
Nell'altorilievo in bronzo sovrastante lo scranno del presidente della Camera dei deputati a Monte Citorio lo scultore Davide Calandra pose al centro la Monarchia costituzionale, fiancheggiata dalla Diplomazia e dalla Forza, il cui impiego, insegnò Carl von Clausewitz, è la prosecuzione della guerra con altri strumenti. Nella Festa delle Forze Armate va ricordato chi comandò l'Esercito nella Grande Guerra. Luigi Cadorna, come suo padre Raffaele, suo zio Carlo e suo figlio Raffaele, fu militare nutrito di pensiero politico e istituzionale, con una visione ampia della storia dei popoli. Fu anche specchio dei nodi irrisolti dell'Italia nata dalla preparazione risorgimentale ma infine sorta nel volgere di pochi mesi e, di seguito, impegnata a consolidare i muri portanti a scapito dell’armonia tra le sue componenti. Il Regno d'Italia che, mutata la forma istituzionale, continua nella Repubblica, nacque nel marzo 1861 dal concorso della diplomazia e della spada sotto le insegne dei sovrani sabaudi. Alla sua base ebbe lo Statuto, promulgato da re Carlo Alberto di Savoia-Carignano il 4 marzo 1848, poco prima della guerra contro l'impero d'Austria, ricordata come prima guerra per l'indipendenza e l'unità nazionale. Quel cammino fu continuato e coronato da suo figlio, Vittorio Emanuele II, primo Re d'Italia, e, dopo gli anni di Umberto I (1878-1900), da Vittorio Emanuele III, durante il cui regno lo Stato raggiunse il massimo di espansione territoriale con il confine al Brennero e al Quarnaro e con l'annessione di Fiume. Le premesse del percorso che condusse alla proclamazione del Regno furono il regio editto del 27 novembre 1847, che rese elettivi i componenti dei consigli comunali, provinciali e divisionali, e lo Statuto che trasformò la monarchia amministrativa in “rappresentativa” e istituì il Senato di nomina regia e vitalizia e la Camera dei deputati elettiva. Quelle riforme generarono l'avvento di una vastissima e partecipe classe dirigente, politica e amministrativa. I “mandamenti” per l'elezione dei consiglieri provinciali e i collegi uninominali per quella dei deputati propiziarono la scelta di candidati di pregio, fermo restando che i parlamentari non rappresentavano i votanti ma “la Nazione in generale” e che “nessun mandato imperativo poteva loro darsi dagli elettori”: un cardine ribadito dall'art. 67 della Costituzione, che recita: “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita e sue funzioni senza vincolo di mandato”. Lo Statuto precisò altresì che il Capo dello Stato “comanda tutte le forze di terra e di mare”, come fu poi confermato anche dalla Carta repubblicana. Esso non fu altrettanto chiaro laddove enunciò che il re “dichiara la guerra, fa i trattati di pace, di alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano...”. Lo Satuto non rilevò la differenza tra deliberare, dichiarare e proclamare la guerra: tre “momenti” separati per la diversità dei suoi “attori”. Lo percepì subito il quarantenne conte Camillo Benso di Cavour. A sostegno del governo nell'intervento in guerra contro l'Impero russo a fianco di Gran Bretagna, Francia e impero turco egli volle non solo la sanzione del Re ma anche il voto delle Camere. Lo Statuto tacque su corpo diplomatico e assetto delle forze armate, evocati solo nell'elenco delle categorie dalle quali il sovrano traeva i membri del Senato: i “ministri di Stato” (altra cosa dai “ministri Segretari di Stato”), gli ambasciatori e gli ufficiali generali di terra e di mare dopo almeno cinque anni di nomina nel grado. Tacque altresì sul comando dell'Armata sarda. Il nodo Re-ministro della guerra-comandante dell'Armata era e rimase ingarbugliato perché per Statuto il potere esecutivo apparteneva “al re solo”. Però il sovrano non era “responsabile”; lo erano i ministri. Le leggi e gli atti del governo, sanzionati dal sovrano, non avevano vigore se non muniti dalla firma di un ministro. Il nodo (o “equivoco” come scrisse Piero Pieri nella “Storia militare del Risorgimento”) del comando in guerra venne temporaneamente risolto il 7 febbraio 1849 con la nomina del generale polacco Wojchiech Chrzanowski al comando dell'Armata “sotto la sua responsabilità, in nome del Re”, come “general maggiore dell'Esercito”, “con “comando effettivo”, però affiancato da Alfonso La Marmora, ministro della Guerra dal 2 febbraio. L'ambiguità si ripresentò nel 1859, allorché il regno di Sardegna, aggredito dall'Austria, entrò in guerra, forte dell'alleanza con Napoleone III, e nel 1866, quando i generali Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini, comandanti delle due armate schierate contro l'impero d'Austria, operarono senza l'indispensabile coordinamento. Come ha evidenziato il generale Oreste Bovio nella “Storia dell'Esercito italiano”, la legge 29 giugno 1882, n. 831 istituì il Capo di stato maggiore dell'esercito. Le sue attribuzioni furono stabilite col regio decreto del 29 luglio seguente. Ne furono titolari Enrico Cosenz (1882-1893), Domenico Primerano (sino al 1896, dopo Adua), entrambi già allievi della borbonica Scuola Militare Nunziatella di Napoli, e il torinese Tancredi Saletta. Quando questi fu collocato a riposo per limiti di età, il 27 giugno 1908, il generale più anziano e quindi vocato alla successione (“l'anzianità fa grado”, recitava un efficace brocardo) era il cinquantottenne Luigi Cadorna (Pallanza, 4 settembre 1850-Bordighera, 21 dicembre 1928), maggior generale dal 10 agosto 1898, tenente generale dal 10 gennaio 1905 e al comando della Divisione militare di Napoli dal 28 marzo 1907. Come egli stesso scrisse in “Pagine polemiche” e ribadisce lo storico Perluigi Romeo di Colloredo Valls (2021), con procedura inconsueta la “successione” fu subordinata ad “accertamento”. Il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 aveva stabilito che tra le questioni di ordine pubblico e di alta amministrazione da sottoporsi al Consiglio dei ministri vi fossero «le nomine e destinazioni dei comandanti di corpi di armata e di divisioni militari; le nomine del capo di stato maggiore dell'esercito e del primo aiutante di campo di S.M. il Re, del presidente del tribunale supremo di guerra e marina, del comandante generale dell'arma dei reali carabinieri; le nomine di comandanti in capo di forze navali e dei comandanti di divisioni all'estero; le nomine e destinazioni dei comandanti in capo dei dipartimenti marittimi». In vista della sostituzione di Saletta, da tempo malato, l'8 marzo 1908 il generale Ugo Brusati, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, chiese a Cadorna di dichiarargli “schiettamente” se davvero subordinasse la nomina a capo di stato maggiore all'ampliamento per legge dei suoi poteri soprattutto in vista della guerra che ormai aleggiava in Europa. La risposta fu netta: «S(ua) M(aestà) che dallo Statuto è creato Comandante Supremo, è pur dallo stesso dichiarato irresponsabile. Ma il comando non può neppure esistere senza un responsabile il quale perciò non può essere che il capo di S(tato) M(aggiore). Ma la responsabilità ha per necessario correlativo: 1. La libertà d'azione nella condotta delle operazioni; 2. La libertà d'azione nella preparazione della guerra in ciò che ha rapporti colle operazioni; 3. La esclusione dagli alti comandi di coloro che non ispirano la necessaria fiducia.» Cadorna, pur non intendendo mettere in discussione le prerogative statutarie del sovrano, osservò che il decreto legge 4 marzo 1906 aveva definito i poteri del capo di stato maggiore in tempo di pace ma non in guerra. «A deliberare – concluse – dev'essere uno solo: il responsabile.» Perciò il 1° luglio 1908 capo di stato maggiore venne nominato Alberto Pollio, nativo di Caserta, di due anni più giovane di Cadorna. Imperando Giolitti, che impose a Vittorio Emanuele III l'immediato collocamento a riposo di Vittorio Asinari di Bernezzo per alcune sue parole di sapore irredentistico, Cadorna ritenne ormai improbabile l'ascesa al vertice dell'esercito. La sua esclusione da comandi operativi negli anni seguenti ne suscitò reazioni sdegnate. Il 23 agosto 1912, a proposito della ventilata nomina del generale Ragni a governatore civile e militare della Libia, scrisse al figlio Raffaele: «Nominare un altro senza neppure dirmi crepa sarebbe un vero schiaffo datomi in piena guancia». Avrebbe risposto con la richiesta “ipso facto” del collocamento a riposo.
Nella Grande Guerra
La notte del 1° luglio 1914, quattro giorni dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo per mano di un terrorista serbo eterodiretto, Pollio morì improvvisamente a Torino. Su cause e circostanze del suo decesso furono ricamate insinuazioni e leggende. Dal 20 marzo 1910 Cadorna era comandante della IV divisione militare (Genova-Piacenza). Ormai prossimo al congedo per motivi di età, progettava di prendere casa in Liguria. Ma il 10 luglio fu nominato capo di stato maggiore. Presidente del Consiglio da quattro mesi era Antonio Salandra, in successione a Giolitti; ministro degli Esteri era il catanese Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano: il “politico” italiano più stimato da Vittorio Emanuele III. Nel volgere di poche settimane esplose la Conflagrazione europea: sequenza di mobilitazioni, ultimatum, dichiarazioni di guerra. Appena insediato, sulla scia del predecessore, Cadorna approntò il piano di intervento a fianco di Vienna e Berlino, cui Roma era legata dal trattato difensivo del 20 maggio 1882. Prospettò l'invio massiccio di corpi d'armata sul Reno a fianco della Germania per chiudere rapidamente la partita contro la Francia, inattaccabile dalle Alpi. Quel progetto, pubblicato da Cadorna nel 1925, rimase “agli atti”. Mese dopo mese divenne chiaro che la guerra sarebbe durata a lungo e che per l'Italia, vulnerabile su tutti i confini terrestri e marittimi e dipendente dall'estero per il proprio sistema produttivo e alimentare, sarebbe stato impossibile rimanerne fuori. Di lì la preparazione e, di seguito, la “mobilitazione occulta” orchestrata da Cadorna per portare lo strumento militare al livello necessario. Senza informarlo, il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, dopo lunga segreta trattativa fecero sottoscrivere dall'ambasciatore d'Italia a Londra Guglielmo Imperiali l'“arrangement” del 26 aprile 1915. Solo il 6 maggio Cadorna fu sbrigativamente informato che l'Italia doveva intervenire entro due settimane. Ministro della guerra era il maggior generale Vittorio Zupelli. Il suo predecessore, Domenico Grandi, il 23 settembre 1914 aveva comunicato al governo le condizioni dell'esercito in vista di una mobilitazione generale concludendo che non si trovava nel complesso nelle condizioni desiderabili «per affrontare senza preoccupazione una campagna di guerra». L'esercito avrebbe fatto «come sempre, il proprio dovere« tanto più se si fosse sentito «sospinto e accompagnato dal consenso del Paese» il cui miglior giudice però era il governo. Il governo rispose sostituendolo. Salandra e Sonnino compirono errori sconcertanti. Nel loro carteggio ammisero di essere andati oltre il consenso esplicito del re, del governo e senza maggioranza in parlamento. Impegnarono l'Italia a entrare in guerra entro 30 giorni dalla firma contro «tutte le potenze» dell'Intesa. A differenza di quanto aveva progettato San Giuliano, fautore di una Quadruplice Intesa, l'“accordo” (non vero e proprio Trattato) comportò l' “adesione” alla Triplice Intesa, non l'inclusione “alla pari”. Perciò l'Italia fu tenuta all'oscuro degli impegni assunti dalla Triplice Intesa al proprio interno. Il peso della guerra venne scaricato sul capo di stato maggiore, non consultato neppure sui “compensi” chiesti da Salandra e Sonnino, quasi la difesa dei futuri confini dell'Italia fosse una variabile della “politica” anziché vincolante sotto il profilo militare per un Paese dal dominio coloniale vasto, costoso e impegnativo (Eritrea, Somalia e Libia). Il precario equilibrio del governo Salandra-Sonnino fu sull'orlo di precipitare quando il 13 maggio 1915 il consiglio dei ministri verbalizzò: «Considerando che intorno alle direttive del governo nella politica internazionale manca il concorde consenso dei partiti costituzionali che sarebbe richiesto dalla gravità della situazione, delibera di presentare a S.M. il Re le proprie dimissioni». A mobilitazione ormai avviata, Giolitti, secondo il quale l' “accordo di Londra” non vincolava lo Stato ma solo il governo, declinò l'invito a formare un nuovo esecutivo. Nessun altro se ne fece carico. Al Re non rimase che inviare alle Camere il governo in carica. Il 17 maggio il consiglio dei ministri approvò «il disegno di legge da presentare alla Camera per delegazione di poteri legislativi in caso di guerra e per l'esercizio provvisorio». Benché in larghissima maggioranza contraria all'intervento, il 20 maggio la Camera approvò la proposta con l'opposizione dei soli socialisti. L'indomani altrettanto fece il Senato, pressoché unanime. All'opposto di Giolitti, che prevedeva una guerra di molti anni, Salandra lasciava intendere, e forse ne era persino convinto, che il conflitto sarebbe terminato entro l'autunno. Dal canto suo, perfettamente a giorno sulle condizioni effettive dello strumento militare, logorato dall'impresa di Libia e da decenni di investimenti inadeguati, come poi scrisse nelle “Memorie” Cadorna riteneva che l'Italia non potesse affrontare una guerra “grossa” (cioè con largo impiego di uomini e armi) e “lunga”. Come documentato nell'“Inchiesta sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave: 24 ottobre-9 novembre1917”, l'Italia disponeva di una mitragliatrice per ogni chilometro di fronte. Pressoché inesistente erano l'artiglieria pesante e l'aviazione. Si producevano 2500 fucili al mese, a fronte di almeno un milione di uomini da mettere subito in campo. Occorrevano ufficiali e sottufficiali adeguatamente preparati. Eletta per la prima volta a suffragio maschile quasi universale nell'ottobre 1913, la Camera che nel maggio 1915 si era sentita ricattata da Salandra rimase in agguato. Contro l'opinione (corrente non solo all'epoca) secondo la quale il Parlamento “non fa crisi” mentre lo Stato è in guerra, nel giugno 1916, dopo la spedizione austro-ungarica di primavera, la Camera sfiduciò Salandra. Il nuovo esecutivo, presieduto dall'anziano Paolo Boselli, con sette ministri senza portafoglio e molti esponenti tiepidi nei confronti dell'intervento, ebbe all'Interno il siciliano Vittorio Emanuele Orlando che doveva garantire il sostegno del Mezzogiorno senza “provocare” le opposizioni, in specie i socialisti. La “politica” risultò sempre più divaricata rispetto alle esigenze vitali dell'esercito illustrate da Cadorna a Boselli in quattro lettere del 6, 8 e 13 giugno e del 18 agosto 1917 mentre da mesi in Russia, dopo il rovesciamento dello zar, imperversava la rivoluzione. Con grado invariato, anche se correntemente detto “Comandante Supremo” e “Generalissimo”, Cadorna chiese ripetutamente quali misure il governo intendesse adottare per combattere «i nemici interni, altrettanto se non più temibili di quelli che abbiamo di fronte» (8 giugno) e così prevenire «il crescente spirito di rivolta tra le truppe» (13 giugno) anche a cospetto di gravi reati militari, compreso il passaggio al nemico (18 agosto). Cosciente dei rischi cui erano esposti il Paese e la Monarchia mentre dilagavano renitenza alla leva e diserzioni, a cominciare dalla Sicilia, Cadorna non esitò a deplorare: «il governo sta facendo una politica interna rovinosa per la disciplina e per il morale dell'Esercito, contro la quale è mio stretto dovere protestare con tutte le forze dell’animo.» Boselli (che aveva “paura fisica” di Cadorna) non rispose. Orlando attese il suo momento. Questo venne con l'offensiva austro-germanica del 24 ottobre1917. Il fronte venne arretrato secondo il piano predisposto da Cadorna anni prima e si attestò sulla linea dalla destra del Piave al Grappa, debitamente fortificato. Cadorna ribaltò la sconfitta (non una “disfatta”) in battaglia d'arresto. Va ricordato che due mesi prima, a cospetto della decisione di Cadorna di passare dallo schieramento offensivo al difensivo, inglesi e francesi ritirarono i cannoni avaramente “prestati” all'Italia. Lo stesso 24 ottobre, ancora ignara di quanto stava avvenendo al fronte, la Camera sfiduciò il governo Boselli. All'emergenza militare si aggiunse quella politica. Mentre Cadorna orchestrava l'arretramento, Orlando, in un colloquio con il Re, subordinò l'accettazione dell'incarico di formare il governo alla sostituzione del Comandante Supremo. Al suo posto fu dunque nominato Armando Diaz, che, a parte aspetti estrinseci, operò nel solco del predecessore, compresa l'applicazione del codice penale militare, consolidò l'Esercito grazie allo sforzo del sistema produttivo interno, sorretto dal lancio di nuovi prestiti nazionali e dall'assicurazione sulla vita dei combattenti per intervento dell'INA, ideata dal massone Alberto Beneduce, e respinse le ingerenze del governo sul punto essenziale: il suo comando, la decisione di se e quando muovere in battaglia. Quando Orlando insisté per un'offensiva accampando che era meglio una nuova Caporetto che la stasi Diaz non rispose, consapevole che una seconda sconfitta sarebbe stata catastrofica. Per alto senso del dovere verso la Patria Cadorna accettò di guidare la delegazione dell'Italia a Versailles, sede del comando interalleato. Era stato sempre il più coerente fautore della conduzione unitaria della guerra europea e, uomo del Risorgimento, contro i criteri di Sonnino (sino all'ultimo contrario alla dissoluzione dell'impero austro-ungarico), aveva propugnato l'offensiva dell'Italia su Lubiana e Zagabria per suscitare la rivolta dei “popoli senza Stato” che divampò nell'Europa orientale nell'ottobre 1918 e determinò il collasso degli Imperi centrali. A quel punto, però, Luigi Cadorna era già stato richiamato in Italia “a disposizione” della Commissione d'Inchiesta sugli avvenimenti del 1917. Per giudizio unanime dei più illustri generali e storici militari dei diversi Stati in lotta, Luigi Cadorna fu il comandante più capace e lungimirante della Grande Guerra.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Luigi Cadorna Comandante Supremo. Su Cadorna v. Pierluigi Romeo di Colloredo Valls, Luigi Cadorna. Una biografia militare, 2021, con ampia bibliografia; Luigi Cadorna-Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Luigi Cadorna, Roma, BastogiLibri, 2020; Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana fino all'arresto sulla linea della Piave e del Grappa, edizione anastatica, con introduzione di Aldo A. Mola, Roma, BastogiLibri, 2019.