di Aldo A. Mola
Povera foglia frale... Il 28 agosto 1944 la principessa Mafalda di Savoia (“Muti”, in famiglia), consorte di Filippo langravio d'Assia, morì dopo una tardiva operazione al braccio sinistro, ustionato sino all'osso, per fermare la cancrena generata dagli spezzoni di bombe che l'avevano ferita. L'intervento ebbe luogo in un ambulatorio improvvisato nel campo di concentramento tedesco di Buchenwald. Il 24 precedente migliaia di fortezze volanti partite da basi remote bombardarono a tappeto le Officine Gustloff e i dintorni. Il premier inglese Churchill, in visita a Napoli, voleva dare una lezione alla Germania, già piegata dalla sconfitta inflittale dai sovietici a Kursk. Nessuno degli incursori immaginava che al bordo del campo vivesse la figlia del Re d'Italia Vittorio Emanuele III, catturata a Roma il 22 settembre 1943 per ordine di Hitler e lì detenuta dall' 8 ottobre. “Povera foglia frale...” la Principessa lasciò la vita terrena. Ricordare la tragedia di Mafalda di Savoia-Assia significa compiere un passo avanti verso la conciliazione della memoria storica. Più serenità, più responsabilità. Ne scrisse il saggista imperiese Renato Barneschi in “Frau von Weber” (1982), autore di una accurata biografia della Regina Elena, “Rosa d'Oro della Carità”. Casa Savoia per l'indipendenza e l'unità d'Italia Il 18 marzo 1983 morì a Ginevra Umberto II, iniquamente condannato all’esilio perpetuo dalla Repubblica italiana, che gli interdisse il suolo patrio, da lui invocato almeno per chiudevi la vita terrena. Scelse di essere deposto nell’Abbazia di Altacomba, antico sepolcreto della Casa. A quel modo mandò il suo ultimo messaggio agli italiani: dovevano e debbono farsi carico della propria storia, tutta. Nel feretro volle con sé il sigillo regio. Il suo duplice mònito non fu raccolto. Nel tempo sono stati pubblicati tanti diari di suoi stretti collaboratori, compreso quello di Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, egregiamente curato da Francesco Perfetti (ed. Mondadori), Ma La storia dell'ultimo Re rimane da scrivere. Tanti suoi sedicenti ammiratori hanno trascorso quarant'anni a frammentarsi in movimenti e gruppuscoli sempre più irrilevanti. Eppure basta rievocare la tragica fine di Mafalda di Savoia-Assia per chiudere finalmente la polemica retrospettiva contro la Casa che sin da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, sul trono dal 1831, legò le sue sorti alla lotta per indipendenza, unità e libertà degli italiani. Nella fortuna e nelle sfortune. Ne fu esempio lo stesso Carlo Alberto, che il 23 marzo 1849, la sera della battaglia di Novara, abdicò e partì per il Portogallo, ove morì di consunzione il 28 luglio, appena cinquantunenne. Al protomedico Alessandro Riberi, mandatogli dal figlio, Vittorio Emanuele II, bisbigliò quasi scusandosi: “Le voglio bene, ma muoio”. Suo nipote, Umberto I, fu assassinato a Monza il 29 luglio 1900, poco dopo aver insediato il governo liberale guidato dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. Poi fu la volta di Vittorio Emanuele III, che abdicò, partì per l'Egitto il 9 maggio 1946 e vi morì il 28 dicembre 1947, e, appunto, di suo figlio, Umberto II, che lasciò la Patria per il Portogallo il 13 giugno 1946 senza ritorno, inseguito da una pessima dichiarazione polemica di Alcide De Gasperi, capo provvisorio dello Stato, presidente del consiglio dei ministri e ministro degli Esteri: un caso unico nella storia d'Italia. Una principessa nella tempesta Vicende dimenticate, deformate da letture faziose, con cesure, censure e ampie zone d’ombra. Fra le molte rimane ingiustificabile il lungo oblio riservato a Mafalda. La sua vicenda basta da sola a dire quanto una livorosa polemistica non vuol sentire: nel dramma della seconda guerra mondiale Casa Savoia fu tutt’uno con le famiglie italiane anche nella sofferenza e nel lutto. Un anno prima della tragica morte, il 28 agosto 1943, Mafalda era partita da Roma per raggiungere la sorella, Giovanna, consorte dello zar dei bulgari, Boris III, che rientrato da un tempestoso incontro con Hitler, ammalò d’improvviso, probabilmente avvelenato perché non approvava le misure contro gli ebrei e intendeva separare il proprio paese dall'alleanza con i tedeschi. Il principe Filippo d'Assia, sposato da Mafalda di Savoia nel Castello di Racconigi il 23 settembre 1925, dopo l’attentato del 20 luglio 1944 al Fuehrer era in stato d’arresto. Per la principessa Mafalda il viaggio di rientro in Italia fu un'odissea. Alla stazione ferroviaria di Sinaia, in Romania, venne informata della svolta in atto in Italia (proclamazione dell'armistizio, trasferimento della Casa Reale e del governo da Roma in Puglia) e invitata a rimanere. Forte del suo coraggio e convinta dell'immunità di moglie del principe d'Assia proseguì per raggiungere i figli, a Roma. L'aereo predisposto per il suo trasferimento da Budapest a Bari atterrò a Pescara. Da lì Mafalda raggiunse fortunosamente la Città Eterna. Proprio il suo rango di Prinzessin agli occhi dei nazisti, ferocemente antimonarchici, era invece un'aggravante, come ricorda Frédéric Le Moal nella biografia di Vittorio Emanuele III (trad. Gorizia, LEG). Mentre il figlio maggiore, Maurizio, già in Germania, era a portata di mano di Hitler, la regina Elena lasciando Roma ne aveva affidato i minori Enrico, Otto ed Elisabetta al sostituto segretario di Stato della Santa Sede, Giambattista Montini, che però li allontanò perché sopraggiungevano nipoti suoi. Anche i principini d’Assia finirono a loro volta in Germania. Nella Città Eterna caduta sotto il controllo di Kappler, Mafalda finì in un tunnel senza uscite. Si fidò dei germanici sino a recarsi alla loro ambasciata ove (le era stato assicurato) sarebbe stata chiamata al telefono dal consorte Filippo. Lì, invece, fu arrestata (22 settembre 1943) e tradotta in Germania. Nel campo di Buchenwald, che aveva per insegna “A ciascuno il suo”, inizialmente fu assegnata alla stanza 9 della baracca 15. Quando il Re seppe. Come centinaia di migliaia di connazionali ignari della sorte dei loro cari (dispersi, prigionieri,...), i sovrani, il principe ereditario Umberto e tutti i suoi famigliari e amici rimasero in attesa di notizie. Era prigioniera in mani studiatamente crudeli. Della sua atroce fine il 14 aprile 1945 dettero notizia i giornali, anche con commenti inopportuni, prima che Vittorio Emanuele III ne fosse informato. Scrissero crudamente che Mafalda di Savoia-Assia era morta per le ferite riportate nel bombardamento del lager in cui era rinchiusa. L’aiutante di campo di Umberto di Piemonte, Luogotenente del Regno, ne informò subito il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, affinché i sovrani “non leggessero la tremenda notizia sui giornali”. Puntoni ne riferì immediatamente al Re. Nel Diario (ed. Palazzi, poi il Mulino) annotò che il sovrano “come sempre (...) non lasci(ò) trapelare alcun turbamento” e continuò la conversazione in corso con Brunoro De Buzzaccarini. Un quarto d’ora dopo, Vittorio Emanuele III s’appartò per riferirne alla Regina. Ma quell’informazione era davvero esatta? Seguirono settimane di angoscia, sino a quando il 2 maggio, proprio il giorno della fine della guerra in Italia per la resa dei tedeschi agli anglo-americani, tramite i canali informativi della Santa Sede, giunse la conferma. Quando ne ebbe certezza, il Re assunse “quell’atteggiamento che, per chi non lo conosce a fondo, può sembrare cinico; e io so – scrisse Puntoni – che egli soffre terribilmente...”. Liberati, come il padre, al crollo del nazismo, Maurizio ed Enrico d’Assia furono poi ripetutamente a Villa Jela, ad Alessandria d’Egitto, ove Vittorio Emanuele III prese dimora dopo la partenza dall’Italia per l’estero (9 maggio 1946). Lo ricordò l'ultimo aiutante di campo del Re, Tito Torella di Romagnano nel suo limpido memoriale “Villa Jela” (ed. Garzanti). Della morte della principessa (vittima della deportazione, del bombardamento anglo-americano, del probabilmente voluto ritardo nella cura delle gravissime ferite) non si doveva parlare tra fine della guerra e il referendum istituzionale poi fissato per il 2-3 giugno1946. La morte di Mafalda in campo di concentramento provava che Casa Savoia aveva duramente pagato la sua opposizione al dominio nazista. Dal settembre 1943 la Corona aveva trasformato il conflitto in lotta di liberazione. Ancora una volta, come Carlo Alberto aveva promesso a Massimo d'Azeglio, essa aveva posto a servizio della Patria la persona del sovrano, i suoi figli e i suoi beni. Eppure doveva rimanere misconosciuta la figura di Mafalda, delicata e forte a un tempo, dedita alla beneficenza al pari della madre, Elena. Per quotidiani ed emittenti radiofoniche incitanti all’odio e al disprezzo di tanti “antifascisti” (che nei confronti della monarchia usarono gli stessi argomenti dei più fanatici “repubblichini” di Salò) la morte di Mafalda in un campo di concentramento nazista sparigliava le carte. Lo stesso valeva per la sorte della figlia minore dei sovrani, Maria, di cui ha scritto la principessa Maria Gabriella di Savoia in La vita a Corte in Casa Savoia. Né se ne poté scrivere dopo il referendum, frutto di migliaia di brogli largamente documentati in documenti mai confutati. Il silenzio su Mafalda coprì due altri aspetti della verità. Anzitutto la pietas di padre Herman Joseph Tyl. Questi ne riconobbe la salma, con sollecitudine la sottrasse al forno crematorio, cui era destinata, e la fece avviare a Weimar ove fu sepolta come “donna sconosciuta”. Nel lager del resto la Principessa era stata registrata sotto il nome di “frau von Weber”. Sette marinai di Gaeta internati a Weimar però ne individuarono la sepoltura e la segnarono. Fu la conferma della fraternità nel dolore, propria degli italiani. Ma anche questo doveva passare sotto silenzio, come ha ricordato Mariù Safier nella oggi introvabile biografia di Mafalda, scritta con penna lieve e ricchezza documentaria (Mafalda di Savoia Assia dal bosco dell'ombra, poi arricchita in Mafalda di Savoia Assia. Un ostaggio nelle mani di Hitler, ed. Bastogi). Ricomporre la Memoria Quasi ottant'anni dopo il cambio istituzionale del giugno 1946 la straziante sorte di Mafalda di Savoia-Assia s'impone quale parte integrante della storia dell’Italia del Novecento. I sovrani, il principe ereditario, tutta Casa Savoia portarono il lutto al braccio, come milioni di connazionali. Erano gli stessi che all’inizio del secolo avevano scommesso su un progresso civile, morale e sociale ininterrotto, senza traumi bellici. Poi però l'Italia dovette fare i conti con la Grande Guerra e nel ventennio seguente fronteggiare la grande depressione economica con l’IRI, le bonifiche, il rilancio industriale e manifatturiero, sempre nella certezza che il lavoro premia più delle avventure belliche. La concordia deve prevalere sull'odio, sull'invidia di classe, sulle falsità spacciate per storiografia, come deplora Angelo Squarti Perla nel saggio Le menzogne di chi scrive la storia, di imminente pubblicazione per la BastogiLibri. Quell’Italia commise vari errori, e anche gravi. Ma in una monarchia statutaria responsabile degli errori non è solo il Re (né, meno ancora, un sovrano costituzionale e “isolato” quale fu Vittorio Emanuele III) sibbene l’intera dirigenza, a cominciare dalla Camera dei deputati, dal 1919 eletta a suffragio universale maschile e quindi de cittadini che dal 1924 in poi votarono compattamente a favore del Partito nazionale fascista, anche quando divenne “partito unico”. Nessuno si oppose all'intervento in uerra del 10 giugno 1940. Osò dirlo con franchezza il principe Aimone di Savoia, duca d'Aosta. Privato della carica militare, fu a sua volta costretto all’esilio. Lo scrisse suo figlio, Amedeo di Savoia, in Cifra Reale. Il ricordo della figlia del Re morta nel campo di sterminio ove s’ergeva la Goethe Eiche, la Quercia di Goethe, costituisce dunque un invito perpetuo a riflettere sulla storia d'Italia del Novecento con passione, perché si tratta di pagine dolenti, ma finalmente anche senza pregiudizi né paraocchi. Casa Savoia, ne emerge con chiarezza, fu tutt’uno con ogni altra famiglia dell’“itala gente da le molte vite”. Il martirio di Mafalda ne è appunto il suggello. Vanno aggiunte poche altre osservazioni. Con la Grande Guerra crollarono gli imperi di Russia, Turchia, Austria-Ungheria e Germania. Il Regno d'Italia rimase l'unica monarchia costituzionale rilevante nell'Europa di terraferma. Vittorio Emanuele continuò la “grande politica” degli avi, con il conferimento del Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata e alleanze dinastiche. A parte le nozze della primogenita Jolanda (“Anda”) con il conte Carlo Calvi di Bergolo, nel 1925 “Muti” andò in sposa al luterano Filippo d'Assia, Filippo, che operava per traghettare la Germania dal caos postbellico verso la stabilità. La terzogenita, Giovanna, sposò l'ortodosso Boris III, zar dei Bulgari. La Santa Sede non gradì né l'uno né l'altro matrimonio. Ma il Re, che nel 1896 aveva sposato Elena di Montenegro, di famiglia ortodossa, pensava anzitutto all'Italia nel difficile quadro europeo (l'URSS non era uno stato amico...) e alla libertà di coscienza di tutti gli italiani. Nella sua difficile opera non venne affatto aiutato dai “politici” né da altri. Un re vissuto in solitudine (come Vittorio Emanuele III drammaticamente fu dal 1938 in poi) è paradigma per i capi dello Stato d'Italia, talvolta “sotto assedio” anche dopo l'avvento della Repubblica. Aldo A. Mola
DIDASCALIA: La principessa Mafalda di Savoia (Roma, 19 novembre 1902 – Buchenwald, 28 agosto 1944), sposata con il langravio Filippo d'Assia. Oltre alle biografie citate nell'articolo va ricordata quella scrittane da Cristina Siccardi e Domenico Agasso. V. anche il volume “Villa Polissena” a cura di Mariù Safier.