ORDINE DEL GIORNO "GRANDI"

Testo dell’Ordine del Giorno “Grandi” presentato alla seduta del Gran Consiglio del Fascismo convocato in data 24 luglio 19143, e la Relazione illustrativa dell’On. Dino Grandi, Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

La seduta del Gran Consiglio del Fascismo, iniziata alle 17,30 vede l’intervento di Dino Grandi intorno alle 21. Dino Grandi è il grande antagonista di Mussolini, il grande regista della operazione che prevedeva la estromissione del Duce dal Governo e ridare tutte le prerogative al Re. Con Grandi vi erano Federzoni, a cui poi si aggiunsero De Marsico e Bottai, fra i membri del Gran Consiglio con il parere del sen. Vittorio Cini, esterno al Consiglio. Vi sono varie versioni del discorso di Dino Grandi; noi riportiamo quella presentata da Gianfranco Bianchi[1], testo integrale che riflette la stesura predisposta nell’imminenza della riunione e fissata subito dopo il termine di essa. 


Ho l’onore di sottoporre al Gran Consiglio il seguente ordine del giorno il quale porta la mia firma e quella dei camerati Federzoni, De Bono, De Vecchi, De Marsico, Acerbo, Pareschi, Cianetti, Ciano, Balella, Gottardi, Bignardi, De Stefani, Rossoni, Bottai. Marinelli, Alfieri, Bastianini.

L’ordine del giorno recita:

Il Gran Consiglio, riunitosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattenti di ogni arma che, fianco a a fianco con la fiera gente di Sicilia in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di valore e di spirito di sacrificio delle nostre gloriose Forze Armate. Esaminata la situazione interna ed internazionale e la condotta politica e militare della guerra, proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in questa ora grave e decisiva per i destini della Nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare, dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quale suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia.”

Illustrerò il più brevemente possibile l’ordine del giorno, le ragioni che hanno determinato, non sottacendo le impressioni che la relazione del Capo del Governo, testé comunicateci, ha suscitato in me quale Presidente della Camera, come italiano e come soldato. Nulla dirò di nuovo che il Capo del Governo già non sappia: ciò che ho avuto già occasione di dichiarare al Duce a tu per tu con lealtà e franchezza, ripeterò esattamente oggi di fronte al Gran Consiglio che la legge dello Stato definisce “l’organo supremo del Fascismo”, alla cui autorità e deliberazione i suoi membri, dal Duce che lo presiede a noi tutti, siamo tenuti ad obbedire. Sicuro di interpretare il pensiero di tutti noi, esprimo anzitutto il profondo rammarico che il Gran Consiglio non sia stato convocato da quasi quattro anni e cioè da sei mesi prima dello scoppio della guerra, quando, senza sentire il Gran Consiglio e neppure il Consiglio dei Ministri, venne irrevocabilmente presa la fatale decisione di entrare in guerra a fianco della Germania.

L’ultima volta che il Gran Consiglio si riunì fu infatti il 7 dicembre 1939: in quella occasione il Gran Consiglio espresse la sua convinzione che gli interessi della Nazione esigevano una politica di neutralità di fronte al tremendo cataclisma scatenatosi fra i tedeschi che sono i Sassoni della terra e gli inglesi che sono i Sassoni del mare. Il Gran Consiglio confermò solennemente in quella sua ultima riunione la nostra attitudine di “non belligeranti” già deliberata dal Consiglio dei Ministri il 1° settembre 1939, e diede mandato al Ministro degli Esteri di illustrare in Parlamento le ragioni di questa decisione cui si impegnavano il Consiglio dei Ministri quale organo del Governo e il Gran Consiglio quale organo supremo del Regime. Da allora in poi abbiamo sovente domandato al Capo del Governo, sempre purtroppo inutilmente, la convocazione del Gran Consiglio, convocazione che la legge riserva come facoltà e diritto soltanto al Capo del Governo. Taluno ha osato insinuare che tale richiesta sulla quale hanno di nuovo recentemente insistito molti membri del Gran Consiglio a seguito dei gravi avvenimenti militari in Sicilia, può essere· fraintesa come un “pronunciamento”.

Dichiaro subito che sarebbe stato per noi più facile il rifugiarci nell’alibi effettivo della nostra non responsabilità da parte del Gran Consiglio cosi come del Consiglio dei Ministri, nelle decisioni dell’entrata in guerra dell’Italia. Ed infatti noi, quali Ministri del Re, e membri del Gran Consiglio, apprendemmo attraverso la radio la notizia che la nostra Patria era entrata in guerra il 10 giugno 1940 contro la Francia e l’Inghilterra e altrettanto dicasi per quando l’Italia entrò in guerra contro la Russia e l’America. Né il Consiglio dei Ministri né il Gran Consiglio, i quali erano stati interpellati nel settembre e nel dicembre 1939 per la decisione di neutralità e non belligeranza, furono interpellati per la decisione di entrare in guerra. Né vennero mai interpellati successivamente per quanto concerne la condotta politica e militare della guerra, di cui la dittatura ha voluto assumersi tutte le iniziative e tutte le responsabilità. ln quest’ora drammatica che la Nazione attraversa, mentre il nemico ha invaso già il sacro suolo della Patria, noi intendiamo invece che il Gran Consiglio assuma la responsabilità che, attraverso la legge, lo stesso Duce del Fascismo gli ha affidato. Né si dica, come taluno ha osato sussurrare, che così facendo noi rischiamo di venire meno al giuramento di fedeltà e di obbedienza fatto al Duce del Fascismo. Questa non può essere che l’interpretazione di qualche pretoriano ignorante. Il giuramento fatto al Duce del Fascismo altro non è se non il giuramento fatto alle leggi che lo stesso Duce del Fascismo ha voluto e che il Re e il Parlamento hanno approvato. Né mai il Duce ha detto o fatto alcunché da indurre noi fascisti a pensare che egli abbia inteso diversamente il significato di questo giuramento il quale è tutt’uno col giuramento di fedeltà che Mussolini e noi abbiamo fatto come Ministri, come cittadini e come soldati al Re, il quale impersona, nell’ambito della Costituzione e delle Leggi, l’Italia.

Taluno ha detto inoltre che noi vogliamo la resa a discrezione al nemico. Non è vero. Il nemico che avanza ha dichiarato brutalmente che esso intende distruggere soltanto un regime politico. Ma noi non ci facciamo illusioni: sono in pericolo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano. Non è pertanto alla salvezza del regime che pensiamo. Un regime ed un Partito altro non sono e non furono per noi che un mezzo ed uno strumento per la grandezza del Paese. I partiti ed i regimi sono effimeri, o quanto meno traditori: solo la Patria è eterna! È soltanto ed esclusivamente all’Italia cui si rivolge in questo momento la nostra preoccupazione e la nostra ansia. E se per salvare la Patria noi dovessimo sacrificare regime e partito e noi stessi, non avremmo per certo un solo attimo di esitazione. Debbo dichiarare con onestà che – all’oscuro come ogni cittadino italiano sulla effettiva situazione della guerra – io ritenevo, fino al momento in cui ho ascoltato la relazione testé fattaci dal Capo del Governo, che la nostra situazione militare non fosse così disperata come il Duce, Comandante supremo delle Forze Armate, ce l’ha descritta. È Mussolini stesso il quale oggi ci dichiara di dubitare che una valida resistenza sia umanamente e materialmente possibile. Ma allora bisogna avere il coraggio di guardare freddamente in faccia la situazione e agire con audaci decisioni, oserei dire colla temerarietà che può dare soltanto la coscienza del pericolo, e nell’esclusivo quadro degli interessi supremi della Nazione. Il Capo del Governo ci ha parlato di imperdonabili errori commessi dai capi militari e dalle Forze Armate che egli stesso personalmente comanda. Mentre egli parlava risovveniva tristemente alla mia memoria lo sfortunato comunicato del Generale Cadorna sugli avvenimenti militari di Caporetto negli ultimi giorni dell’ottobre del 1917. Il Capo di S.M. dell’Esercito italiano in quell’occasione additava pubblicamente la II Armata come responsabile del nostro disgraziato insuccesso militare. Quel triste comunicato di Cadorna ha pesato per molti decenni sul nostro prestigio politico e militare. Guai a quel Comandante di Forze Armate che accusa i propri dipendenti! E Cadorna non aveva avuto se non pochi mesi a propria disposizione per organizzare e preparare quell’esercito che diede subito dopo prove superbe di valore sul Podgora, sul Sabotino, sugli Altipiani. Mussolini, Capo del Governo e Ministro dei Dicasteri Militari, ha avuto ben diciassette anni per creare, formare, preparare, selezionare le forze armate nei quadri, nelle truppe, nei materiali: diciassette anni bastano ad un capitano per essere promosso generale. Gli Stati Maggiori che il Capo del Governo oggi accusa come responsabili della sconfitta, altro non sono che gli Stati Maggiori che egli ha formato e preparato attraverso esperienze e selezioni durante 17 anni. Non è possibile separare in questo momento la responsabilità dei quadri da quella del comandante supremo: non è possibile e non sarebbe generoso attribuire la fortuna a sé e ad altri la sfortuna. Mussolini denuncia oggi le gravi deficienze nella nostra organizzazione militare. Ma di chi la colpa? Non si può “soggettivare” il successo e “ oggettivare ” la sconfitta. Né si può dire certo che il conflitto mondiale sia scoppiato all’improvviso cogliendo l’Italia di sorpresa.

Da molti anni il conflitto era preveduto e Mussolini stesso aveva persino indicato profeticamente l’anno della crisi definitiva affermando che l’Italia non avrebbe potuto esimersi dal partecipare, come protagonista, all’immane dramma che andava maturando. Il dovere della preparazione militare costituiva pertanto il dovere massimo per chi aveva la fortuna e l’onore di dirigere le sorti della Nazione. Disorganizzazioni nei quadri, insufficienza nella preparazione dei mezzi materiali necessari, deficienze nella direzione strategica e tattica. A ciò si aggiungono una serie di errori elementari nella condotta politica e morale della guerra, errori che per essere essi di natura squisitamente politica, rimangono incomprensibili ed aggravano la responsabilità fascista. Noi abbiamo udito il Duce parlarci testé di guerra ideologica, di guerra di religione. Egli ha aggiunto, a spiegare l’innegabile malcontento della Nazione, che “nessuna guerra fu mai popolare”. Questo errore capitale è alla radice della situazione drammatica in cui il Paese si trova. Anzitutto non è vero che nessuna guerra fu popolare. L’intera storia d’Italia sta a dimostrare il contrario. Popolari furono le guerre del Risorgimento nelle quali gli eserciti piemontesi o garibaldini vennero costantemente sorretti dal consenso delle rivoluzioni popolari in tutte le regioni italiane. Popolare fu la guerra del 1914-1918 e nessuno meglio di Mussolini, che fu uno degli animatori dell’intervento, può ricordarlo. Popolare è stata la guerra d’Africa che ha trovato il popolo italiano in piedi pronto a lottare, a resistere, a vincere contro il blocco nemico di 50 Nazioni. I popoli avvertono e  “sentono” sempre, nella loro coscienza, la giustizia ovvero l’ingiustizia della causa per la quale sono chiamati a combattere. Con pari istintiva lucidità la coscienza popolare si rende immediatamente conto se una guerra è necessaria ovvero inutile, se essa risponde ovvero no, agli interessi vitali della Nazione.

Dal giorno in cui questa guerra venne dichiarata, il popolo italiano ha immediatamente sentito che questa non era la “sua” guerra, non era la guerra alla quale la Nazione era chiamata dall’imprescindibile necessità di difendere la sua unità, la sua indipendenza, la sua libertà ovvero per raggiungere i fini ideali che animano sempre la vita collettiva di un popolo. Il popolo italiano ha subito compreso, prima ancora che i vari propagandisti della guerra si incaricassero di confermarlo pubblicamente, dimostrando una mancanza assoluta di senso politico e pedagogico nonché della psicologia popolare, che questa era una guerra cui il popolo era trascinato senza fede in un ideale, senza la coscienza di una causa giusta, senza la consapevolezza di una necessità imprescindibile e inevitabile. Una guerra dalla quale saremmo usciti battuti e coi nostri interessi nazionali gravemente compromessi da qualsiasi parte vi fosse stata vittoria. Il popolo italiano non ha creduto e non crede in questa guerra, alla quale esso ha preso parte non colla fede di un esercito bensì colla paziente rassegnazione di un gregge.

Gli episodi luminosi di eroismo di cui hanno dato prova le nostre Forze Armate, episodi di valore tanto più luminosi quando si consideri la povertà e inadeguatezza dei nostri mezzi militari, rimarranno a dimostrazione perenne delle virtù militari del popolo italiano e della sua grandezza nella sfortuna e nella sventura. Ad avvalorare la consapevolezza istintiva del popolo, sono venuti i propagandisti nazi-fascisti della guerra a spiegare che questa è una guerra ideologica, è una guerra rivoluzionaria, è una guerra di partito, la guerra di Mussolini, la guerra fascista. Quale imperdonabile errore, e quale incomprensione della storia d’Italia. Vi sono, è vero? popoli che furono mossi o “ portati ” alla guerra perché animati da una causa religiosa o ideologica, ma questo non si è mai verificato nella storia d’Italia. Il popolo italiano ha dimostrato di possedere sempre una lucida, equilibrata coscienza dei propri interessi nazionali. Il popolo italiano ha sempre accettato senza esitazioni rischi e sacrifici, ma ciò sempre e soltanto quando il su buon senso storico o il suo istinto pratico lo ha convinto che ciò era inevitabile per necessità ovvero giovevole agli interessi della Nazione. Giammai l’attaccamento ad una ideologia e gli interessi vitali della Nazione si sono rivelati in contrasto nello spirito pratico degli italiani. Parlando di una ideologia fascista come molla, ragione e fine della guerra attuale, è disconoscere le doti peculiari della nostra razza e la nostra esperienza storica millenaria. È stato precisamente questo assurdo concetto di “ guerra ideologica, guerra di partito, guerra fascista ” il tarlo roditore della resistenza del Paese. Le innumerevoli giovani vite sacrificate in Italia, in Africa, in Russia, in Albania, in Grecia; in Jugoslavia, nel Mediterraneo, hanno tutti una madre, una vedova, una sorella. Nessuna fra le madri dei seicentomila caduti della nostra guerra del 1915-1918 fu indotta giammai a pensare che il proprio congiunto fosse morto per Salandra, o per Orlando, o per Nitti: esso era morto per la Patria! Questo era il sublime conforto al dolore, il quale ha lenimento soltanto nella speranza che il sacrificio della vita sia frutto di bene per coloro che rimangono.

Le donne in gramaglie di questa guerra, anche se vengono ad applaudire per le strade, inquadrate dai gerarchi, sono intimamente persuase che i loro morti non siano caduti per la Patria, ma sacrificati dalla volontà di Mussolini.  Quale triste retaggio di rancori ciò porterà alle future generazioni! Si è detto che i nostri soldati non si battono oggi col fervore con cui si erano battuti i loro padri nella prima guerra mondiale, e si è data come spiegazione il fatto che i nostri soldati non “odiano” abbastanza il nemico. Si è cercato in conseguenza di instillare artificialmente quest’odio mediante una stupida propaganda la quale ha dato risultati contrari. Nessun popolo fa la guerra perché mosso dall’odio. Neppure le guerre provocate dal fanatismo mussulmano erano giustificate dall’odio verso l’infedele. Maometto predicava: “uccidete per amore “. Ed infatti soltanto l’amore per una causa, per un ‘ideale, per una bandiera possono giustificare nel cuore degli uomini il sacrificio supremo della vita.

Si è irriso alle nostre gloriose tradizioni nella credulità di poter fare incominciare la nostra storia nazionale dal 28 ottobre 1922. È soltanto di qualche giorno fa una disposizione del Ministero per la Cultura Popolare emanata a due riprese con cui si proibisce alla stampa di ricordare per nessuna ragione, proprio in questi giorni di tragico pericolo per l’Italia mentre il emico sta penetrando nel suolo di Sicilia, le epiche e leggendarie resistenze dell’Esercito italiano durante le guerre del Risorgimento e durante la prima guerra mondiale sulle rive del Piave. Il ricordo del Risorgimento e del Piave, dell’eroismo di cui dettero prova i nostri padri e la nostra generazione di fronte al nemico incalzante appare oggi un sacrilegio, mentre esso avrebbe potuto costituire una molla preziosa atta a risollevare gli spiriti dubbiosi, a far brillare le ultime speranze, a chiamare a raccolta sull’esempio dei nostri maggiori lo spirito e il cuore d ei nostri soldati sfiduciati, rianimandoli al sacrificio come supremo dovere nazionale. Al richiamo proibito da parte dei nostri inefficienti servizi ministeriali di propaganda alle gloriose pagine militari del Risorgimento e del Piave, il Segretano del Partito ha sostituito, or sono dieci giorni, una serie di ” rapporti ” regionali ossia di ” adunate ” regionali delle gerarchie del Partito. Chi parla in questo momento ha ricevuto l’ordine (apprendendolo dai giornali, come di consueto) di recarsi a Bologna a parlare nel ” rapporto ” alle gerarchie fasciste di Emilia e Romagna. Mi sono rifiutato e questo rifiuto di obbedienza è sembrato uno scandalo per non dire un atto di ribellione temeraria. Il mio rifiuto non è stato determinato – il che sarebbe pur stato comprensibile e umano – dalla circostanza innegabile, che dall’ormai lontanissimo 1924, ossia da 20 anni a questa parte, le somme autorità del Partito non mi hanno giammai consentito di parlare ai fascisti della mia terra.

Ma che cosa, vivaddio, avrei io potuto dire oggi in coscienza serena nell’assemblea dei Fasci di Combattimento di Emilia e Romagna da me fondati ventitré anni or sono, quando il fascismo era, si, una fede, un ideale, ed i nostri gagliardetti raccoglievano il fiore della gioventù italiana ansiosa di combattere e di vincere il nemico interno, restaurando i valori minacciati o dimenticati della Nazione e dello Stato? Questi miei compagni di allora e le giovani leve sopraggiunte dopo, dal fascismo educate e inquadrate, avrebbero avuto ben ragione di domandarmi di spiegare loro il perché della contraddizione stridente tra la nostra accesa e sincera predicazione d’allora e gli opposti risultati di ventitré anni di rivoluzione e di regime. Perché sorgemmo in piedi ventitré anni or sono? Perché da pochi che eravamo divenimmo in breve volgere di tempo un popolo in armi che consegnò al fascismo, attraverso un plebiscito unanime, il governo della Nazione?

Proclamammo allora che eravamo contro la dittatura e scrivemmo sulla nostra bandiera il motto “Libertà e Patria” quale solenne pegno di restaurazione delle libertà civiche conculcate. Abbiamo finito collo instaurare una dittatura sostituendo all’antico motto della nostra giovinezza entusiasta e gagliarda quello del conformismo grigio “Credere obbedire, combattere”. Eravamo contro il sindacalismo politico ed abbiamo aggravato i sistemi del sindacalismo politico, soffocando sul nascere quel sistema corporativo che, restaurando la libertà nella Costituzione, avrebbe potuto risolvere in una sintesi fortunata il conflitto fatale tra il secolo liberale e il secolo socialista, e rimanere come il maggior titolo di aristocrazia e di giustificazione storica del fascismo. Siamo insorti contro una burocrazia statale pletorica, impigrita e imbaldanzita dalla sua irresponsabilità e ne abbiamo accresciuto i difetti sino a trasformarla in strumento della dittatura, nell’opera di distruzione degli ultimi residui della classe politica e parlamentare, che dittatura e burocrazia insieme hanno inteso dapprima di soffocare e poscia di sopprimere.

Siamo insorti contro una classe dirigente che si era dimostrata incapace di organizzare le Forze Armate e lo spirito militare della Nazione, e ci troviamo oggi alla soglia di perdere quello che le generazioni dei nostri nonni e dei nostri padri hanno guadagnato all’Italia in territori, provincie, prestigio internazionale. Noi, vissuti nella giovinezza in un clima antimilitarista, anti guerriero, pacefondaio a tutti i costi, ci arruolammo volontari  alla guerra in un impeto di entusiasmo e di emulazione dei nostri nonni, volontari delle guerre della Indipendenza, ignorando persino, quando corremmo alle armi la notte del 24 maggio 1915, il funzionamento  del fucile 91 (questo fucile 91 che ancor oggi nell’età delle macchine, dei carri armati, dei quadrimotori, dei fucili mitragliatori è rimasta l’arma  di cui  è provveduto l’Esercito  italiano,  quel fucile 91 che ha compiuto il suo cinquantenario durante la guerra sul fronte greco). La gioventù di oggi, educata sin dall’infanzia al gioco delle armi, alla rumorosa retorica del militarismo e delle uniformi, ha smarrito a poco a poco la poesia del semplice dovere militare compiuto umilmente nella disciplina e nel silenzio.

In politica estera criticammo aspramente una attitudine di asservimento ad un determinato gruppo di Potenze per cadere nell’asservimento di altre Potenze; proclamammo essere la libertà dell’Italia da qualsiasi legame di alleanza militare il canone fondamentale della nostra politica estera, per legarci alla fine alla Germania nazista in una posizione di vassalli, tollerati quando non addirittura disprezzati. Insorgemmo contro la dittatura del proletariato per scivolare a poco a poco da un provvisorio regime “di emergenza”, ovvero “dei pieni poteri” giustificato dall’eccezionalità delle circostanze, ad una dittatura di Partito, basata su una pseudo­ dottrina presa a prestito dal nazismo tedesco nello stesso momento in cui questo ultimo, copiando l’ordinamento gerarchico del comunismo russo, dava ad intendere a noi di assumere come modello il fascismo italiano e gli insegnamenti del nostro Capo. Abbiamo creduto nel fascismo quale movimento politico rinnovatore, restauratore di tutti i valori nazionali matrice di una nuova classe politica dirigente conscia dei suoi doveri, antiretorica, realizzatrice. Così il fascismo nacque e maturò e fu infatti prima che la dittatura lo uccidesse. Quando si operò questo distacco, questa “uccisione ” del fascismo? Nel 1932, in occasione del decennale della rivoluzione, quando venne soppresso il Partito quale organo politico governato dalle proprie gerarchie liberamente elette nelle assemblee e nei congressi, quando al principio fondamentale che aveva sino allora guidato la nostra attività internazionale (“il fascismo non è un articolo di esportazione”) venne sostituito il principio apocalittico e sovvertitore dell’” universo fascista ” e di un fascismo matrice di una nuova rivoluzione mondiale. Fu in quello stesso anno in cui Hitler e il Nazismo si affermarono in Germania come partito politico preponderante, e questo avvenimento segnò l’inizio della corruzione del nostro fascismo italiano, nazionale, di quel fascismo che tutto il mondo ci aveva sino allora invidiato così come tutto il mondo ci aveva a ragione invidiato Mussolini. Da quel momento nasce la dittatura di Partito, il capovolgimento di tutto quello che era stato il fascismo nei suoi primi gloriosi dieci anni di vita, l’involuzione del fascismo, la decadenza della rivoluzione. Il Partito, da movimento politico animatore e creatore, divenne a poco a poco una cattiva polizia e una cattiva burocrazia. È assurdo credere che una classe dirigente possa formarsi anziché nelle Assemblee politiche del Parlamento e dei partiti, nelle scuole burocratiche dei gerarchi!  Grottesco  tentativo il quale prova la incapacità di intendere quali sono le esigenze profonde di un popolo come il popolo italiano, povero di materie prime e di beni materiali, ma ricco, straordinariamente ricco di tutte le esperienze politiche e spirituali; abituato a soffrire, ma anche a risorgere; pronto ad accettare i benefici di un regime cui sorrideva la buona stella e la buona fortuna, ma non per questo persuaso nell’intimo che potesse durare, perché tarlato e corroso nelle radici e nel tronco.

La classe dirigente di un Paese deve tener conto non solo delle virtù ma anche dei difetti di una stirpe, equilibrarli, fonderli insieme senza rimanere prigionieri di schemi dottrinali che sono agli antipodi colla mentalità italiana. La dittatura ha ucciso la rivoluzione continuando a parlare demagogicamente di “rivoluzione permanente”, frase la più pericolosa di tutte, la più abusata di tutte, la più antirivoluzionaria e reazionaria fra tutte, inquantoché crea essa stessa la sensazione della provvisorietà delle leggi promosse ed emanate. Quando una rivoluzione ha preso possesso dello Stato, è lo Stato e soltanto lo Stato che essa deve difendere, a pena di smarrire il senso storico che ne ha giustificato la esistenza. Una rivoluzione che si dice permanente è una rivoluzione che non crede in sé stessa, è l’incitamento perenne alla demagogia risorgente, è infine, l’eccitamento alla disobbedienza civile.

Tre sono stati, ahimè, i tedeschi corruttori dello spirito italiano:

Carlo Marx, che ha corrotto il vecchio e glorioso socialismo patriottico italiano di Giuseppe Garibaldi e di Andrea Costa facendolo deviare nell’arido pseudoscientifico internazionalismo senza patria; Federico Nietzsche, che ha  corrotto  il buon spirito provinciale di Benito Mussolini, facendogli credere che l’Ubermensch può sostituirsi a quelle che sono le insopprimibili forze collettive della storia ed alla volontà della Nazione;  Adolfo Hitler che ha corrotto lo spirito del fascismo italiano.

Perché italiano e “nostro” è stato fino al 1932 il fascismo, da noi creato e tanto amato un tempo dal popolo italiano con cui si identificava, prima che Hitler, scimmiottando il saluto romano – l’unica cosa che il Nazismo ha copiato dal Fascismo – ci regalasse l’attrezzatura militaresca del nazismo tedesco. Il Fascismo del secondo Decennale nulla ha a che fare col Fascismo del primo Decennale, come nulla ha a che fare il Mussolini del secondo Decennale col Mussolini che eleggemmo nostro Capo nel 1919, nel 1920 nel 1921 e che, quale Capo del Governo e Primo Ministro del Re, portò l’Italia ad essere il Paese ammirato ed invidiato da tutti. È di questo Mussolini di cui noi abbiamo ancor oggi la nostalgia, è di questo Mussolini che ancora oggi noi vorremmo, se fosse possibile. Non il Mussolini delle uniformi, delle manifestazioni e delle adunate coreografiche in cui non crede nessuno. Non è questo il Mussolini che abbiamo obbedito e seguito. Strappati o Duce, la greca di Maresciallo e ritorna quello che eri: il Capo di un Partito politico e il Primo Ministro del Re.

La dittatura ha ucciso la rivoluzione, ha ucciso il fascismo e una frattura insanabile e ogni ora vieppiù profonda si è a poco a poco operata tra il fascismo e la Nazione, tra il fascismo e il Popolo italiano. Il Partito è in peccato mortale verso la rivoluzione fascista. Un regime di dittatura, quando eretto a dottrina e sistema, quando non più giustificato da necessità nazionali straordinarie e impellenti, è sempre storicamente immorale. Ora è sconfitto e sulla scia della propria sconfitta, minaccia di trascinare la Nazione nella sventura. [2] Perché – mi si domanderà – questo crudo e tardivo processo alla Dittatura, al Partito, al Regime fatto in Gran Consiglio? Per dividere le nostre dalle altrui responsabilità? Per un tentativo di sopravvivere e di salvare noi stessi, a guisa di topi i quali cercano di evadere dalla nave che minaccia di affondare? Per crearci di fronte al destino incalzante un nostro alibi? No.

Il Duce sa e conosce perfettamente il nostro pensiero e quale fu sempre il “nostro fascismo” sin dal 1921, quando per un imperativo della nostra fede e della nostra coscienza non esitammo a pubblicamente esprimere nelle assemblee del Partito il nostro aperto dissenso. E così parimenti fu nel 1922, nel congresso di Napoli alla vigilia della marcia su Roma. Eravamo turbati allora dall’ eventualità che l’insurrezione potesse degenerare in guerra civile, e la guerra civile è stata sempre fatale agli italiani. Ci sbagliavamo. Non avevamo preveduto e soppesato la vigliaccheria dell’antifascismo parlamentare il quale non esitò un istante a fare causa comune col Capo dell’insurrezione vittoriosa, dandogli senza esitare quali collaboratori in ostaggio i propri uomini e pieni poteri. Nascevano così, per diretta colpa dell’antifascismo parlamentare, i germi e la giustificazione della dittatura futura. Fummo allontanati da ogni attività politica ma ciò non ci impedì di schierarci più tardi, nel 1924, a fianco di Mussolini, tra i pochissimi rimasti fedeli a lui, nell’ora triste del delitto Matteotti, quando la tempesta parve trascinare in un gorgo di odi e di rancori ad artificio creati, la fortuna del Fascismo è la persona del Duce. Un anno dopo, nel 1925, l’ala estremista e intollerante del Partito prendeva il sopravvento e io fui trasferito dal mio posto di Sottosegretario agli Interni alle funzioni di Sottosegretario agli Esteri, coll’obbligo di disinteressarmi di problemi di politica interna e di abbandonare ogni attività di Partito. Era la terza sconfessione. Obbedii. Scomparvi dalla politica interna. Come Sottosegretario e Ministro degli Esteri tentai, in dissenso con l’indirizzo da Mussolini seguito, di attuare una politica rivolta alla pacificazione europea, alla stretta unione colle Nazioni anglosassoni, riuscendo a conciliare il fascismo col laburismo britannico e con la democrazia francese. Mi si accusò di “ginevrino” di “societario” di “pacifista” soltanto perché sostenni che la pace era il maggiore interesse dell’Italia e che la questione italiana doveva essere presentata con metodo cavouriano, nei Consessi internazionali, come uno dei grandi e inevitabili problemi collettivi della ricostruzione e della pace europea. Hitler guadagnò quindi, nel 1932, le elezioni generali in Germania. Venne la quarta sconfessione e il mio congedo da Ministro degli Esteri. La politica estera mutò sostanzialmente indirizzo. L’Italia entrò a poco a poco nell’orbita del nazismo tedesco. Rimanemmo, sia pure da lontano, fedeli a Mussolini ostaggio della Dittatura, ma pieni di fiducia che il senso della realtà e delle proporzioni, l’indiscusso amore di Mussolini per l’Italia avrebbe finito col prevalere sui suoi disegni di potenza e di grandezza.

Tornato, alla vigilia della guerra europea come Guardasigilli, dopo otto anni di assenza, trascorsi quale Ambasciatore a Londra. non riconobbi più nulla di quello che era stato il vecchio Fascismo e lo stesso Consiglio dei Ministri di cui ero stato già membro dal 1929 al 1932.

La dittatura aveva corroso ed eroso i nostri istituti costituzionali, pur lasciando formalmente intatti i pilastri della Costituzione. I miei tre anni di Ministro Guardasigilli sono stati indubbiamente i tre anni più penosi della mia vita di uomo politico, nel tentativo quotidiano di difendere gli istituti della tradizione e della Costituzione e di limitare al massimo le ingerenze e le interferenze che le gerarchie irresponsabili del Partito esercitavano ad ogni momento nelle attività degli organi dello Stato, creando confusione, disordine e determinando il congelamento delle iniziative e delle responsabilità negli organi statali. Lontani nel tempo apparivano ormai i programmi antichi approvati in Congressi fascisti del 1920-1921, quando il Partito era inteso e definito come un’associazione politica con un solo duplice compito: l’educazione politica del popolo e la formazione delle classi dirigenti. Questa è infatti la funzione che legittima la vita di un Partito nello Stato moderno.

Nel Consiglio dei Ministri del 1° settembre 1939, a giustificare la nostra deliberazione sulla non belligeranza, che era di fatto neutralità, il Capo del Governo non esitò a dichiarare che il Nazismo tedesco ci aveva tradito, che non era rimasto fedele ai suoi patti, che Hitler aveva fatto scoppiare il conflitto senza neppure preavvisarlo, facendolo trovare davanti al fatto compiuto. Mi permisi allora di prendere la parola in quella seduta dicendo che ciò non mi meravigliava inquantochè era ripetizione esatta della condotta tedesca nel 1914. Aggiunsi che mi auguravo che non si ripetessero nel 1939 gli errori compiuti dalla nostra diplomazia nel 1914, quando dopo aver saggiamente proclamato la neutralità dell’Italia non si ebbe contemporaneamente il coraggio di pubblicamente giustificarla davanti agli occhi del mondo. Non si disse abbastanza al mondo che allora, come oggi, la Germania del Kaiser aveva tradito i suoi patti con l’Italia alleata. E così è accaduto che per trenta anni il nostro Paese è stato a torto accusato di essere venuto meno ai suoi obblighi di Nazione alleata.

Durante la seduta del Consiglio dei Ministri del 1° settembre, domandai pertanto di denunciare il tradimento del Nazismo giustificando con ciò, e per colpa tedesca, la fine dell’alleanza militare italo-tedesca e la ripresa della nostra libertà internazionale. Così come nel 1914, una seconda volta nel 1939, la condotta tedesca ci permetteva provvidenzialmente di riguadagnare la nostra indipendenza. Né mancai poche settimane prima che la guerra fosse dichiarata di additare al Duce i pericoli di un nostro intervento prematuro, insistendo nella ferma convinzione che era nell’interesse dell’Italia di mantenere la nostra posizione di neutralità armata di fronte all’uno e all’altro dei contendenti.

Non abbiamo rimorsi e sentiamo di avere verso la persona del nostro Capo adempiuto al nostro dovere di fedeltà e di franchezza da venticinque anni a quest’oggi. Ma non per questo ci sentiamo esenti da responsabilità. I regimi politici sono nelle ore gravi e difficili, dei blocchi inscindibili che non permettono il “distinguo saepe” delle discussioni in tempi di bonaccia. Nelle ore drammatiche della storia è puerile di pensare di dosare e sceverare le proprie dalle altrui responsabilità. Siamo tutti fascisti, lo fummo, lo siamo e lo saremo nella buona e nella cattiva fortuna. Questa è l’ora della responsabilità collettiva, ed è appunto per questo che abbiamo insistito per la convocazione del Gran Consiglio e che insistiamo perché il Gran Consiglio, organo supremo del Fascismo, prenda stasera deliberazioni gravi e definitive che dovranno impegnarci tutti, dal Capo all’ultimo gregario. Non si tratta di salvare noi stessi, le nostre persone, e neppure il regime o il partito. Si tratta di salvare l’Italia e di salvare in pari tempo gli ideali che animarono la nostra giovinezza fascista e la nostra generazione, ideali che non potranno già mai morire anche se provvisoriamente soffocati dalla ostilità avversaria, dalla deviazione ideologica, dall’interpretazione e applicazione errata, dalla crudeltà degli eventi. Guai se il Gran Consiglio dovesse stasera uscire da questa riunione discorde e diviso! Qualunque saranno per essere le nostre deliberazioni, ad esse obbediremo.

Giunti a questo punto taluno potrà domandare: sta bene, accettiamo per un momento la vostra diagnosi di malattia mortale: credete forse di rimediare a questa malattia con la medicina di un ordine del giorno? Che cosa significa il nostro ordine del giorno? Significa che il Gran Consiglio, organo supremo del Fascismo, delibera decaduto il regime di dittatura, perché esso ha compromesso i vitali interessi della Nazione, ha portato l’Italia sull’orlo della sconfitta militare, parlato e corroso nel tronco la rivoluzione e fascismo medesimo. Il Gran Consiglio delibera nello stesso tempo che siano ripristinate nella loro autorità e responsabilità insostituibile tutte le funzioni statali alle quali la Dittatura si era una dopo l’altra sostituita, attribuendo anzitutto alla Corona, al Gran Consiglio, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali.  Alla Corona anzitutto, restituiamo le prerogative e le responsabilità di comando, di iniziativa, di decisione suprema che lo Statuto del Regno attribuisce nelle ore in cui è in gioco il destino della Nazione. La Corona, privata delle sue alte prerogative e responsabilità, altro non è oggi se non un ostaggio in prigionia della dittatura. Il Duce ci ha testé rivelato la parte determinante che il Maresciallo Badoglio, Capo di Stato Maggiore Generale, insieme con gli altri capi militari hanno svolto alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia per strappare al Sovrano le prerogative costituzionali di Comandante effettivo delle Forze Armate, rendendo così inefficaci la lettera e lo spirito dell’Art. 5 dello Statuto, col trasferire proprio essi, i custodi della tradizione militare del Risorgimento, alla Dittatura le prerogative e i poteri che lo Statuto affidava esclusivamente alla persona del Capo di Stato. Questa attitudine di servilità alla Dittatura da parte degli altri capi militari dell’esercito rimarrà a loro perenne vergogna per tutta la storia avvenire.

Attorno al Re soldato, simbolo di unità e di concordia nazionale, potranno raccogliersi in quest’ora suprema di cimento nazionale, tutti gli italiani senza distinzione di fede politica, fascisti e antifascisti, non più separati dalle odiose discriminazioni che la dittatura ha operato, animati nell’ora del pericolo da un solo sentimento, quello di salvare la nazione. Le nostre forze armate, oggi sfiduciate e compresse dall’ angusta prigionia di una guerra di partito, ritroveranno sotto il comando del Re la fiducia è il coraggio di cui diedero già prova sul Piave, di fronte al nemico incalzante sul territorio nazionale, le armate della nostra passata guerra vittoriosa. Non è per la prima volta che un Principe, un Re di Casa Savoia, da Emanuele Filiberto a Vittorio Amedeo II, da Carlo Alberto a Emanuele II a Vittorio Emanuele III, in testa le loro truppe e sorretti dalla concorde fiducia dei cittadini e dal coraggio dei soldati, hanno sfidato e piegato il destino delle armi avverso. Le lacrime delle madri sui figli caduti non hanno colore politico. Tutti i cittadini sono uguali nel sacrificio della vita e degli averi per la Patria. Occorre ritornare allo Statuto, alla Costituzione, alle leggi dello stato mai pienamente osservate. Le leggi corporative e la mancata funzionalità della Camera Corporativa forniscono l’esempio tipico dell’inosservanza delle leggi da parte della Dittatura che le ha promosse.  L’ordinamento corporativo per funzionare e per svilupparsi aveva come presupposto insostituibile la libertà politica, ma dappoiché[3] la libertà era in contrasto con la Dittatura si è preferito anemizzare a poco a poco l’ordinamento corporativo, privarlo delle sue attribuzioni essenziali, ridurlo ad un mero organo burocratico e strumento dell’arbitrio nelle mani del partito.

Occorre restituire al Consiglio dei Ministri le funzioni di organo supremo esecutivo collegiale incaricato di dirigere effettivamente la politica dello Stato e non più, come purtroppo è oggi ridotto, un intermediario tra lo strapotere della burocrazia e lo strapotere della dittatura, entrambe dirette alla soppressione definitiva delle nostre libertà costituzionali e del residuo controllo del Parlamento. Il Parlamento soprattutto deve tornare ad essere quello che fu dall’unità d’Italia in poi, strumento libero e consapevole del potere legislativo entro i limiti e l’armonia dei poteri sanciti dalla Costituzione, espressione permanente attraverso libere elezioni della effettiva volontà popolare, controllore e coadiuvatore del potere esecutivo. Reggeranno i tessuti connettivi della Nazione all’inevitabile contraccolpo che il trapasso dalla dittatura alla costituzione potrà determinare? Dobbiamo sperarlo, confidando nel coraggio e nella saggezza del nostro Re, nel coraggio e nel patriottismo di tutti gli italiani. Non abbiamo peraltro alternativa e scelta. Il ripristino della libertà nel quadro dell’autorità e della responsabilità costituzionale, appare come l’estremo tentativo e ancora di salvezza. Non abbiamo scelta, col nemico che ha invaso il territorio nazionale, con l’esercito che ha perduto la fiducia nei suoi capi, col popolo che ha condannato la dittatura e domanda di essere governato e guidato a salvamento al di là del pericoloso e difficile guado.

Nell’ormai lontano 1924, Mussolini parlando dal balcone di Palazzo Chigi al popolo di Roma acclamante per i risultati plebiscitari delle elezioni generali politiche del 1924, insorgeva contro coloro che pretendevano di vedere in quelle elezioni una mancanza di libertà ed una coartazione della coscienza del popolo italiano.

Mussolini disse: “periscano tutte le fazioni! Anche la nostra. Purché si salvi la Patria. Questo è il comandamento del dovere”.

È questa l’ora di tener fede alla promessa di allora! Non è mai troppo tardi per compiere il proprio dovere verso il Re e verso la Patria”.


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[1] Bianchi G, 25 luglio. Crollo di un regime, Milano, Mursia Editore. 1963

[2] Da altra fonte coeva, che viene fatta risalire all’ambiente di Federzoni, è registrata anche quest’altra frase, che il resoconto di Grandi non contiene: “Questa nera casacca gallonata, con la quale da dieci anni si è tentato di vestire il popolo italiano, ad altro non è riuscita se non a comprimere e a nascondere quella camicia nera che sola doveva rimanere ad esprimere il nostro coraggio e la nostra fede”.

[3] A questo punto, “un testo originale della relazione Grandi al Gran Consiglio del Fascismo” (che l’interessato non dichiara spurio ma solo qua e là impreciso) aggiunge come effettivamente pronunciate allora, anche le seguenti frasi:

“Occorre fare del Tricolore, il simbolo e il segno sacro attorno al quale debbono stringersi tutti gli italiani senza distinzione, in quest’ora suprema che decide della nostra vita e del nostro avvenire! Occorre proclamare che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla ….. uguali soprattutto di fronte alla legge che regola le attività professionali”. (Interruzione di Scorza che contesta l’asserzione).

“No, non è vero! Vi è oggi in Italia una categoria di privilegiati nel campo delle attività professionali e questa è costituita dagli iscritti al Partito. E’ questo che ha determinato quella pletora di quattro milioni di iscritti e di tesserati: “la tessera del pane” si è detto. Due anni or sono ho proposto una legge che stabilisse questa uguaglianza professionale per tutti. E’ stata respinta dal Segretario del Partito, nella sua qualità di Ministro, membro del Consiglio dei Ministri.

E’ stortura questa che deve cessare: perché il Segretario del Partito, che siede al tavolo del Consiglio dei Ministri, è stato l’elemento determinante della maggiore confusione nella funzione delle responsabilità statali, ed ha finito coll’uccidere la stessa attività del Partito, facendo di questa una caricatura della pubblica amministrazione, un preteso organo superburocratico e superstatale, in contrasto stridente non solo con le leggi nostre, ma con le stesse disposizioni date dal Capo del Governo, il quale con la sua circolare ai Prefetti del 1926 le stabilì espressamente”.


A cura di Massimo Coltrinari


Da http://www.istitutodelnastroazzurro.org/2020/07/25/testo-dellordine-del-giorno-grandi-presentato-alla-seduta-del-gran-consiglio-del-fascismo-convocato-in-data-24-luglio-19143-e-la-relazione-illustrativa-dellon-din/