Parole e fatti Nell'articolo“1943 l'anno che cambiò la nostra storia”, pubblicato nella rivista di una prestigiosa associazione d’arma, si rievoca sinteticamente la resa dell'Italia sottoscritta il 3 settembre a Cassibile (Siracusa) dal generale Giuseppe Castellano. «Il giorno seguente il suo annuncio – vi si legge – il re e Badoglio fuggono a Brindisi sotto la protezione degli Alleati. Il 29 settembre a Malta Badoglio ed Eisenhower firmano l'armistizio lungo, con il dettaglio delle clausole, molto pesanti. È la fine del conflitto con le Nazioni Unite, può iniziare quello contro i tedeschi (e i fascisti). […] La fuga del re e l'ambiguità di Badoglio porteranno alla mancata difesa di Roma». Le sintesi costringono a condensare in poche frasi molti eventi. Motivo in più per usare parole appropriate. Sono queste che fanno la differenza tra narrazione e storiografia e avvicinano quest’ultima alla scienza. La storiografia documenta i fatti e li spiega: non li “giustifica”, ma ne lascia al lettore l'interpretazione. L'impiego di parole inadeguate anticipa il giudizio e condiziona chi legge. Poiché quell'articolo riecheggia luoghi comuni da tempo confutati, dopo aver documentato l'irrilevanza del Gran consiglio del fascismo e le “trafile” (la “militare” e la “massonica”, più fantasiosa che effettuale) che supportarono il Re nella decisione di revocare Mussolini e sostituirlo con Badoglio per defascistizzare l'Italia, giova ripercorrere i difficili giorni tra fine agosto e il 12 settembre 1943 anche sulla scorta di documenti poco noti. Di uno che esce da una stanza o da una città va detto che esce. Si aggiungeranno le informazioni disponibili sulle modalità dell'uscita (lenta, frettolosa, precipitosa...). Utilizzare quale sinonimo fuga insinua un giudizio di valore, anche se – va ricordato – non tutte le “fughe” sono disonorevoli. A volte, anzi, risultano necessarie e foriere di Luce. Basti pensare alla più celebre: la “fuga in Egitto” di Giuseppe e Maria per sottrarre il neonato Gesù alla strage degli innocenti. Ma veniamo ai “fatti”. Come si arrivò, cosa contenne e cosa previde la resa dell'Italia sottoscritta in un uliveto in località Santa Teresa Longarini, frazione di Cassibile, provincia di Siracusa, il 3 settembre 1943?
La “missione Castellano” Alla firma l'Italia venne rappresentata da Giuseppe Castellano (Prato, 1893 - Porretta Terme, 1977), generale di brigata dal 1942. Non conosceva una parola di inglese. A lui su indicazione del capo di stato maggior generale Vittorio Ambrosio e con il consenso di Vittorio Emanuele III, che ne aveva apprezzato il ruolo svolto il 25 luglio di concerto con Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, il 7 agosto fu affidato il compito, niente affatto agevole, di contattare il Comando anglo-americano a Lisbona. Accompagnato da Franco Montanari, console a Lisbona, quale interprete, Castellano partì in treno il 12 agosto con documenti artefatti per depistare lo spionaggio germanico. Giunto a Madrid il 15, si recò in visita all'ambasciatore inglese Samuel Hoare, al quale rivelò la sua identità. A lungo in Italia nei servizi segreti militari britannici (secondo Giovanni Fasanella in quella veste nel gennaio 1918 aveva “ingaggiato” Mussolini per 50 sterline al mese) e più volte ministro per i conservatori, Hoare lo accolse cordialmente. Arrivato a Lisbona, solo il 19 agosto Castellano fu ricevuto dall'ambasciatore inglese Ronald Campbell, di gran lunga meno affabile, affiancato dai generali Walter Bedell Smith, americano, e Kenneth Strong, inglese, inviati da Dwight Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, di stanza ad Algeri. Castellano aveva il compito di chiedere l'aiuto degli anglo-americani per fronteggiare la prevedibile reazione tedesca all'annuncio della resa. Di suo aggiunse che gli italiani erano pronti a battersi al loro fianco contro la Germania. In risposta gli vennero comunicate le dodici condizioni della resa (il cosiddetto “armistizio corto) e gli fu consegnata una radiotrasmittente con il cifrario per i successivi contatti. L'Italia doveva accettarle entro il 30 agosto, senza obiezioni. Cadde l'illusione, pur dura a morire, di poter trattare un armistizio, cioè il patteggiamento di un preliminare di pace. Il 23 agosto Castellano e Montanari presero il treno per Roma. Vi giunsero il 27. Poco dopo la loro partenza approdarono a Lisbona i generali Francesco Rossi e Giacomo Zanussi, già addetto militare a Berlino e quindi poco gradito agli interlocutori, inviati da Roma per analoga missione all'insaputa di Castellano. Quel “duplicato” infastidì il Comando militare alleato.
Come il vento di Giovanni Evangelista, la Storia «soffia dove vuole» Nei giorni seguenti Badoglio, Ambrosio, d'Acquarone e i generali Castellano e Giacomo Carboni, comandante del corpo d'armata schierato in difesa di Roma, valutarono le dure condizioni della resa. Il 29 agosto ne venne informato il re, che ne colse l'aspetto fondamentale: gli anglo-americani non mettevano in discussione la Corona, il governo e l'integrità dell'Italia. Pertanto, nell'impossibilità assoluta di invertire il corso della storia e nell'urgenza, anzi, di rompere l'alleanza con i tedeschi ormai dilaganti nel Paese, la resa andava sottoscritta. Previo contatto radio, il 31 agosto, Castellano partì con Montanari per l'aeroporto di Termini Imerese. Trasferito a Cassibile, espose il memorandum approntato dal ministro degli Esteri Raffaele Guariglia. L'Italia aveva bisogno che l'annuncio della resa coincidesse con un massiccio sbarco degli Alleati (almeno quindici divisioni) a Nord di Civitavecchia e con il lancio di una divisione di paracadutisti nei pressi di Roma a supporto delle divisioni italiane schierate a difesa della Capitale e, implicitamente, del vulnerabilissimo Stato della Città del Vaticano. Gli anglo-americani si limitarono a promettere l'aviolancio di 2.000 uomini e premettero per l'immediata e definitiva accettazione della resa senza condizioni. Rientrato in serata a Roma, il 1° settembre Castellano aggiornò Badoglio, Ambrosio e Carboni, che dichiarò impossibile la difesa di Roma per carenza di armi, munizioni e carburante, a differenza di quanto da lui affermato in precedenza. Nel pomeriggio il Re sciolse ogni riserva. La resa non era solo il fatale punto di arrivo del cammino intrapreso il 25 luglio ma coronava quello, lungamente agognato, di riportare l'Italia nel quadro delle alleanze che ne avevano propiziato la nascita nel 1861 e l'avevano avuta protagonista nel 1915-1918. Egli era (come a suo tempo scritto da Luigi Federzoni) il Re di Peschiera e di Vittorio Veneto. Seguirono altri due giorni di confusione. Il 2 settembre, sempre affiancato dal console Montanari e accompagnato dal maggiore Luigi Marchesi e dal pilota, maggiore Vassallo, Castellano volò a Termini Imerese per il Fairfield di Cassibile. Poiché, però, si presentò senza la necessarie credenziali, dovette insistere ripetutamente con Badoglio affinché lo dichiarasse formalmente rappresentante del governo. Il Maresciallo a volte appariva l'ombra di se stesso. Anche il principe Umberto di Savoia lo notò e ne rimase sfavorevolmente impressionato.
Il dialogo muto tra il Comitato antifascista e Badoglio Sin dal 1° settembre il Comitato Centrale interpartitico antifascista era informato di quanto stava avvenendo tramite Luigi Rusca, amministratore delegato della Mondadori, massone, richiamato alle armi con il grado di tenente colonnello e addetto al Servizio Informazioni Militari. «In via del tutto confidenziale – annotò Ivanoe Bonomi nel Diario – mi dice che i messi inviati al quartier generale anglo-americano sono tornati con un piano concordato che prevede lo sbarco del “nemico” con la connivenza italiana e i soccorsi del “nemico” a noi appena l'alleato (cioè la Germania) ci aggredirà per punirci della nostra fellonia.» Per capire meglio, Bonomi si recò a colloquio con Badoglio, che però, giustamente contrariato dalla fuga di notizie, rimase silenzioso, «molto turbato e preoccupato». L'indomani il Comitato Centrale invitò quelli locali a «mobilitare gli spiriti perché il popolo e le forze armate siano pronti a rispondere all'appello delle forze democratiche del paese, unite in salda concordia per la salvezza dell'onore e delle idealità della Patria». Ma chi davvero rappresentavano il Comitato Centrale e i locali? A distanza di ottant'anni dai fatti non si dispone di alcun censimento probante. I partiti, compresi comunisti, socialisti e democristiani, erano appena albeggianti. Liberali, azionisti e democratici del lavoro erano reti dalle maglie molto larghe. Dopo la Dichiarazione di Quebec nella quale il 18 agosto avevano evocato chiamato il “governo” e il “popolo” italiano, gli anglo-americani avevano scelto di imporre la resa da chi aveva il potere effettivo e doveva farsene garante: il Re e il “suo” governo, uniche “autorità” italiane da loro riconosciute. Alle 11 del 4 settembre il sottosegretario alla presidenza, Pietro Baratono, telefonò a Bonomi il divieto di pubblicare quell'appello. Dopo un tempestoso colloquio tra lui e Badoglio, nel pomeriggio il Comitato deliberò di soprassedere. In colloqui del 5 Bonomi ebbe rassicurazioni da parte del ministro della Guerra, Antonio Sorice, che gli anglo-americani si sarebbero attestati sulla linea Volturno-Pescara. «Assolutamente muto» su accordi segreti con gli Alleati, Sorice prospettò il timore che i tedeschi, ormai in Italia in forze massicce e presenti nella sola capitale con almeno 8-10.000 uomini, «apparentemente borghesi ma in realtà militari ben addestrati», potessero impadronirsi del re e del governo. Il 7 giunse a Roma il nuovo ambasciatore della Germania, Rudolph Rahn, molto legato a Himmler, e quasi 500 bombardieri angloamericani colpirono duramente il centro di Napoli. La guerra continuava. Malgrado tutto, in un Paese incline al chiacchiericcio il governo riuscì a mantenere segreto che la resa era stata firmata.
Alle cinque della sera... Alle 17:15 di venerdì 3 settembre «per il Maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo italiano» Castellano, Generale di brigata, addetto al Comando supremo italiano, e Walter Smith, maggior generale dell'esercito degli USA e capo di stato maggiore «per Dwight Eisenhower, generale dell'esercito degli USA, comandante in capo delle forze alleate» sottoscrissero le condizioni della resa (surrender) dell'Italia presentate per delega degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e nell'interesse delle Nazioni Unite. Ricalcando la Dichiarazione di Quebec del 18 agosto all'Italia venne imposto il trasferimento immediato della flotta e degli aerei nelle località “che saranno designate dal Comandante in capo alleato”, con i dettagli di disarmo “che saranno fissati da lui”, la garanzia immediata del libero uso da parte degli Alleati di tutti gli aeroporti e porti navali in territorio italiano, l'immediato richiamo in Italia delle sue forze armate da ogni partecipazione nella guerra, la garanzia da parte del governo che se necessario avrebbe impegnato tutte le sue forze per assicurare la sollecita e precisa esecuzione delle condizioni della resa. Oltre a imporre disarmo, smobilitazione e smilitarizzazione, il comandante in capo «stabilirà un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate». La 12^ clausola avvertiva che sarebbero state trasmesse in seguito «altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario», invero già comunicate al generale Zanussi, che non ne infrmò Castellano quando lo incontrò a Cassibile ove a sua volta vene trasferito. Alla firma presenziarono Harold McMillan, ministro residente presso il Quartier generale delle Forze Alleate, Robert Murphy, rappresentante personale del presidente degli USA Franklin D. Roosevelt, tre altri ufficiali alleati e Franco Montanari. Con la resa, l'Italia riconobbe la sconfitta militare. Perse la guerra ma salvò lo Stato, come Vittorio Emanuele III ebbe chiaro sin da quando gli vennero riferiti gli esiti della “missione Castellano”. Ne fu assicurata la continuità e scongiurata la debellatio, sorte toccata poi alla Germania, frantumata e occupata dai vincitori a tempo indeterminato. Non solo. La 2^ clausola della resa previde che l'Italia avrebbe fatto «ogni sforzo per negare ai tedeschi tutto ciò che potrebbe essere adoperato contro le Nazioni Unite»: il che implicava l'agognato riconoscimento di un ruolo attivo dell’Italia stessa nel quadro della guerra in corso. A margine della firma si svolse una riunione, informale ma di somma importanza, presieduta dall'inglese Harold Alexander, trascurata da molte opere sull'8 settembre. Per comprenderne la portata va ricordato che nell'incontro di Lisbona di sua iniziativa Castellano aveva prospettato l'impegno militare italiano a fianco degli anglo-americani. Mentre la Dichiarazione di Quebec del 18 agosto aveva precisato che «le condizioni di armistizio non contemplano l'assistenza attiva dell'Italia nel combattere i tedeschi», a Cassibile Alexander pragmaticamente affermò: «Più l'Italia può assistere le forze alleate contro il comune nemico più possono essere favorevoli i termini finali.» Dette quindi per scontata la collaborazione “sul terreno”. Anzi, elencò le azioni indirette e dirette che gli italiani avrebbero potuto/dovuto compiere nell'interesse comune. Non solo informazioni e sabotaggi. Tra i compiti specifici indicò «l’occupazione di Roma, con l'oggetto di salvaguardare la capitale del paese, la vita di sua maestà, il governo del maresciallo Badoglio, l'arresto del movimento tedesco in Italia» e il dispiegamento di un cordone difensivo a nord di Roma per impedire ai tedeschi di mandare rinforzi a sud. La cosa più importante a suo avviso era «paralizzare le ferrovie». Alexander e Castellano si confrontarono a lungo sui termini della collaborazione. Convinto che «i contadini italiani armati combatterebbero bravamente la guerriglia organizzata» Alexander domandò se «giovani leaders più arditi» li avrebbero capitanati. Castellano eluse l'interrogativo. Il commodoro britannico Royer Dick indicò le mete delle navi italiane: da La Spezia a Bona e da Taranto a Tripoli. I grandi transatlantici dovevano far rotta verso Gibilterra e di lì verso l'America. Come già convenuto con Smith, Castellano prospettò la resa delle truppe italiane disseminate nel Dodecanneso. Particolare attenzione fu dedicata ai tempi e ai modi della proclamazione dell'armistizio. Alexander propose che il Re e Badoglio registrassero l'annuncio della resa su disco da consegnare agli Alleati. Se essi fossero caduti nelle mani dei tedeschi, il capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio avrebbe dovuto parlare a loro nome da un’emittente italiana e diffondere le registrazioni. Quanto al giorno della sua proclamazione il generale USA Rooks si limitò a enunciarne i contorni: Roma l'avrebbe fatta alle 18.30 di un giorno non precisato. Eisenhower l'avrebbe anticipata di un quarto d'ora da Algeri. Castellano ripeté quanto già detto a Lisbona: per gli italiani un preavviso di poche ore era del tutto insufficiente. Ne occorreva uno di parecchi giorni, affinché potessero organizzarsi e soprattutto per regolarsi con i germanici, la cui eventuale resa agli italiani andava esclusa perché, secondo Alexander, «non si doveva rimandare nessuna opportunità di uccidere i tedeschi». Alexander rifiutò di indicare la data della proclamazione della resa, che comunque decorreva dalla firma. Per loro sicurezza gli anglo-americani trattennero Castellano al Fairfield a loro disposizione. Il 5 settembre consentirono invece il rientro a Roma del maggiore Marchesi e del pilota Vassallo, ai quali Castellano affidò un messaggio per Ambrosio. Vi ipotizzò che la resa sarebbe stata annunciata tra il 10 e il 15 settembre, più probabilmente il 12. Per motivi ignoti, Badoglio ritenne di aver tempo sino al 16.
Che fare? Lo stesso giorno della firma, dopo pesantissimo bombardamento aeronavale gli anglo-americani assalirono la Calabria tra Villa San Giovanni e Reggio, lasciando intendere che da lì sarebbero avanzati verso nord. Schermarono il piano da tempo varato: lo sbarco sulla costa salernitana, operazione a sua volta minore nell'ambito della già avviata preparazione di quello in Normandia programmato per la tarda primavera del 1944, sempre agli ordini di Eisenhower. Consapevole di aver fatto cadere gli italiani nella trappola, il Comandante in capo non presenziò alla firma della resa. Definita uno “sporco affare” sotto il profilo della lealtà, essa va inquadrata nell'ottica della estromissione dell'Italia dal conflitto. Era stato Mussolini a volere la guerra contro gli Stati Uniti sulla scia del Giappone e della Germania, senza motivazioni plausibili né probabilità di successo e contro gli interessi della vasta e influente comunità italo-americana, a lungo larga di plausi al regime mussoliniano e inorgoglita dalle sue tante imprese, come la trionfale crociera atlantica nel 1933 capitanata da Italo Balbo. Gli italiani andavano puniti per aver assecondato il dittatore. All'annuncio della resa, autorizzata dal Re al termine di una tempestosa riunione (Badoglio, Ambrosio, alcuni ministri, Carboni, focosamente contrario alla sua accettazione, e Marchesi che fece rompere gli indugi, mentre 500 aerei stavano per decollare e bombardare Roma) molti e fondamentali interrogativi rimanevano senza risposta. Come avrebbero reagito i tedeschi? Roma era difendibile? Del tutto ignaro del giorno dell'annuncio, come documenta Aldo G. Ricci nell'edizione critica dei Verbali del governo, Badoglio programmò per il 9 settembre una seduta del Consiglio dei ministri. Se ne ignora l'ordine del giorno. Intendeva far ratificare la resa accettata su impulso del Re-Imperatore? L'annuncio fatto da Eisenhower da Radio Algeri alle 17:30 (18:30 di Roma) dell'8 settembre cambiò tutto. Impose la ritirata, che, come insegna Clausewitz, non è una fuga: fa parte delle regole della guerra. In uno scenario completamente diverso, dopo quello “corto”, il 29 settembre Badoglio sottoscrisse a Malta quello “lungo”, pronto da metà agosto e meritevole di apposito esame.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Giuseppe Castellano, in borghese, con Eisenhower dopo la firma di Cassibile. Alla nomina, Castellano fu il generale più giovane d'Italia. I testi della resa (3 e 29 settembre) furono pubblicati nel volume “Otto settembre 1943” edito nel 1985 dal Ministero della Difesa nell'ambito della serie “Forze Armate e Guerra di Liberazione, 1943-1945” programmata dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, con la regia del suo Capo, Oreste Bovio, all'epoca colonnello, poi generale di Corpo d'Armata e decano della storiografia militare. Dell'apposito Comitato di militari e civili impegnati nell’impresa fecero parte, con chi scrive, Umberto Giovine, Paolo Ungari e Romain H. Rainero.