Stefano Bisi per il Grande Oriente d'Italia, Luciano Romoli per la Gran Loggia d'Italia e altre Comunità liberomuratòrie italiane in questi giorni hanno ricordato i massoni suppliziati alle Fosse Ardeatine. Il loro appello alla Memoria va condiviso e riproposto per ricordare l'abisso che la libertà da ogni regime di partito unico. Il cataclisma non arriva improvviso, ma dopo tante scosse poco percepite. Come avvenne tra il 1921 e il 1925, quando si susseguirono cinque anni di errori di chi cominciò a capire solo quando ormai era troppo tardi.
Due militari: stessa fede, stessa sorte: Montezemolo....
Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, classe 1901, colonnello dal 1° maggio 1943, “Giacomo Cateratto” in clandestinità, assassinato il 24 marzo 1944 dalle SS naziste alle Fosse Ardeatine (Catacombe di San Callisto, recita la motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare). Giuseppe Perotti, classe 1895, generale di brigata dal luglio 1942, fucilato il 5 aprile 1944 al Poligono Nazionale del Martinetto (Torino) su sentenza della sezione torinese del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Due Militari. Due patrioti. Due uomini che credevano nell'Italia nata dal Risorgimento. Entrambi ligi al giuramento di fedeltà al Re. Erano uniti anche dagli studi compiuti. Allievo dell'Accademia militare di Artiglieria e Genio di Torino, dopo la partecipazione alla Grande guerra che gli valse decorazione e promozione per merito, Perotti si laureò in ingegneria civile al Politecnico di Torino. Volontario a 17 anni nel 3° Reggimento Alpini, decorato e sottotenente dal 1919, nel 1923 a sua volta Montezemolo si laureò in ingegneria civile a Torino. Riprese la carriera militare l’anno seguente. Di famiglia originaria dalla Spagna, nel 1937 Montezemolo fu capo di stato maggiore della Brigata “Frecce Nere” nel Corpo Truppe Volontarie mandato in aiuto dei nazionalisti spagnoli contro i “rossi”. Capo dell'Ufficio Operazioni del Comando Supremo agli ordini del Maresciallo Ugo Cavallero, dopo la defenestrazione di Mussolini da parte di Vittorio Emanuele III (25 luglio 1943) fu incaricato di missioni speciali da Pietro Badoglio. Rimasto a fianco del genero del Re, Giorgio Calvi di Bergolo, mentre il governo e i Reali si trasferivano in Puglia, il 10 settembre trattò la resa con il Maresciallo Albert Kesselring per ottenere che Roma fosse riconosciuta “città aperta”, come desiderato anche da Pio XII, sovrano dello Stato del Vaticano. Capo del Fronte militare clandestino, organizzò una rete in tutta l'Italia occupata, pronta a collaborare con i “politici” contro i tedeschi e i fascisti mussoliniani, loro alleati. Però, come ricorda il generale CdA Oreste Bovio nella biografia di Montezemolo (Sacerdoti di Marte, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, 1993), “Nelle grandi città la gravità delle conseguenti possibili rappresaglie impedi(va) di condurre molto attivamente la guerriglia”. Inoltre, il CLN Centrale, presieduto da Ivanoe Bonomi, rifiutò di collaborare con il governo del Re, l'unico riconosciuto dalle Nazioni Unite, cioè dagli anglo-americani e dall'Urss. Nella lotta contro i nazi-fascisti Montezemolo si espose in prima persona. Arrestato su delazione (come documenta Sabrina Sgueglia della Marra, ricalcata da Mario Avagliano), il 25 gennaio 1944 Montezemolo fu tradotto nel “carcere” di via Tasso 145. Ripetutamente sottoposto a torture efferate, stoicamente tacque. Padre di quattro bambine di un maschio, Andrea, futuro Cardinale, il 24 marzo fu caricato su uno dei furgoni che, tende abbassate, corsero alle Fosse Ardeatine, ove fu assassinato con un colpo alla nuca come altri 334 italiani, per rappresaglia per la morte di 33 militari del battaglione “Bozen”, uccisi nell'attentato messo a punto tra via Rasella e via del Boccaccio da un Gruppo di Azione Partigiana (GAP) del Partito comunista italiano, alla vigilia del rientro di Palmiro Togliatti da Mosca via Algeri. Senza entrare nel merito della vicenda, riproposta da Dino Messina in Controversie per un massacro. Via Rasella e le Fosse Ardeatine. Un tragdia italiana (Solferino, 2024), va ricordato che, sbarcati ad Anzio a gennaio, gli anglo-americani giunsero a Roma solo il 5 giugno 1944. Due giorni prima dello sbarco in Normandia: una gara tra Comandanti a chi prima occupava la scena.
...e Giuseppe Perotti
Dopo “via Rasella” anche nell'Italia settentrionale la repressione della lotta di liberazione aumentò di ferocia, in vista dei grandi rastrellamenti di primavera contro le formazioni partigiane. La Repubblica sociale mussoliniana potenziò l'offensiva con spie, infiltrati, doppiogiochisti. A Torino mirò al bersaglio grosso. L'intero Comitato militare del CLN regionale piemontese fu arrestato il 31 marzo 1944 mentre era radunato nella sacrestia del Duomo di Torino. Sottoposto a interrogatorio, completo di tortura, il suo comandante, generale Perotti, fu condannato a morte. Con lui vennero fucilati i rappresentanti dei partiti nel Comitato: Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Enrico Giachino, Eusebio Giambone e Massimo Montano. Fu risparmiato Silvio Geuna, che poi ne scrisse in Le Rosse torri di Ivrea. Chi passa dinnanzi al busto in bronzo del generale Perotti alla Scuola di Applicazione in via Arsenale a Torino sente riecheggiare l'ordine che impartì alla lettura della condanna a morte: “Signori ufficiali, attenti: Viva l'Italia”. Anche per lui vale quanto di Montezemolo fu scritto in un rapporto informativo: “Soldato per tradizione familiare e per vocazione propria”. Lo ricorda Oreste Bovio, che aggiunge: “Seppe essere fedele a un antico precetto: Perché la patria viva, oggi si muore, e per questa sua fedeltà, ancor più che per le sue elette qualità di mente e di cuore, costituisce un esempio per tutti”. Montezemolo e Perotti vanno ricordati per non disperdere l'eredità morale del Risorgimento e dell'unificazione d'Italia. E vanno rievocati proprio nell'anniversario della carneficina compiuta dalle SS alle Fosse Ardeatine, ove furono assassinati il vertice del Fronte militare clandestino, molti appartenenti a “Bandiera Rossa”, detestati dal Partito comunista italiano, oltre sessanta ebrei già destinati alla deportazione, vari militanti di partiti poco avvezzi alle regole ferree della lotta clandestina e persino detenuti per reati non politici, tratti dalle celle alla rinfusa. Nella concitazione ne vennero aggiunti cinque più di quanto richiesti per la rappresaglia: dieci contro uno, come praticato dalla generalità degli eserciti in guerra. Tra le vittime dell'esecrabile esecuzione si contano 62 minori di 25 anni, tra i quali il quindicenne Duilio Cibei, falegname, e 11 ultrasessantenni, 38 ufficiali (cinque dei quali generali), 26 liberi professionisti (avvocati, medici, ingegneri), 77 operai, 57 impiegati, 54 commercianti, 5 industriali, un banchiere, un sacerdote (il pugliese Pietro Pappagallo) e una dozzina di “agricoltori”, come Aldo Finzi, di famiglia ebraica, nel 1922-1924 sottosegretario all'Interno nel Governo Mussolini. Se dalle professioni si passa alle ascrizioni partitiche-ideologiche il computo diviene molto più complesso, sino a sfuggire a una catalogazione attendibile e condivisa.
Domenico Maiocco e Placido Martini, Fratelli d'Italia
Settantasette anni dopo la tragedia, una Istituzione merita l'attenzione che sinora non le è stata adeguatamente riservata: la Massoneria. Secondo studi frutto di decenni di ricerche i Liberi Muratori suppliziati alle Ardeatine furono almeno ventuno, il 6% del totale (v. didascalia per i loro nomi): un numero molto rilevante se lo si rapporta a quello dei militanti di partito (comunisti e azionisti inclusi, a tacere dei democristiani) e soprattuto al fatto che, anche nei suoi anni meno sfortunati, tra il 1885 e il 1920, in Italia la Massoneria era sempre stata una minoranza esigua. Dal 1925 le sue due maggiori Comunità, il Grande Oriente d'Italia e la Serenissima Gran Loggia d'Italia, erano state sciolte dai rispettivi grandi maestri (Domizio Torrigiani e Raoul Palermi) per sottrarre gli iscritti alla persecuzione del governo Mussolini che la combatteva come “società segreta”: una imputazione ricorrente anche oggi, non solo nei rotocalchi e in libelli di massonofagi fanatici, ma persino nella Relazione di una commissione parlamentare d'inchiesta. Appena rinata, all'indomani del 25 luglio 1943, e subito costretta a nuova clandestinità, come accenna Luca G. Manenti in La massoneria italiana (ed. Carocci, 2024) la Libera Muratorìa pagò un prezzo altissimo. Nella breve estate del 1943 essa risorse per iniziativa di grandi iniziati oggi quasi completamente dimenticati. Tra altri spiccano Domenico Maiocco e Placido Martini. La biografia di Maiocco, ricevuto massone nella loggia “Vita Nova” di Alessandria nel 1923, è stata scritta dal colonnello Antonino Zarcone quando era capo dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (Domenico Maiocco. Lo sconosciuto messaggero del colpo di Stato, pref. di Luigi Pruneti, Roma, Annales). Fu il tramite occulto fra Vittorio Emanuele III, alcuni gerarchi decisi a ridimensionare Mussolini e Ivanoe Bonomi, para-massone ma succubo dei partiti che intendevano far ricadere esclusivamente sul Re il passivo del regime fascista, sorto per la loro inettitudine politica, e della ormai inevitabile sconfitta. Francesco Guida ha scritto la biografia di Placido Martini “socialista, massone, partigiano”(ed. Pontecorboli) e l'ha ricordato anche in I martiri massoni delle Fosse Ardeatine (Ed. Gagliano, 2019). Le pagine più pregnanti sulla sua vita si leggono però in La R.'. L.'. “Garibaldi-Pisacane di Ponza-Hod, n.160 all'Oriente di Roma: una luminosa storia massonica” (ed. Pontecorboli, Firenze, 2019, con introduzione di Virgilio Gaito, ex Gran Maestro del GOI). Il libro, che non è ricordato da Avagliano e Palmieri in Le vite spezzate delle Fosse Ardeatina. Le storie delle 335 vittime dell'eccidio simbolo della Resistenza (Einaudi, 2024), ha molti pregi. In primo luogo esso appare anonimo, perché è frutto della loggia, un'opera “corale”. Concetto ovvio per chi lavora alla gloria del grande architetto, molto meno per vanitosi egolatri. Il suo autore, Carlo Ricotti, giurista, storico e docente alla Luiss di Roma, lo curò sino a quando passò all'Oriente Eterno, nel 2019. Le sue pagine documentano il legame iniziatico tra Placido Martini e Domizio Torrigiani, che, condannato al confino di polizia a Lipari perché massone, un reato che non esisteva nel codice penale, fondò la loggia “Pisacane”. Vi fu iniziato anche il “comunista” Silvio Campanile, sinteticamente ricordato da Avagliano e Palmieri. Il libro di Ricotti ripercorre, inoltre, la riattivazione della loggia da parte di Martini, fondatore dell’Unione Nazionale della Democrazia Italiana (UNDI). Infine evidenzia i contatti instaurati dopo l'8 settembre tra Carlo Zaccagnini, fiduciario di Martini, e il colonnello Cordero di Montezemolo. Il cerchio, dunque, si chiude. O, se si preferisce, il triangolo è equilatero. Tramite Carlo Avolio l'UNDI entrò in contatto anche con la Carboneria capitanata da Felice Anzalone, un “professore” studiato da Silverio Corvisieri in Il Re, Togliatti e il Gobbo. 1944: la prima trama eversiva (ed. Odradek). Senza addentrarci nel “bosco incantato” delle molte sigle massoniche fiorite nel 1943-1944 (ne ha scritto anche Giuseppe Pardini in Obbedienze disobbedienti, ed. Luni), merita rievocare il percorso di Martini (1880-1944). Garibaldino (diciottenne partecipò alla spedizione a Domokos in aiuto degli insorti greci contro i turchi, elogiata da Giosuè Carducci), massone, anticlericale, impegnato nel blocco popolare a Roma capitanato da Ernesto Nathan, volontario nella Grande Guerra, in sintesi un genuino “liberale”, nel dopoguerra Martini avversò l'onda rivoluzionaria socialcomunista, negatrice dei valori patriottici e decisa a “fare come in Russia”: sterminio della borghesia e strage del Re e della sua famiglia. Condannato al confino di poliziaa Ponza, Martini ricevette da Torrigiani l'investitura a tenere in vita la “Pisacane” come Loggia Madre, con il carisma di gran maestro. Propenso alla ricomposizione fraterna tra il Grande Oriente e la rinascente Gran Loggia guidata da Raoul Palermi, suscitò l'ostilità di “fratelli” che del resto poco sapevano dei grandi maestri dell'esilio (Eugenio Chiesa, Arturo Labriola, Alessandro Tedeschi e Davide Albarin). Catturato a causa di un miserabile delatore, come Montezemolo anche Martini fu rinchiuso a via Tasso e vi subì torture atroci senza mai nulla rivelare. La figlia Maria Carolina narrò ad Alfonso Testa quanto soffrisse quando ritirava la biancheria del padre: “Tutta sangue. Sangue ai calzini, sangue alle maglie. Era la tortura: timpani sfondati, un orecchio strappato, piedi massacrati”. Nell'interrogatorio dichiarò di essere il gran maestro della massoneria e assunse su di sé solo ogni addebito. Rinchiuso a Regina Coeli con il corpo piagato, quasi impossibilitato a stare in piedi per le percosse subite, il 24 marzo 1944 a sua volta fu tradotto alle Ardeatine con due dei sette compagni di cella e, come accertò Tullio Ascarelli che sovrintese alla riesumazione dei cadaveri, fu ucciso con uno sparo nella regione fronte-parietale sinistra. Con ogni evidenza, non chinò la testa. Analoga sorte ebbero altri massoni militanti nell'UNDI e affiliati della Gran Loggia d'Italia. Virgilio Gaito scrisse che gli uni e gli altri “già divisi da storiche incomprensioni, affrontarono uniti e fieri la morte stringendosi l'un l'altro in una suprema concordanza di ideali”. Un messaggio per chi anche oggi disputa sul sesso degli angeli mentre incombe la distruzione dell'umanità. Però a ricordare i massoni suppliziati alle Fosse Ardeatine non debbono essere solo i loro confratelli ma lo Stato stesso, ai suoi livelli più alti, riconoscendone il valore proprio di quella loro appartenenza: un debito che la Patria ha nei confronti di una Istituzione che troppo spesso viene ricordata a sproposito, per vicende “profane” di taluni suoi affiliati in circoscritti momenti, in tal modo oscurando tre secoli di storia. L'anniversario dell'eccidio delle Fosse Ardeatine era il giorno giusto per fare ammenda di un oblio immotivato e durato troppo a lungo. Va bene farlo con una settimana di ritardo, nel giorno della Pasqua di Resurrezione che riecheggia l'inno garibaldino: “Si schiudon le tombe/, si levano i morti/ i martiri nostri son tutti risorti...”. Compresi i ventun Fratelli assassinati alle Fosse Ardeatine perché volevano l'Italia della Libertà.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Il Labaro della Loggia “Garibaldi-Pisacane di Ponza-Hod” fondata da Domizio Torrigiani e “risvegliata” da Placido Martini. Tra i suoi affiliati contò il giurista Paolo Ungari. Alle Fosse Ardeatine vennero suppliziati ventun massoni. Ne ricordiamo i nomi, i luoghi di nascita e le professioni, perché rappresentano tutte le aree del Paese e la media e piccola borghesia (forze armate, insegnanti, impiegati, avvocati, medici, artisti...), pilastro portante della Terza Italia: Teodato Albanese (Cerignola, avvocato), Carlo Avolio (Siracusa, impiegato), Umberto Bucci (Lucera, impiegato), Silvio Campanile (Roma, commerciante), Salvatore Canalis (Tula, SS, professore di lettere), Giuseppe Celani (Roma, impiegato), Gerardo De Angelis (Taurasi, AV, regista cinematografico), Renato Fabri (Vetralla, VT,commerciante), Aldo Finzi (Legnago, agricoltore, già deputato e dal 1922 al 1924 sottosegretario di Stato all'Interno nel governo Mussolini), Fiorino Fiorini (Poggio Nativo, RI, maestro di musica), Manlio Gelsomini (Roma, medico), Umberto Grani (Roma, tenente colonnello), Mario Magri (Arezzo, capitano artiglieria), Placido Martini, (Montecompatri, RM, avvocato), Attilio Paliani (Roma, commerciante), Giovanni Rampulla (Patti, Me, tenente colonnello), Umberto Scattoni (Roma, pittore), Simone Simoni (Patrica, FR, generale di divisione), Mario Tapparelli (Vicenza, commerciante), Angelo Vivanti (Roma, commerciante) e Carlo Zaccagnini (Roma, avvocato). Le loro biografie sono specchio della lunga e spesso tragica storia d'Italia. Vanno ricordati proprio per la “catena di unione” che in tempi diversi li aveva uniti ai tanti artefici dell'unità e al progresso civile dell'Italia: Giuseppe Garibaldi, cinque presidenti del Consiglio dei Ministri, scienziati, artisti, scrittori, commercianti, artigiani, studenti, agricoltori, operai ed ecclesiastici, massoni malgrado la scomunica della Massoneria per motivi mai chiariti, come ripete il gagliardo novantenne padre José Antonio Ferrer Benimeli. Erano stati iniziati in loggia prima dell'avvento del regime che inaugurò le “leggi fascistissime” con quella sull'appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni. Nota come “legge contro la Massoneria” questa fu presentata alla Camera personalmente da Mussolini il 12 gennaio1925, con il supporto del nazionalista Emilio Bodrero. Il senatore Adriano De Cupis (1845-1930, già avvocato generale dello Stato), datò la relazione di approvazione il 31 ottobre, cinque giorni prima della famigerata “notte di San Bartolomeo” che a Firenze culminò con il feroce assassinio di Giovanni Becciolini. De Cupis scrisse: “Nemo potest duobus dominis servire. Pare non occorra di più per annoverare la Massoneria e gli istituti congeneri 'Società Segrete', fra i collegi illeciti che il diritto romano severamente puniva”. Quella legge fece da spartiacque tra l'Italia della libertà e quella del pensiero unico. Con l'eccezione delle Forze Armate, fedeli al giuramento al Re, via via gli impiegati pubblici indossarono la camicia nera. I grandi maestri Domizio Torrigiani (Grande Oriente) e Raoul Palermi (Gran loggia, rassegnato dopo un vano tentativo di camuffamento) sciolsero le logge in Italia e nelle sue colonie, ma rimasero titolari dei poteri carismatici. Rimasero attive logge del GOI ad Alessandria d'Egitto, Tunisi, Parigi, Londra, Salonicco e a Buenos Ayres, alcuni gruppi clandestini e la immortale “Propaganda massonica”. Condotti al supplizio con i legati i polsi dietro la schiena e le caviglie incatenate perché potessero fare solo piccoli passi, al passaggio tra le Colonne “J” e “B” i Fratelli assassinati alle Fosse Ardeatine avevano appreso a marciare verso la libertà. Aldo A. Mola