Le vie imperiali...
Sconfitto a Waterloo a metà giugno 1815, Napoleone “passò”. Ma lasciò molto più di una labile “orma”. A parte i Codici, rimasti modello per tanti Paesi, consegnò ai posteri le strade che ancora ne portano il nome, le migliori d'Europa dal tempo dei romani. Come narrò Hermann Schreiber in “Le vie della Civiltà. Strade e percorsi storici” (Edizioni Odoya), il declino dei “Cesari” portò con sé quello della rete viaria estesa dalla Città Eterna alle più remote province dell'impero. Assediata da erbacce, essa affondò sotto la polvere dei secoli. Anche la civiltà classica finì tra le sepolte. Con il repentino disfacimento del Sacro romano impero agli insediamenti sulle coste, fiorenti in età romana, furono preferiti borghi arroccati in posizioni più difendibili in caso di scorrerie ma poveri di collegamenti. Il nemico era ovunque. Quando iniziarono a riaversi, le comunità investirono in mura e chiese fortificate molto più che in strade. Sotto l'avanzata araba e quella, successiva, turco-ottomana l'Europa si restrinse. La svolta giunse con Napoleone. La rete stradale serviva ai fulminei spostamenti delle sue armate, come quella romana per le legioni, e per vivificare il commercio all'interno del “blocco continentale”. Affrontò d'impeto gli ostacoli naturali, a cominciare dalle Alpi, aggredite dalla Costa Azzurra al confine italo-elvetico. Nel decennio 1839-1847 i Congressi degli scienziati italiani ideati Carlo Luciano Bonaparte, nipote dell'imperatore e principe di Canino, proposero di abbattere le barriere doganali e di potenziare la rete viaria sull'esempio di Gran Bretagna e Francia. Vaganti dall'una all'altra città storica (ma con esclusione del diffidente Stato pontificio) gli scienziati sapevano quanto fosse arduo viaggiare e trovare albergo per una sosta prolungata e bisognosa non solo di un'aula per svolgere i lavori assembleari ma di ampi spazi per scambiarsi informazioni riservate. Lasciati da parte i pugnali carbonari e mazziniani, essi mirarono a formare l'“opinione nazionale”. Erano “i fatti” a parlare. L'incremento della produzione agricola e manifatturiera esigeva una concezione delle vie di comunicazione non soffocata da controlli di polizia e dazi doganali.
...e quelle ferrate: primato del Vecchio Piemonte
A differenza degli altri Stati d'Italia, il “Piemonte” albertino aveva dinanzi a sé una sfida: le Alpi. La raccolse proprio sulla traccia di Napoleone. Con le patenti del 18 luglio 1844 Carlo Alberto di Savoia impostò lo schema della rete ferroviaria da realizzare nel regno, con priorità per la Torino-Alessandria-Genova con la diramazione da Alessandria a Novara e al Lago Maggiore. Ma, come bene documentano Marco Albera ed Enrico Cavallo in “L'altro Risorgimento. Cronache del traforo del Fréjus” (Centro Studi Piemontesi), il progetto generale concepito da Bartolomeo Bona, capo dell'Azienda generale delle strade ferrate, su impulso di Des Ambrois de Nevache, comprese anche l'ardita impresa del Fréjus. Le strade erano molto. Lo sapeva bene Cavour, che conosceva le difficoltà e il costo aggiunto per il trasporto del suo vino dalle Langhe a Torino. Ma ormai non erano più tutto. Proprio mentre ferveva il loro potenziamento si affacciò dirompente la “strada ferrata”, sull'esempio di quanto avveniva nei Paesi di seconda industrializzazione come Gran Bretagna, Belgio e Francia, avvantaggiati dalle caratteristiche orografiche dei loro territori. Le ferrovie richiesero maggior lungimiranza politica e convergenza tra vertici dello Stato, amministrazioni locali, concorso finanziario pubblico e privato e apertura a imprenditoria estera, attratta da opportunità e da generose “concessioni” di lunga durata. Nel suo insieme l'Italia arrivò tardi a dotarsi di una rete ferroviaria. In quell'ambito il Vecchio Piemonte svettò. Nella primavera del 1859, alla vigilia della guerra franco-piemontese contro l'impero d'Austria, metà delle linee ferroviarie dell'intera penisola erano sue. I numeri parlano da soli: il “Piemonte” contava 802 chilometri di ferrovie contro i 298 del Veneto, i 202 della Lombardia, i 256 della Toscana, i 101 dello Stato Pontificio e i 98 del regno delle Due Sicilie, che era il più ampio tra gli Stati italiani. Alla proclamazione del regno d'Italia (14 marzo 1861) intere regioni dell'Italia centro-meridionale erano ancora povere o del tutto prive di strade ferrate. Sicilia, Puglia, Basilicata, Abruzzo non ne avevano neppure un chilometro. Torino aveva capito prima di Napoli che l'Italia era la scorciatoia dal Canale della Manica a quello di Suez, la cui apertura procedeva rapidamente, e quindi per le Indie e l'Estremo Oriente, ove l'Inghilterra conduceva la spietata “guerra dell'oppio”. La radice della “questione meridionale”, oggi pressoché scomparsa dai riflettori della storiografia, è tutta lì: nell'incapacità dei Borbone delle Due Sicilie di pensare in europeo o almeno “in mediterraneo”. Si ritenevano invulnerabili tra l'acqua salata e l'Acqua Santa. Nell'ottobre 1860 Vittorio Emanuele II di Savoia varcò il passo del Macerone, invase il regno e, in raccordo con Garibaldi, giunto a Napoli dalla Sicilia, lo soggiogò senza neppure dichiarare guerra.
Il Traforo de Fréjus, prima che l'Italia venisse
Quelle scelte politiche fecero la differenza e si proiettarono sul secolo successivo. Altrettanto vale per la legge che il 15 agosto 1857 decise l'apertura del traforo ferroviario del Fréjus: un'impresa ciclopica da molti considerata impossibile o comunque al di sopra delle risorse del regno di Sardegna. A distanza di un oltre un secolo e mezzo merita riflettere sul fatto che essa venne deliberata quando nessuno aveva in cantiere la futura cessione della Savoia alla Francia di Napoleone III. Fu dunque una decisione maturata all'interno e per l'interno del regno, ma al tempo stesso per farne il “ponte” tra l'Italia settentrionale e l'industre e pingue Europa centro-occidentale. Il colloquio tra Napoleone III e Cavour a Plombières del 21 luglio dell'anno seguente, al netto delle leggende, non contenne né lo sbarco dei Mille a Marsala, né l'annessone di Venezia, né, meno ancora, l'irruzione di Porta Pia del 20 settembre 1870. Prevedeva certamente Milano, per secoli agognata da Casa Savoia, premessa del futuro triangolo industriale ligure-piemontese-lombardo proiettato ad assorbire i Ducati padani, l'Emilia e la Romagna, eliminandovi le Legazioni. Ma quelli erano i “confini” del ragionamento e delle speranze: un regno sabaudo dell'“Alta Italia”, senza pregiudizio per il controllo dei valichi orientali da parte dell'impero d’Austria. Anche dopo la proclamazione del regno d'Italia, quando furono celebrati i congressi straordinari di Firenze (1861) e di Siena (1862), le comunicazioni stradali e le strade ferrate rimasero nominalmente estranee agli interessi degli scienziati italiani, che si occupavano di fisica e matematica, chimica e farmaceutica, botanica e zoologia, medicina e chirurgia, agronomia e veterinaria, archeologia e storia, filologia e linguistica, economia politica e statistica, filosofia e legislazione, pedagogia. La svolta maturò dopo l'annessione di Roma e del Lazio. Per l'XI congresso, presieduto da Terenzio Mamiani, massone di lungo corso, venne pubblicato il volume L'Italia economica nel 1873 (Roma, Tip. Barbera). Imponente per i tempi, esso calcò il modello dei censimenti: meteorologia, idrografia, popolazione, istruzione pubblica (con speciale attenzione per quella industriale e professionale), giustizia penale e civile, carceri, opere pie, esercito, marina, lavori pubblici, finanze dello Stato, delle provincie e dei comuni e statistica elettorale. Nella sezione dei lavori pubblici al penultimo posto comparvero le strade ferrate: appena dieci pagine contro le ventidue dedicate alle strade ordinarie, non per sottovalutazione ma perché queste erano di gran lunga più sedimentate nell'attenzione dei governi. Tuttavia l'Italia economica scrisse che la costruzione di ferrovie stava procedendo “con non minore alacrità” e vantò con orgoglio “il gran tunnel del Cenisio, aperto al pubblico il 16 ottobre 1871, opera gigantesca e ritenuta chimerica fino a questi ultimi anni”. Ne descrisse i requisiti, ne elogiò gli artefici e ne indicò il “costo totale”. Quella galleria era motivo di vanto, ma bisognava guardare al futuro. Erano in costruzione altri 1118 chilometri di strade ferrate, 674 dei quali a totale carico dello Stato. Le loro “condizioni eccezionali”, per le “difficoltà tecniche” opposte dal territorio (basti pensare alla costiera ligure e agli Appennini), imponevano qualche comprensibile ritardo. Ma la Nuova Italia non rinunciava all'obiettivo: fare delle linee ferroviarie le arterie per unificare davvero il Paese. Non bastasse, lungi dal ripiegarsi sul territorio nazionale, “dopo maturi studi e lunghe trattative”, il Governo italiano il 15 novembre 1869 aveva stipulato con la Confederazione Elvetica una convenzione, con adesione del governo germanico, per la costrizione di una ferrovia attraverso il San Gottardo: altra impresa audacissima, ammirata da tutti i paesi civili, accennata con poche sobrie parole. Strateghi del processo economico in corso, innervato sul ministero della Pubblica istruzione retto da Cesare Correnti, erano statisti quali Giovanni Lanza e Quintino Sella, titolare delle Finanze e successore di Correnti alla Minerva. A chi si rivolgevano progettisti e fautori delle strade ferrate? La risposta va cercata nella struttura della monarchia rappresentativa fondata da Carlo Alberto con lo Statuto del 4 marzo 1848, preceduto dalle regie patenti che nel novembre 1847 resero elettivi i consigli comunali, provinciali e divisionali e mobilitarono migliaia e migliaia di cittadini chiamati a concorrere alla vita pubblica di concerto con l'amministrazione e gli “uffici”. La Carta albertina fissò la cornice dello Stato: il Re, il “suo” governo (l'esecutivo) e il Parlamento (il legislativo), formato da una Camera di nomina regia e vitalizia e da una elettiva. Quest'ultima era e sarebbe rimasta il luogo proprio delle deliberazione delle leggi di bilancio, con priorità rispetto al Senato. L'elettività propiziò l'avvento di una dirigenza rappresentativa degli interessi superiori dello Stato, perché da un canto liberò gli eletti da ogni mandato da parte dei votanti, dall'altro esortò implicitamente gli elettori ad affidarsi a rappresentanti effettivamente competenti. Se insoddisfatti, al prossimo turno elettorale se ne sarebbero disfatti. La costruzione di una ferrovia non era però cosa di breve durata, come i quattro-cinque anni (a volte anche meno) di una legislatura. Si verificò dunque un miracolo nel miracolo. Mentre la Nuova Italia s’impegnava nella realizzazione di opere gigantesche, gli elettori confermarono reiteratamente la loro fiducia a deputati di sicura capacità, tra i quali spicca un cenacolo di “ingegneri ferroviari” vocati a spiegare nelle Aule parlamentari quanto occorreva per modernizzare l'Italia. Andavano dove portavano i binari ancora da gettare, le stazioni da edificare, la complessa ricerca di soluzione dei tanti conflitti tra amministrazioni comunali, circondariali, provinciali e interessi d'ogni classe. Eletto deputato dai collegi di Taninges, Aosta e di Susa Germano Sommeiller fu il meno longevo dei tre ingegneri ferroviari istoriati nella ghiotta opera di Albera e Cavallo. Severino Grattoni rappresentò i collegi di Varzi, Ceva e Voghera. Più giovane di tutti fu Luigi Ranco, che vagò dalla sua nativa Asti a Francavilla e a Borgo San Dalmazzo, la terra di Sebastiano Grandis, altro pioniere delle strade ferrate, per riprenderne la linea Cuneo-Nizza. Dal suo maestro, Pietro Paleocapa, Ranco aveva appreso la non facile arte di ottenere i finanziamenti per la costruzione di ferrovie e la solidarietà della miriade di mediatori necessari per rimuovere le opposizioni al tracciato man mano che esso prendeva corpo. Quando la strada ferrata, talora modificando i progetti originari, arrivava in prossimità di uno dei tanti paesini del percorso in programma ogni suo chilometro diveniva oggetto di dispute animate giacché mutava dall'oggi al domani il valore delle aree contigue. Perciò fu bersaglio di riserve e persino di accuse di collusione con notabili che ottennero altrimenti inspiegabili deviazioni dal tracciato originario. Ma tutto era possibile all'epoca. Anche illudere vaste cerchie di elettori con progetti venturosi, come una ferrovia dalla Valle Maira a Marsiglia, come narra l'anonimo volume Saluzzo. Un'antica capitale (pref. di Gianni Rabbia, Roma, Newton & Compton, 2001), con tunnel e ponti irrealizzabili e dal profitto irrilevante.
Giolitti postino campestre
Nel 1882 Ranco (1813-1887) chiuse un'epoca. Lasciò il seggio deputatizio per il laticlavio senatoriale. E liberò il collegio di Borgo San Dalmazzo a beneficio di Luigi Roux, direttore-proprietario di “La Stampa” di Torino, bisognoso di un seggio per meglio influire sull'opinione pubblica, come aveva fatto il suo “predecessore” Vittorio Bersezio. Roux si candidò alla Camera per il Collegio di Cuneo I, in una “terna” comprendente Sebastiano Turbiglio, massone e docente di storia della filosofia alla “Sapienza” di Roma, e il quarantenne consigliere di Stato Giovanni Giolitti, alle sue prime armi come politico e allocato a Cavour, un comune all'epoca privo di collegamenti ferroviari e tramviari, talché a volte andava a piedi da casa a Pinerolo per “prendere il treno” verso Torino e Roma. Da “postino campestre”, come si definiva, nel lungo tragitto meditava sulle impellenti necessità per “fare lo Stato” ed educare gli italiani al senso civico. “Fatta l'Italia”, lunga e impervia, urgeva dotare di servizi minimi le terre che non ne avevano da secoli. Quindi il governo dirottò le sue risorse verso terre lontane dal Vecchio Piemonte. Paradossalmente la Francia divenne più remota proprio quando il traforo del Fréjus giunse a compimento. Travolto Napoleone III a Sedan a inizio settembre 1870, la “sorella latina” si mostrò sempre più arcigna nei confronti dell'Italia, malgrado gli appelli dei democratici (garibaldini, protoradicali...) alla Francia di Victor Hugo e Léon Gambetta, sino alla guerra doganale del 1886, al tragico episodio di Aigues-Mortes e alle contese per gli spazi coloniali, aperte con il protettorato di Parigi sulla Tunisia e proseguite con l'aiuto della Francia a Menelik per tarpare le ali all'avanzata dell'Italia dalla costa eritrea all'interno del Continente Nero. Le opere in stallo sul confine italo-francese tali rimasero per decenni, a cominciare dalla ferrovia Cuneo-Nizza, intrapresa sin dall'età di Cavour ma completata solo nel 1929, poi interrotta per danni bellici, riattata ma sempre ansimante, riscoperta e promessa a ogni turno elettorale, ma sempre più trascurata con malcelata ironia nei confronti di quanti la proposero e ancora la promuovono come la Berna-Marsiglia passando per Cuneo... La storia della rete ferroviaria e in particolare di un'opera come il traforo del Fréjus pone interrogativi di qualche attualità. Anzitutto, come si formano i cittadini e come scelgono da chi farsi rappresentare? In secondo luogo, quali sono le “vie di comunicazione” oggi a loro disposizione? Un tempo pedibus calcantibus, a cavallo o in carrozza essi percorrevano strade; poi salirono sui vagoni ferroviari. Vedevano quel che facevano e bene o male controllavano i conduttori. Ma ora? Chi veglia sulle nuove vie di comunicazioni, nell’incipiente età della misteriosa Intelligenza Artificiale? «A che tante facelle?», si domandava angosciato Giacomo Leopardi quando in Italia le ferrovie mossero i primi… binari.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: “L'altro Risorgimento. Cronache del traforo del Fréjus” di Marco Albera e Giorgio Enrico Cavallo (Progetto grafico di Dino Aloi, Centro Studi Piemontesi, 2024). Munifico collezionista d'arte e di documenti storici, l'architetto Albera, autore di un centinaio di saggi, curatore di mostre e mecenatesco promotore di studi, con il volume festeggia mezzo secolo dell'azienda di famiglia: “Baggio dal 1919”. In quaranta capitoli ornati da 150 illustrazioni d'epoca e ritratti, un'antologia di documenti, succosa cronologia ed esauriente bibliografia gli Autori conducono alla scoperta della sofferta genialità dei progettisti dell’opera (da Joseph Médail a Henri Maus) e degli ingegneri che vi lavorarono: Germano Sommeiller, Sebastiano Grandis e Severino Grattoni. Descrivono le discussioni parlamentari sul Traforo e lo studio delle macchine messe a punto per realizzarlo (come la perforatrice ad aria compressa) sino all'inaugurazione dello scavo (Modane, 31 agosto 1857), presente Vittorio Emanuele II, cui seguì il cantiere di Bardonecchia (14 novembre). Fortemente voluta da Cavour (morto il 6 giugno 1861) con sforzi e sacrifici sovrumani l'opera venne terminata il 25 dicembre 1870. Quintino Sella brindò agli “operai”. Il Traforo del Frèjus fu concepito e avviato quando nessuno riteneva che la nascita del regno d'Italia fosse a portata di mano. Pochi avevano intuito che l'apertura del Canale di Suez (1870: il suo 150° in Italia è passato sotto ottuso silenzio) avrebbe cambiato tempi e modi del commercio mondiale. Dal 1845, quando Carlo Alberto riprese il progetto di Médail, al suo coronamento si susseguirono il Quarantotto, la guerre di Crimea, quella tra franco-sardi e impero d'Austria, la guerra di secessione degli Stati Uniti d'America e quella, devastante, franco-prussiana del 1870, suggellata dalla Comune di Parigi e finita col massacro dei comunardi. Il Traforo del Fréjus dà la misura della grandezza dei sovrani sabaudi e dei loro fiduciari, politici, scienziati, maestranze: persone lungimiranti e determinate. Erano i tempi di “Volere è potere”. Uomini fattivi, non mimi parolai.
Aldo A. Mola