“PROPORZIONALE” E “MAGGIORITARIO”:
PROGENITORI DELLE “AMMUCCHIATE”?

di Aldo A. Mola

Ci sarà una volta l'Europa? Tra sette mesi gli italiani saranno chiamati alle urne per eleggere i loro rappresentanti al Parlamento europeo, con assegnazione dei seggi in proporzione ai voti che otterranno. I dibattiti “politici” in corso sono anni luce lontani dalla visione degli assillanti problemi di un'Europa sempre più claudicante, come ha seraficamente osservato Mario Draghi. Così com'è, senza politica estera e militare unitaria, essa è destinata a sfarinarsi. Come accadde alla Grecia classica. Giunta al culmine della sua civiltà, delle arti e del pensiero filosofico (bastino quanto resta del Partenone, la cui restituzione Atene giustamente chiede, e i nomi di Socrate, Platone e Aristotele) l'Ellade sprofondò nelle grinfie del “barbaro” Filippo il Macedone e di suo figlio, Alessandro. La miopia e l'egocentrismo si pagano.    Che cosa hanno a che fare con l'Europa auspicabile le chiacchiere su “premierato”, “autonomia regionale differenziata” e trascurabili procedimenti giudiziari a carico di “politici”, retoricamente elevati a conflitto tra poteri dello Stato? Ma quale Stato? Vogliamo continuare a nasconderci che dal settembre 1943 l'Italia si è dovuta rassegnare a cedere quantità crescenti di sovranità politica e militare a poteri sovraordinati ai suoi? Ne ha tratto vantaggio, in termini di sicurezza e di ammodernamento. Ma ne avrebbe avuti anche di più se la sua dirigenza si fosse concentrata sulla costruzione dell'Europa anziché smarrirsi nei castelli di carta delle beghe locali, spacciate per alta politica. Nel frattempo, nel volgere di pochi anni l'Unione Europea ha raggiunto un numero di componenti e un'estensione geo-politica, demografica ed economica di cui la maggior parte dei cittadini italiani continua a non avere percezione. Vive straniata dalla realtà. Come l'“Europa” stessa, che non si è data e non si dà regole a misura delle sue dimensioni. Un microstato ha gli stessi poteri di un paese di 60-80 milioni di abitanti.    I prossimi mesi vedranno aumentare i toni della rissa per la caccia al consenso elettorale. Chi la sta attizzando forse non ha ancora colto il tasso crescente della diserzione delle urne e della delegittimazione implicita della rappresentanza.    Dal 2018 l'Italia vive la crisi agonica del regime partitico-parlamentare, aggravata dalla sempre più abissale distanza tra l'esecutivo e le attese dei cittadini. Ironia della sorte, toccò proprio a un “Cinque stelle” dipanare la aggrovigliata matassa di un Movimento caotico, populista, nel suo insieme estraneo alla tradizione politica italiana e intrinsecamente anti-istituzionale, fervorosamente anti-europeista e persino pronto a indossare “gilets” gialli    Poiché a fronte degli scricchiolii dell'attuale maggioranza di governo torna a essere agitato lo spauracchio del neo-trasformismo e qualcuno avverte che dalla novella lampada di aladino possano sprizzare gli spiritelli di Depretis e persino di Giolitti, va fatto un minimo di chiarezza sul trasformismo nella storia d'Italia. 

Elogio del trasformismo    Tra il 1876 e il 1887 il “trasformismo” fu il decennio di transizione dalla ormai sterile e nominale contrapposizione fra la Destra e la Sinistra “storiche” a un nuovo e più organico assetto dello Stato. Quali erano i problemi dell'Italia? Politica estera, politica socio-economica, consolidamento delle istituzioni. “Fare lo Stato” per “fare gli italiani”. L'8 ottobre 1876 Agostino Depretis, massimo esponente della Sinistra e presidente del Consiglio dei ministri, pronunciò a Stradella, fulcro del suo collegio elettorale, un discorso che, secondo lo storico Carlo Morandi, era stato scritto dal lombardo Cesare Correnti, esponente della Destra. Auspicò la “feconda trasformazione dei partiti, quella unificazione delle parti liberali della Camera, che varranno a costituire quella tanto invocata e salda maggioranza, la quale, ai nomi storici (destra e sinistra) tante volte abusati e forse improvvidamente scelti dalla topografia dell'aula parlamentare, sostituisca per proprio segnacolo un'idea comprensiva, popolare, vecchia come il moto, come il moto sempre nuova, il Progresso. Noi siamo, o signori, un ministero di progressisti”.    Depretis (1813-1887) era presidente del Consiglio dal 25 marzo, dopo l'incruenta “rivoluzione parlamentare” come retoricamente venne detto il crollo del governo presieduto da Marco Minghetti, ultimo della Destra storica, sconfitto in aula il 18 precedente, all'indomani di notevoli successi della sua politica economica. A conferma che economia e politica non camminano di pari passo. Anzi, proprio la stabilità economica fa cadere nella tentazione di cambiare governanti. La Nuova Italia aveva alle spalle quindici anni vissuti pericolosamente, dall'unificazione (1861) all'agognato pareggio del bilancio di esercizio: tante uscite contro altrettante entrate. Frutto non solo della tassazione su macinazione delle farine (l'odiosa “tassa sulla fame”), su sale, tabacchi, alcolici e su ogni bene di consumo, ma anche di esose imposte sui beni immobili e su tutto quanto fosse imponibile, dai portoni alle finestre, dai balconi ai cani da guardia e da passeggio. Tuttavia essa aveva fronteggiato e vinto il “grande brigantaggio”, messa all'attivo la terza guerra per l'indipendenza conclusa con l'annessione di Venezia malgrado gli insuccessi militari per terra (Custoza) e per mare (Lissa, ricordata da Nico Perrone nel suo saggio sullo sfortunato Carlo Pellion di Persano, “Agente segreto di Cavour”, ed. Rubbettino), aveva acquisito Roma con i cannoni (contro l'auspicio di Cavour, che puntava sulla suasione di Pio IX, non sulla sua sottomissione) e aveva faticosamente intrapreso il riassetto di un territorio che sommava arretratezza e sottosviluppo.    Il X congresso degli scienziati italiani, l'esposizione economica nazionale di Firenze e il censimento del 1871 indicavano che in appena due lustri il Paese aveva comunque imboccato la direzione di marcia: “fare”, fare bene, fare in fretta grazie all'immensa macchina dell'amministrazione centrale e locale. Però la compagine governativa della Destra era ormai spossata: confondeva la stasi con l'equilibrio. Si barcamenava in un'Europa che, messa alle spalle la guerra franco-germanica del 1870-1871, aveva ripreso e accelerato la seconda industrializzazione e con l’apertura del Canale di Suez aveva accresciuto il traffico di merci (e di eserciti) dall'Europa settentrionale all'India e alla Cina. Inoltre, il crollo dei noli marittimi all'indomani della guerra di secessione negli USA favoriva le esportazioni dall'America verso l'Europa a danno delle economie più deboli. Il grano d'importazione costava meno di quello faticosamente prodotto in Italia, con ripercussioni devastanti per un Paese ancora quasi esclusivamente agricolo. Perciò anche il liberista Camillo Cavour quando necessario aveva fatto intervenire lo Stato non solo per la realizzazione di strade e ferrovie, ma anche a tutela della produzione “nazionale” e dell'avvio di imprese d'avanguardia, specie in settori che richiedevano un di più di scienza (era il caso della produzione di fertilizzanti per sopperire alla penuria di guano precedentemente in arrivo dal Cile).    Con buona pace dei manuali, dall'Unità al 1876 si contarono due soli governi “di Destra” vera e propria: furono quelli presieduti da Lanza nel 1869 e da Minghetti nel 1876. La “Destra” era un'etichetta impropria. Il primo a liberasene era stato proprio Cavour che nel 1852 aveva pattuito il connubio di centro-sinistro (sic) con Urbano Rattazzi, che non era né di destra né di sinistra ma pragmatico, poi ministro dell'Interno nel fattivo governo presieduto da Alfonso La Marmora (1859). Nel decennio successivo alla morte del Gran Conte (1861-1860) i governi avevano sempre compreso esponenti niente affatto “di destra”. Nel suo primo ministero (1862) Rattazzi incluse Depretis e Gioacchino Napoleone Pepoli; nel secondo (1867) ancora Depretis e il quarantaseienne Michele Coppino (massone, come Depretis) all'Istruzione. Nel suo terzo governo (1869) il generale Luigi Federico Menabrea chiamò Angelo Bargoni e Antonio Mordini, massoni e Dioscuri del Terzo Partito. La debolezza cronica della Destra stava nella rivalità fra due suoi esponenti di spicco: il biellese Quintino Sella e il bolognese Minghetti. O l'uno o l'altro.    E così alla fine arrivò Depretis: il Trasformismo, che successivamente andò di traverso alla retorica paleonazionalista accesamente polemica contro l'“Italietta” (da Alfredo Oriani a Enrico Corradini, da Gabriele d'Annunzio a Luigi Federzoni...), esattamente come a quella fascista, alla gramsciana e a tutti gli aspiranti “rivoluzionari”. Era e rimase indigesto il Grande Vecchio di Stradella, che promise almeno una riforma all'anno, ma di quelle vere, che migliorano la vita delle “classi numerose”.    L'Italia era sotto assedio. Nel 1881 la Francia, mai amica sincera e in quel momento neppure alleata, impose il protettorato sulla Tunisia, che la neonata Italia considerava un suo “porto sicuro”. Per uscire dall'isolamento Depretis concordò la Triplice Alleanza (20 maggio 1882) con la Germania e con l'Austria-Ungheria, suo potenziale nemico. Così ebbe mani libere per curare le piaghe interne: l'inchiesta sulle “classi agrarie” sollevò il coperchio sulle condizioni miserabili delle moltitudini. Le cinte urbane soffocavano le città che avevano bisogno di aria luce e pulizia. L'epidemia colerica del 1884 impose reti fognarie e acquedotti.    Il trasformista Depretis non si restrinse a racimolare il consenso di qualche parlamentare in più. Nel 1881, àuspici Coppino, Zanardelli, Baccarini e tanti altri “fratelli” democratici, varò l'ampliamento del diritto di voto da circa 650.000 a 3.000.000 di cittadini. Come ha osservato decenni addietro l'insuperato Giuseppe Galasso, dalle elezioni del 1882 (con collegi circoscrizionali e scrutinio di lista) scaturì la prima dirigenza di politici professionali tecnicamente attrezzati. Proprio perché massone tutto d'un pezzo, fu Depretis a tentare il primo approccio con la Santa Sede per la Conciliazione, malgrado l'opposizione miope di alcuni anticlericali e, s'intende, di fanatici baciapile. Si trattava di accordarsi sui “metalli” nel rispetto della libertà di coscienza di tutti, garantita dallo Statuto albertino che aveva riconosciuto l'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi.    Tra alti e bassi, da una all'altra crisi, rimpasto dopo rimpasto, Depretis condusse il carro governativo sino al 1887, quando formò il suo ultimo formidabile  ministero. Tenne per sé gli Esteri, all'Interno ebbe Francesco Crispi (che nel 1864 aveva detto alla Camera: “la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”), alla Giustizia Giuseppe Zanardelli, a Finanze e Tesoro Agostino Magliani, all'Istruzione Coppino (che dal 1877 ottenne la scuola elementare obbligatoria e gratuita), alla Marina Benedetto Brin (artefice della “Terni”), ai Lavori pubblici Giuseppe Saracco. Al governo c'era tutta l'Italia competente e fattiva. Trasformava il brulicame in una compagine coesa, fondata su larghissima maggioranza, confermata anche nel 1886 quando affiorarono forze più decise ad accelerare le riforme, come l'“Opposizione subalpina” guidata da Giolitti, Tommaso Villa, Domenico Berti (già ministro con la Destra), il garibaldino Pietro Delvecchio e altri. 

Il crepuscolo di uno Statista    Sommerso ed esaurito dal lavoro, Depretis ammalò. Assistito dalla moglie Amalia Flaver, di 34 anni più giovane, da lui sposata quando già era vedova e madre di una bimba, Bice, e dalla quale ebbe Agostino, sentendo arrivare la Grande Visitatrice come un elefante da Roma si ritirò a Stradella. Vi morì con l'occhio alle “umane sorti e progressive”. Senza soluzione di continuità, presieduto da Crispi il governo varò il nuovo codice penale che abolì in Italia la pena di morte (un primato mondiale), rese elettivi i sindaci e i presidenti delle Deputazioni provinciali, laicizzò le opere pie, approvò la prima legge sanitaria che impose ai Comuni la svolta urbanistica. Caso unico tra i presidenti del Consiglio dall'Unità in poi, Depretis ebbe funerali civili. Ecco, dunque, il Trasformismo: è Riforme. È fatti. Per mettere l'Italia in sicurezza, come suggerito anche da Adriano Lemmi (gran maestro del Grande Oriente d'Italia, sempre in attesa di una biografia), Roma stipulò accordi con Londra.    Allievo prediletto di Depretis fu Giolitti che nel 1912 conferì il diritto di voto a quasi tutti i maschi maggiorenni. Riteneva fossero cittadini pensosi delle proprie sorti e rappresentati da parlamentari consapevoli. Era inguaribilmente ottimista. Nel 1924, quando aveva 82 anni, capitanò una Lista schiettamente democratica contrapposta a quella Nazionale orchestrata dal fascismo, zeppa di convertiti all'ultima ora, incamminati sulla via di Damasco dell'incipiente regime, quello, sì, trasformista nel senso deteriore: un partito-spugna pronto a imbibirsi di acque anche putride e condannato a risultare secco quando venne l'ora della prova. Il maggioritario dette dunque gli stessi frutti tossici del proporzionale? 

Aldo A. Mola

DIDASCALIA: Agostino Depretis o, a lungo, De Pretis (Cascina Bella, Pavia, 31 gennaio 1813 - Stradella, Pavia, 29 luglio 1887).    Laureato ventunenne in legge a Pavia, consigliere comunale a 31 anni, eletto a 35 deputato alla Camera del regno di Sardegna nel collegio di Broni (Pavia) il 26 giugno 1848, poi da quelli di Stradella (1861) e di Voghera, dal 1882 comprendente il collegio di Stradella, vicepresidente della Camera nel 1849, mazziniano sino al 1854, contrario all'intervento del “Piemonte” nella guerra di Crimea, si avvicinò a Cavour sulla scia di Urbano Rattazzi, fu governatore di Brescia nel 1859 e commissario straordinario in Sicilia per imbrigliare la spedizione garibaldina (19 luglio-14 settembre 1869).    Esponente di spicco della Sinistra democratica, fu ministro della Marina nel I governo presieduto da Rattazzi (1862), dimissionario per le conseguenze catastrofiche della spedizione di Garibaldi all'insegna di “Roma o morte”. Tornò ministro della Marina nel II governo presieduto da Bettino Ricasoli (esponente della Destra storica) e poi nel II governo Rattazzi (aprile-ottobre 1867, travolto dalla spedizione di Garibaldi contro lo Stato pontificio).    Dal 25 marzo 1876 alla morte fu massimo statista della Sinistra storica e, con l'intervallo di tre governi presieduti da Benedetto Cairoli, nel corso di undici anni formò otto compagini, con ministri molto diversi nelle posizioni chiave (Esteri, Interno, Finanze, Istruzione, Marina...). I suoi governi compresero esponenti delle regioni più disparate,di solida formazione politica, culturale e professionale.    Dal 1864 al 1880 presidente del Consiglio Provinciale di Pavia, suo fedelissimo bacino elettorale, il 10 ottobre 1875 espose a Stradella il programma di vaste e incisive riforme politiche, giuridiche, culturali ed economico-sociali, che precorse la svolta politica nazionale col passaggio senza traumi dalla Destra alla Sinistra, all'insegna del consolidamento dello Stato e della sua istituzione suprema, la monarchia di Savoia. Ebbe la fiducia di Vittorio Emanuele II e di suo figlio Umberto I.    Iniziato “compagno” nella loggia torinese “Dante Alighieri” il 22 dicembre 1864, maestro” dal 1866, affiliato nel 1867 alla “Universo” di Firenze, nel 1877 fu elevato al grado 33° del Rito scozzese antico e accettato e dal 1882 fece parte del suo Supremo consiglio.    Il 14 marzo 1878 Umberto I gli conferì il Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata comportante il rango di “cugino del Re”. Malato, da Roma andò a morire a Stradella. La salma fu esposta nel municipio. Unico dei quattro presidenti del Consiglio massoni (oltre a lui Crispi, Zanardelli e Fortis), ebbe funerali civili. Amedeo di Savoia, Duca di Aosta, fratello del Re Umberto I, resse con Crispi e Zanardelli i cordoni nel corteggio funebre, seguito da una folla lunga un chilometro: omaggio dovuto all'antico repubblicano che aveva ampliato le basi del consenso per la monarchia statutaria, fondata su libertà politiche e progresso. Molto discusso per il suo pragmatismo ebbe due elogi fondamentali. Più che per i discorsi si fece apprezzare per i silenzi. “Quelli che rimangono – disse Ruggiero Bonghi alla sua morte – per sventura nostra non sono migliori di lui”. Non condivise mai la cinica sentenza dei politicanti frustrati secondo i quali “governare l'Italia non è difficile, è inutile”. Spese i suoi settantaquattro anni per lasciare gli italiani migliori di come erano alla sua nascita, tra Restaurazione asburgica, regimi liberticidi e ottusamente clericali. Propose il trasformismo per dar corpo a un vasto Partito dello Stato e attuare riforme efficaci. A.A.M.