozianti, artigiani di pregio (come i tipografi), industriali, liberi professionisti, avvocati, notai, medici, “proprietari” e persino “banchieri” e direttori di banca. A parte pochi insegnanti (occultamente massoni), quasi nessuno dei suoi associati incappava quindi nell'obbligo di pronunciare il giuramento di fedeltà imposto dal 1931 a tutti i pubblici dipendenti. Malgrado l'ingresso di Imberti e di Toselli, esso non aveva quindi motivo di speciale reverenza nei confronti del fascio, come non ne aveva nei riguardi del clero cattolico, non per ostilità ma per estraneità genetica. La richiesta di indossare i panni del Dopolavoro suscitò perplessità, rapidamente divenuta fermo rifiuto. Accoglierla significava accettare l'etichetta di “fascista” da anni appiccicata alla generalità delle associazioni. Era il caso del Dopolavoro ferroviario, un tempo fortilizio delle sinistre, e delle associazioni scolastiche. Nelle “Memorie” Soleri ricorda un proprio caso. Dopo il 1929 “il fascismo locale partì in guerra contro i circoli di ritrovo e le società sportive locali per concentrarle nel Dopolavoro e incamerarne il non indifferente patrimonio. Vi riuscì, fra l'altro, con la Società Bocciofila, di cui facevo parte e che era proprietaria di un terreno decuplicato di valore per la sua fabbricabilità. Mi venne portata la tessera del Dopolavoro, contenente una formula di adesione al movimento, se pure non al partito fascista. La rifiutai con questa motivazione: Non ho firmato nulla per restare ministro, è almeno esagerato chiedermi di firmare per giocare alle bocce”.
Vivere non necesse. Lo scioglimento del Caprissi: nelle Memorie di Soleri...
La pressione dell'ala “più fascista” del partito divenne asfissiante. Perciò il 18 dicembre 1937 quarantasette soci, raccolti in assemblea appositamente convocata, respinsero il “diktat” del federale Bonino e deliberarono lo scioglimento. Fu prova di irrinunciabile “piacere della libertà” malgrado quindici anni di governo mussoliniano. Nelle “Memorie” Soleri dedicò alla vicenda un gustoso aneddoto: «Un vecchio circolo di ritrovo per commercianti e professionisti, il “Caprissi”, ancora in mano degli elementi locali, rifiutò il passaggio al Dopolavoro. Dovette morire. Possedeva ingenti scorte di vino. Autorizzato a liquidarlo, decise di farlo in natura, e cioè di riunire ogni sera i soci fino a consumazione. Vista la burla, fu imposto di vendere quel vino, e lo comprarono i soci, destinando l'ingente provento a una serie di pranzi da consumarsi in alberghi cittadini. Anche tale recidiva fu vietata, e allora quei fondi furono destinati a fare la carità, non però attraverso le opere assistenziali del fascismo che aveva voluto monopolizzare anche la beneficenza. Per fortuna, vi furono i parroci, ben più indicati a tale funzione, che impedirono alla fonte della carità di inaridirsi.» Liberali progressisti, democratici e anche qualche irriducibile anticlericale ricordavano l'ampia e leale collaborazione tra le istituzioni (consiglio provinciale, amministrazioni comunali...) e la vasta rete di preti, arcipreti, parroci ed ecclesiastici vari, impegnata nelle opere a favore dei meno fortunati, a cominciare dalla gamma di ospizi per trovatelli, anziani e malati di entrambi i sessi. Si percepiva, inoltre, che, al di là degli omaggi formali verso le gerarchie del regime, rimaneva, e anzi si ampliava, l'irriducibile diversità fra il progetto di “educazione nazionale” propugnata dal fascismo e la visione cattolica della “persona”. “Sabati fascisti” e vespri erano celebrazioni distanti, distinte e infine divaricate. Sin dal Risorgimento il separatismo di fatto tra Stato e Chiesa sotto il profilo giuridico e istituzionale, esasperato dalla spoliazione del potere temporale del papa e dalla scomunica da Pio IX comminata ai suoi artefici, non aveva impedito ai liberali di praticare la religione dei padri e al clero di accoglierli a condividere i riti ecclesiali con l'obiettivo prioritario di “salvarne le anime”. I liberali non erano “laici”, cioè “ignari di cose sacre”, come Niccolò Tommaseo precisò nel “Dizionario della lingua italiana”, ma generalmente cattolici, osservanti senza ostentazione né abuso per captazione di consensi elettorali. Erano rispettosi di ogni fede, inclusa quella nel “libero pensiero”, e delle logge. Era il caso, per esempio, di Luigi Parola. Massone e venerabile della loggia”Roma”, sindaco di Cuneo, deputato e originariamente mazziniano, egli concorse alla colletta per la facciata della cattedrale di Cuneo. Va aggiunto che sin dalla fondazione 'L Caprissi contava anche soci ebrei. Il motto dei “liberali” era “Vivi e lascia vivere...”.
… e nei malinconici documenti del Caprissi
Però, benché scarna, la documentazione narra che la fine del Caprissi fu meno goliardica di come venne narrata da Soleri. Fu segnata, anzi, da minacce e ricatti da parte del segretario federale Bonino. Deliberato lo scioglimento, il circolo affrontò la “smobilitazione”. Il 4 maggio 1938, XVI dell'èra fascista, uno dei liquidatori inviò a un “caro consocio” il sollecito a versare alla Banca Cuneese di Cambio le 761 lire da lui dovute per i mobili che aveva prelevato dalla sede. Tra i “pezzi” di rilievo del circolo, catalogati nei minuziosissimi inventari, figurava il biliardo, la cui sorte non è documentata. Un elenco non datato indica i 55 soci che «volontariamente hanno offerto la loro quota di riparto della liquidazione (del circolo) alla Gioventù Italiana del Littorio di Cuneo». Esso comprende 54 nomi dattiloscritti e, aggiunto per ultimo a penna, quello di Ermete Revelli, cassiere della Cassa di Risparmio di Cuneo, già massone attivo e quotizzante nella loggia “Propaganda massonica” di Torino, mentre Matteo Viglietti, direttore della Cassa e a sua volta socio del Caprissi, lo era della “Vita Nova” di Cuneo. “Motus in fine velocior”, il 29 ottobre 1938,“1°giorno dell'anno XVII”, su carta intestata “Dopolavoro 'L Caprissi” (denominazione invero mai assunta dal circolo) il ragionier Giovanni Lamberti, uno dei liquidatori nonché banchiere, scrisse al «Signor segretario federale, comandante provinciale della G.I.L. Mi faccio dovere accompagnarVi l'unito assegno della Banca Italia di L. 3778,50 emesso a Vostro favore, quale offerta volontaria alla G.I.L. di n° 55 soci del disciolto circolo 'L Caprissi, come da elenco nominativo che ho il piacere di trasmettere con la presente. Spero entro il 15 p.v. completare detto versamento con altro supplettivo e per intanto sarei grato di un cortese cenno di riscontro a mio scarico. Con fascisti saluti». Lo stesso giorno Lamberti informò il Questore di Cuneo dell'invio dell'assegno al federale Bonino e aggiunse: «Entro il 15 p.v. trasmetterò altra somma a saldo quale offerta di quei ex soci non tesserati del P.N.F. i quali entro tale data non avessero disposto diversamente della somma loro spettante per il riparto di liquidazione, come da comunicazione a Voi fatta tempo addietro. Vogliate prenderne buona nota e con distinti ossequii.» Adottato il “Voi” imposto, dal regime in luogo del “Lei”, nella lettera al questore, funzionario dello Stato, Lamberti non inviò “fascisti saluti”, ma “ossequi”, di rito con lo Stato e le autorità pubbliche. Il 14 novembre 1938 su carta della Federazione dei Fasci di combattimento di Cuneo Bonino dette conto a Lamberti di aver ricevuto l'assegno e aggiunse: «Ti ringrazio anche per il versamento successivo che mi hai preannunciato; ti prego di estendere il ringraziamento ai camerati offerenti ed a farmi tenere la distinta di coloro i quali non hanno ritenuto di conferire il loro credito verso il disciolto circolo in favore della Gioventù Italiana del Littorio.» Il 17 novembre 1938-XVII Lamberti inoltrò due assegni e si dichiarò lieto che solo quattro soci avessero ritirato la loro quota di riparto invece di destinarla alla GIL. Ne fece i nomi. Aggiunse “distinti saluti fascisti”. Analoga informazione indirizzò al questore, sempre senza “fascisti saluti”. Il 2 dicembre informò Bonino delle ultime pratiche necessarie per la chiusura definitiva della liquidazione del Caprissi e precisò: «È quindi necessario che io possa avere dichiarazione del Dopolavoro Provinciale, in bollo, dalla quale risulta che quale liquidatore del Circolo 'L Caprissi in liquidazione, aderente al Dopolavoro stesso, sono autorizzato a compiere le pratiche necessarie al ritiro dei titoli depositati su polizza n° 15840 della Cassa Depositi e Prestiti di Cuneo al n.° 50539 di posizione, consistente in L. 500- Cap. Nom. Rendita Ital. 5%. Munito di questo documento provvederò allo svolgimento della pratica, al ritiro e al realizzo dei titoli, ed al versamento alla G.I.L. come per i precedenti versamenti. Per procedere ordinatamente al suicidio rituale, sia pure in modo provvisorio e solo per prenderne le distanze, il circolo si finse nominalmente “aderente al Dopolavoro”. Lo scioglimento e la liquidazione del Caprissi non avvennero dunque nei modi narrati da Soleri: quasi sfida irridente. D'altra parte, anche per i non fascisti e per gli antifascisti irriducibili nell'ottobre del 1938 vi era poco da stare allegri a cospetto del regime, sempre più oppressivo. Non meno interessante è il 2° elenco di ex soci del circolo «che hanno fatto offerta delle loro quote di riparto di liquidazione a favore della G.I.L.». Esso comprende i nomi di sedici oblatori: l'intera “vecchia guardia” liberale cuneese. Vi compaiono Riccardo Bongioanni, Antonio Bassignano, Giuseppe Gullino, Giuseppe Streri, Terenzio Turbiglio..., sino a “Soleri On. Avv. Marcello”. Gli “oblatori” conoscevano benissimo gli obiettivi della Gioventù Italiana del Littorio, ma sapevano altrettanto bene che, lo gradissero o meno, anche i figli degli antifascisti dovevano frequentarne le adunanze e che non tutti i suoi organizzatori e “capintesta” condividevano la “dottrina del fascismo”. Tra autarchia, leggi razziste, in specie contro gli ebrei, demonizzazione della “borghesia”, imperialismo e fatuo mito degli “otto milioni di baionette”, chi voleva capire era in grado di farlo. Se ne avesse compreso l'intento recondito degli “oblatori”, anziché ritenersene pago il federale Antonio Bonino avrebbe potuto ripetere “timeo Danaos et dona ferentes”… Invece ne trasse motivo per compiacersi dell'entusiasmo ostentato da giovani che ambivano la prima fila nella celebrazione dei riti del regime. Che in larga parte questi fossero indottrinati si vide in occasione della visita Cuneo del segretario del Pnf, Achille Starace, e il 20 maggio 1939 quando Mussolini in persona andò a Cuneo per sfidare la Francia. Uno striscione alzato all'inizio di Corso Nizza, il rettilineo che conduce dal cuore della città a Borgo San Dalmazzo, minacciò “Passeremo”. Finì come sappiamo. A scattare le fotografie fu Adriano Scoffone, massone come suo fratello Riccardo, con studio a Torino, arrestato quale cospiratore antifascista a capo della società segreta “Aquila Nera”...
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Un capomanipolo della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, futuro ufficiale degli Alpini in Russia, comandante di una brigata di “Giustizia e Libertà” e memorialista della guerra partigiana, saluta romanamente Achille Starace in visita a Cuneo (12 febbraio 1939), accolto dal generale Angelo Tua, da Antonio Bonino e dall'anziano senatore Tancredi Galimberti. Più trombe che armi… (v. A.A.M., “Giellisti. Dall'antifascismo alla Resistenza armata”, Cassa di Risparmio di Cuneo, vol. I, 1997, p. 161).