Re costituzionale, “per volontà di Dio e per volontà della Nazione”
Il 14 marzo 1861, con 294 presenti e votanti su 443 membri (neanche due terzi), la Camera dei deputati approvò all'unanimità la legge, presentata tre giorni prima da Camillo Cavour, presidente del Consiglio dei ministri, e già sanzionata dal Senato il 26 febbraio precedente, che recita: «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i successori il titolo di Re d’Italia.» Così nacque il Regno d'Italia. Non di forza propria ma per partenogenesi arrenotoca. Il sovrano assunse il titolo di re dello Stato sul quale già regnava. La mattina del 17 marzo, una domenica, Re Vittorio firmò il decreto, sottoscritto da Cavour e da altri ministri. A Torino e a Firenze l'evento fu festeggiato con i rituali 101 colpi di cannone. L'indomani la legge venne pubblicata nella “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia”: da quel giorno, a rigor di norma, andrebbe datata la nascita della Nuova Italia. Un mese dopo, il 17 aprile 1861, la Camera approvò un'altra importante legge, già delibata dal Senato il 24 marzo: gli atti di governo e ogni atto del sovrano andavano intestati in nome di Vittorio Emanuele II, «per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia». Su 232 presenti i voti favorevoli furono appena 174; i contrari 58. Il Regno sabaudo nacque europeo, ma la sua strada fu subito in salita. Dopo sessant'anni di dominio straniero, prima napoleonico e poi asburgico, e la lunga gestazione fatta di cospirazioni settarie (massoni e carbonari), di moti, insurrezioni, repressioni, carcere duro, supplizi, esilio e di battaglie (con “regolari” e volontari in campo), in meno di due anni, tra il 1859 e il 1860, nacque un'Italia quasi unita, quasi indipendente e quasi libera, con un re, Vittorio Emanuele II di Savoia, che se ne accollò le sorti a cospetto dell'Europa. A fine marzo 1861 Cavour ottenne “alla quasi unanimità” la proclamazione di Roma capitale d'Italia: un atto di fede nel futuro ma, al tempo stesso, di ostilità nei confronti di Pio IX. Il papa avrebbe rinunciato pacificamente al potere temporale o si sarebbe opposto? L'“Italia” sarebbe entrata in Roma senza usare le armi, come promise Cavour, o a cannonate e fucilate, come poi avvenne il 20 settembre 1870?
Ma chi ti conosce, Italia?
Le partite aperte il 14-18 marzo 1861 erano dunque molte e molto aggrovigliate. Lo si percepì dal gelo della Comunità internazionale di fronte alla proclamazione del nuovo Regno. Il 27 marzo Emanuele Tapparelli d'Azeglio, ambasciatore a Londra, fu ricevuto come rappresentante del Re d'Italia. L'anglicana Inghilterra fu seguita il 30 dalla Svizzera, la terra di Giovanni Calvino, ove i cantoni cattolici pochi anni prima eran stati debellati da quelli “federali”, e lo stesso giorno dalla Grecia, ortodossa. Il 13 aprile fu la volta degli Stati Uniti d'America, tolleranti verso tutti i culti ma senza “religione di Stato” e avviati alla guerra di secessione. E i Paesi cattolici? Gran Bretagna a parte, l'Europa stava a guardare, con circospezione. Molti attendevano di capire le vere intenzioni di Napoleone III, la cui condotta verso l'Italia era peggio che ambigua. Nell'aprile 1859 aveva fiancheggiato Vittorio Emanuele II contro l'impero d'Austria per ingrandire il regno di Sardegna, ma solo sino a Milano, ove l'imperatore entrò precedendo a cavallo il sovrano sabaudo. Poi aveva concordato a Villafranca l'armistizio con Francesco Giuseppe d'Asburgo all'insaputa dell'alleato e di Cavour, che si dimise da presidente del Consiglio subito dopo uno aspro scontro con il re. A malincuore Napoleone III aveva consentito l'invasione dei “piemontesi” in Umbria e nelle Marche («fate, ma fate in fretta» intimò ai “missi” di Vittorio Emanuele II), a patto che non toccassero il residuo Stato pontificio. Di seguito fece prelevare da Gaeta, ove era assediato e ormai sconfitto, Francesco II di Borbone, esponente della dinastia più volte rovesciata dai Bonaparte. Lo fece trasferire nella Roma di Pio IX. Quali giochi faceva il “fosco figlio di Ortensia”, carbonaro, rivoluzionario, principe-presidente, vindice della “grandeur” della Francia eterna? Solo il 25 giugno 1861 Napoleone III si rassegnò a riconoscere il Regno d'Italia: dopo l'imprevedibile morte di Cavour, appena cinquantunenne. Lo fece a denti stretti, con la lettera del 12 luglio a Vittorio Emanuele II in cui ricordò al «Signore suo Fratello» che aveva propiziato l' “unione”, non l'“unificazione” dell'Italia. Per placare il malumore dei francesi, sin dagli accordi di Plombières con Cavour, nel luglio 1858, egli aveva pattuito l'aiuto contro l'Austria in cambio della Savoia, geograficamente francese, e del Nizzardo, geograficamente italiano. E ora? Non aveva mai subordinato la politica alle gonnelle. Dai tempi di Carlo Alberto (1831-1849) il regno di Sardegna aveva allestito un'ampia ed efficiente rete di diplomatici navigati. Erano quasi tutti di famiglie aristocratiche, doviziose e fedeli alla Corona, preparati e orgogliosi del proprio ruolo. Vittorio Emanuele II se ne valse anche per corroborare la strategia matrimoniale propria delle Case regnanti. La sua era la più antica d'Europa. Nell'ambito degli accordi con Napoleone III aveva “sacrificato” la figlia Clotilde, andata in sposa a Carlo Gerolamo Bonaparte, cugino dell'imperatore, massone, dai costumi non illibati ma politico raffinato. Un'altra figlia, Maria Pia, sposò il re del Portogallo. Pare che lo sposo potesse/volesse offrire l'Angola come dono di nozze. Vi si contavano meno di mille portoghesi. Per Lisbona non era un possedimento irrinunciabile. Sarebbe stata una base importante per Torino, che aveva relazioni con molti Stati dell'America meridionale. Ma la Gran Bretagna, che dello Stato lusitano era tutore da secoli, non gradì e non se ne fece nulla. Continuando a inanellare riconoscimenti in terre non cattoliche, il 6 luglio 1861 l'Italia ottenne quello dell'Impero turco-ottomano, che voleva dire porte aperte ai traffici marittimi con il Vicino Oriente e il Mar Nero, fondamentale per l'importazione di semi di filugello, preziosi per bachicoltura e manifatture seriche, all'epoca di primaria importanza in Italia. Altrettanto gratificante fu il riconoscimento da parte dei calvinisti Paesi Bassi nell'agosto del 1861. Oltre a essere importante commercialmente e finanziariamente, l'Olanda apriva la strada verso Danimarca e Scandinavia, Stati luterani. Dieci anni dopo, sulla fine del 1870, la strategia matrimoniale di Casa Savoia fece tutt'uno con la grande politica. “Las Cortes” (Parlamento) di Spagna, su impulso del generale Prim, massone, offrirono la corona al ventenne Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, fratello di Umberto, erede di quella d'Italia. Dopo accorate pressioni di suo padre, Vittorio Emanuele II, accettò. Sua moglie, Maria Vittoria Dal Pozzo della Cisterna (1847-1876), nata in una delle Famiglie più prestigiose e ricche d'Europa, fece di tutto per farsi amare dagli spagnoli, tra i quali, però, serpeggiavano repubblicani e anarchici, che ordirono ripetutamente attentati ai sovrani. Amedeo restituì la corona e a Madrid nacque la prima Repubblica, che finì male. Sul trono tornò un Borbone. L'unione italo-spagnola avrebbe cambiato il corso della storia europea all'insegna della fratellanza dei popoli e della pace tra gli Stati. Fu un'occasione perduta.
Le tre piaghe del nuovo Regno
Il neonato Regno però doveva affrontare gravissimi problemi interni. In primo luogo Pio IX aveva risposto alla spoliazione dei propri domini con la scomunica maggiore del Re, del governo e di tutta la dirigenza politico-amministrativa sabauda. Sin dalle “leggi Siccardi” contro i privilegi del clero (1849), gli ecclesiastici del regno di Sardegna avevano intrapreso una serrata lotta contro il governo, che aveva risposto in termini altrettanto fermi. L'arcivescovo di Torino era stato arrestato (il generale Alfonso La Marmora lo prelevò di persona dal Vescovado), tradotto nel forte di Fenestrelle ed espulso dallo Stato, benché fosse cavaliere della SS. Annunziata e quindi “cugino del re”. Per gli acidi articoli sulla vita privata del re, don Giacomo Margotti era stato pesantemente percosso con un nodoso bastone portato in omaggio “a chi doveva sapere”. Anche don Giovanni Bosco aveva dovuto fare i conti con la linea anticlericale del governo. Cavour, infine, aveva fatto decadere quattro canonici eletti alla camera subalpina, non perché avesse bisogno dei voti di chi prese il loro posto, bensì per evidenziare la divaricazione tra il programma suo e quello dei “moderati”, contrari ad aprire contenziosi con la Santa Sede. Il secondo fronte della Nuova Italia fu la guerra contro il “grande brigantaggio” alimentato nel Mezzogiorno da stranieri (parte per dedizione, altri per denaro) e dai clericali che si valevano di conventi e chiese quali asilo e per il rifornimento degli insorgenti. Il governo non esitò a usare mano ferrea, memore delle compagnie di Santa Fede del cardinale Fabrizio Ruffo e consapevole del rischio che deflagrasse l'unità nazionale, proclamata ma non ancora radicata. Non bastasse, nell'estate 1862 Giuseppe Garibaldi, circonfuso dalla gloria di liberatore del Mezzogiorno dal dominio borbonico, allestì alla luce del sole e nell'inerzia del governo, presieduto da Urbano Rattazzi, la spedizione “Roma o morte”, reclutando volontari con il sostegno della rinascente massoneria italiana e ottenendo sussidi da quanti, all’estero, avevano conti aperti con Roma dai lontanissimi tempi delle guerre di religione. Per Garibaldi l'impresa aveva varie motivazioni. La più esplicita era, appunto, la liberazione di Roma dal papa-re, restaurato dai francesi dopo il naufragio della Repubblica romana da lui proclamata nel 1849, molto prima che ci arrivasse Mazzini. Riprendeva inoltre il cammino interrotto nell'estate del 1860, quando, sconfitti i borbonici nella battaglia del Volturno, nella quale mostrò doti di autentico condottiero, si vide tagliare la strada su Roma da Vittorio Emanuele II, accorso in Campania proprio per imbrigliare una deriva che avrebbe comportato la sconfessione da parte di Napoleone III. In terzo luogo, ormai morto Cavour, Garibaldi riproponeva da lontano la disputa sulla cessione del Nizzardo alla Francia, che per lui costituì una questione aperta sino a quando compì il suo ultimo viaggio in Sicilia per celebrare il sesto centenario dei “Vespri siciliani”, dalla valenza smaccatamente antifrancese. Infine intendeva contrapporre la sua egemonia sulla “sinistra democratica” ai seguaci di Giuseppe Mazzini, dal quale si era diviso sin da quando aveva assunto la vicepresidenza della Società Nazionale e che ormai detestava, non solo in privato, come ostacolo per il coronamento dell'unificazione nazionale. L'impresa garibaldina rischiò di mettere in discussione la credibilità del regno quale fattore di stabilità per la precaria “pax europea”, ristabilita dopo il Quarantotto, la guerra di Crimea e quella franco-piemontese/asburgica del 1859. Il governo di Torino dovette pertanto intervenire “manu militari” per “arrestare” (nel duplice senso di fermare e di incarcerare) Garibaldi, per di più fortuitamente ferito sull'Aspromonte, un mese dopo il prestigioso riconoscimento del regno da parte dell'impero russo (8 luglio) e del regno di Prussia (18 luglio).
Una politica estera tra le tempeste
I successi in politica estera non caddero dal cielo. Erano anche frutto dell'iniziativa personale del re, che, “fons honorum”, conferiva oculatamente insegne cavalleresche. Particolare rilievo ebbero i collari della SS. Annunziata assegnati nel 1861 a Carlo XV re di Svezia e di Norvegia, a Federico VII di Danimarca, ad Abdul-Aziz-Khan, sultano dell'impero turco (non devotissimo al culto mariano), all'arcivescovo di Genova, Andrea Charvaz, al consigliere del re del Portogallo, Luigi Antonio d'Abreu e Lima, ad Augusto, principe di Portogallo: un cammino che proseguì con lo Scià di Persia, Nasser-Ed Din, e con il bey di Tunisi, Muscir Mohammed-Es-Sadok… Il 29 marzo 1865 il re conferì il Collare allo sfortunato Massimiliano d'Asburgo, “imperatore del Messico”. Due anni dopo, il 13 gennaio 1867, fu la volta di Federico Carlo, principe reale di Prussia, e del conte Ottone di Bismarck Schoenhausen, poi cancelliere dell'Impero di Germania. Nel frattempo il regno d'Italia venne riconosciuto dalla Spagna (12 luglio 1865), ultimo fortilizio borbonico, dai regni di Sassonia e di Baviera (novembre), dal Brasile, dal Messico e dal Belgio. Nel 1866, il regno sabaudo compì un altro passo avanti, con l'annessione del Veneto euganeo e di Mantova, città fortificata d'importanza strategica per l'intera pianura padana, a conclusione della guerra italo-prussiana/asburgica, importante non solo per l'ingrandimento territoriale ma anche quale prova della volontà/capacità della nuova e fragile Italia di entrare nel novero delle grandi potenze con ruolo autonomo rispetto a Gran Bretagna e Francia, prime fautrici e tutrici della sua nascita Le ripercussioni si registrarono nel maggio 1867 con la partecipazione dell'Italia alla conferenza diplomatica di Londra sulla sorte del ducato di Lussemburgo. Per la prima volta i suoi rappresentanti sedettero a fianco di quelli dell'impero austro-ungarico. Fu il punto di arrivo propiziato da diplomatici di alto livello, cresciuti alla scuola di Cavour: Costantino Nigra, incaricato d'affari e poi ambasciatore a Parigi, e Isacco Artom. Lo stesso anno, con l'incontro italo-pontificio avvolto nel necessario riserbo, fu raggiunta l'intesa di reprimere congiuntamente il brigantaggio che ormai non giovava a nessuno. Altro premeva sull'orizzonte per l'accreditamento dell'Italia nel “concerto europeo”: fermare iniziative avventate e destabilizzanti (come la spedizione garibaldina naufragata a inizio novembre nei pressi di Mentana) e reprimere atti terroristici, come venne considerato l'attentato messo a segno alla caserma Serristori in Roma.
Le tre “Esse”: dall'ingresso in Roma al Mar Rosso
L'annessione della Città Eterna all'Italia continuò nondimeno a costituire il “porro unum necessarium” di una vasta schiera di patrioti: non solo mazziniani (ridotti ormai a esigua frangia) e garibaldini, di molto maggiore consistenza, anche per la mai deposta insegna “Italia e Vittorio Emanuele”, ma anche di liberali, convinti che senza la soluzione della “questione romana” il regno sarebbe rimasto incompiuto e quindi vulnerabile per il groviglio di anticlericalismo e di estremismi di varia ascrizione. Lo si vide con l'“Anticoncilio” radunato a Napoli il 9 dicembre 1869, in contrapposizione al Concilio ecumenico vaticano inaugurato il giorno precedente in Roma. La soluzione venne dall'esterno, con la terza “s” propizia all’Italia: dopo le battaglie di Solferino e Sadowa, la sconfitta di Napoleone III a Sedan. Pressato da Quintino Sella, il governo presieduto da Giovanni Lanza ordinò al IV corpo dell'Esercito comandato da Raffaele Cadorna di irrompere in Roma con le armi: una battaglia breve e sanguinosa, che aprì una ferita profonda non solo tra cattolici e liberali in Italia ma anche in molte capitali. Il Belgio fu sul punto di ritirare l'ambasciatore da Firenze, ove dal 1865 era stata trasferita la capitale. L'avvento della Repubblica a Parigi non modificò la politica estera della “sorella latina”, venata di diffidenza e di sorda ostilità nei confronti dell'Italia, considerata ingrata e persino pericolosa. Abbandonato ogni sogno di ulteriore ingrandimento sul confine orientale, lunghissimo e militarmente svantaggiato, l'Italia investì per decenni sulle difese a occidente, perché da lì erano arrivate le “invasioni” negli ultimi secoli. La geografia dettava la politica. Perciò, malgrado tutti i guai di casa, la Nuova Italia dovette imboccare anche la via dell'espansione Oltremare. Sbarrata la costa meridionale del Mediterraneo dalla Francia, che impose il suo protettorato sulla Tunisia, si avventurò nel Mar Rosso, in Somalia, si convinse di rappresentare l'Etiopia. Tutti passi più lunghi della sua gamba, ancora adolescente, ma coerenti con la scelta compiuta nel maggio 1882: la firma del trattato difensivo con l'impero austro-ungarico e con quello di Germania, i cui “kaiser” ostentavano ammirazione, ricambiata, per la terra amata da Federico II Staufen, “stupor mundi”. Nella nascita e nei decenni sino alla conflagrazione europea del 1914 l'Italia ebbe occhiuti sorveglianti, poi alcuni alleati, ma nessun amico. Dopo secoli di dominio straniero e di divisioni interne, destinate a durare, imparò a fare da sé.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: L'ingresso in Milano di Napoleone III e di Vittorio Emanuele II dopo la vittoria di Magenta (4 giugno 1859) sugli asburgici di Francesco Giuseppe d'Austria (dipinto di G. Bertini). Luigi Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi col nome di Napoleone III, carbonaro, cospiratore, arrestato e a lungo detenuto, sognò da Capo di Stato di restituire alla Francia il ruolo di comprimario della storia europea. Sposò l'aristocratica spagnola Eugenia di Montijo y Taba. Per l'Italia operò di concerto con Camillo Cavour e, ancor più, con Vittorio Emanuele II. Più volte bersaglio di attentati che seminarono morti e feriti, aveva una visione planetaria del ruolo civile dell'Europa. Mentre combatteva a fianco del Piemonte contro l'impero d'Austria stava conquistando l'Indocina che per un secolo fu croce e delizia del colonialismo francese. Immaginò Massimiliano d'Asburgo, fratello di Francesco Giuseppe d'Austria, suo rivale storico, imperatore del Messico. Tradito e arrestato, Massimiliano fu fucilato a Querétaro per ordine di Benito Juárez. Se vittorioso avrebbe cambiato la storia delle Americhe e, con essa, quella del pianeta. Già allora politici e statisti lungimiranti pensavano in termini “mondiali”, anziché nazionali e meno ancora nazionalisti. Non decidevano su impulsi passionali, ma con visioni razionali. Aldo A. Mola