
«Io rispetto il governo del mio Paese, ma mi sentirei indegno di rappresentare i fieri montanari dei Mandamenti di San Damiano e Prazzo se, per opportunismo, avessi, sotto qualsiasi forma, rinnegata la fede liberale che professai in tutta la mia vita, e che fu quella di tutti i nostri rappresentanti dal 1848 in poi. Ricorderò finché avrò vita le costanti e magnifiche prove di fiducia avute dai paesi in mezzo ai quali vissero per secoli i miei antenati.» Sono le parole conclusive della lettera di Giovanni Giolitti, datata da Roma il 21 dicembre 1925, agli elettori che nel 1920 lo avevano confermato al Consiglio provinciale di Cuneo. Che cosa era accaduto? Semplice. Benito Mussolini, capo del governo, ministro degli Esteri, della Guerra, della Marina e dell'Aeronautica, con Luigi Federzoni all'Interno e altri super-fedelissimi nei ministeri chiave, aveva deciso la spallata finale contro i liberali. Lo aveva dichiarato un mese prima in Senato. Dopo aver sgominato il socialismo e la massoneria voleva abbattere lo “Stato liberale” e sostituirlo con quello integralmente “fascista”, un regime fondato su una nuova “religione” (parole sue). Ma per farlo doveva spazzare via quanti ne costituivano l’ultimo baluardo in Parlamento. Non poteva certo cacciarli dal Senato vitalizio, ove erano stati nominati dai re, Umberto I e Vittorio Emanuele III. E neppure dalla Camera, nella quale costituivano un’esigua pattuglia sempre presente in Aula e quindi ottemperante al regolamento, a differenza delle altre opposizioni appollaiate sull'inutile “Aventino”, assenti ingiustificate ai lavori e quindi passibili di espulsione, poi comminata nel 1926. Però li si poteva e doveva escludere dalle cariche pubbliche. Giolitti era deputato dal 1882, membro del consiglio provinciale di Cuneo dal 1885 e suo presidente dal 1905. Ministro dal 1889 e cinque volte presidente del Consiglio, dallo scranno cuneese aveva pronunciato discorsi che avevano cambiato la storia d'Italia. Per metterlo a tacere bisognava toglierglielo. Ma nel 1925 i consiglieri provinciali fascisti erano appena una manciata su 60. Detto fatto. Il “duce” mandò a Cuneo un deputato di sua fiducia che convocò in prefettura alcuni consiglieri “liberal-vaganti” e altri appartenenti al partito popolare, cattolico. Spiegò loro che se l'amministrazione locale voleva i contributi statali per completare o avviare le opere pubbliche necessarie essa doveva essere presieduta da un fascista. La maggior parte firmò l'ordine del giorno dettato dal “missus” mussoliniano e lo pubblicò. Appena lo seppe, Giolitti si dimise da presidente e, “per elementare senso di dignità”, anche da quello di “consigliere”. Tra quanti aderirono alla “lurida congiura” vi fu anche Antonio Bassignano, liberale, sindaco di Cuneo, subito dopo messo in minoranza al Comune e sostituito da una serie di commissari prefettizi fino alla nomina di un podestà, Giovanni Battista Imberti, di Racconigi, già esponente dei popolari, poi dei liberali e infine fascista. Giolitti, dunque, evocò la tradizione risorgimentale (il 1848) e i “secoli di antenati” che si erano battuti per le libertà fondamentali: di culto, di associazione e di stampa. Pochi giorni prima, Luigi Albertini era stato estromesso dal “Corriere della Sera”. Via via liberali e democratici vennero emarginati dalla vita pubblica. Fu il caso, per citarne alcuni, del siciliano Vittorio Emanuele Orlando, del napoletano Enrico De Nicola e del mantovano Ivanoe Bonomi, originariamente socialista, presidente del Consiglio nel 1921-1922 e dal 21 dicembre 1920 Collare della Santissima Annunziata, cioè “cugino del re”, come Giolitti, che lo era dal 20 settembre 1904. L'obiettivo del duce era chiaro: tenere in pugno le Camere, varare le leggi liberticide e, appunto, creare lo Stato fascista. Ci arrivò quasi, ma per riuscirci avrebbe dovuto sottomettere anche il re. Invece Vittorio Emanuele III conservò i poteri statutari. Quando venne il momento, il sovrano se ne valse per far riemergere la dirigenza liberale. Aprì la via a uomini come Luigi Einaudi, senatore dal 1919, governatore della Banca d’Italia dal 1944, e Marcello Soleri, deputato dal 1913, ministro della Guerra nel 1922 e del Tesoro nel 1944. Curiosamente (ma non tanto) erano tutti di famiglie originarie della Valle Maira, la stessa dei Giolitti. Costituirono il referente italiano dell'“internazionale azzurra”, che fu a base dell'Unione europea, contrapposta a quella “rossa”, filosovietica, e alla “nera”. Essa merita di essere rievocata attraverso le biografie dei suoi rappresentanti, scelti dai cittadini in libere votazioni nei collegi uninominali: un modello spazzato via dal “partito unico”. E ora? L'articolo 49 della Costituzione afferma che «i cittadini hanno diritto ad associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Toccava al Parlamento assicurare la democraticità interna dei partiti. Non lo ha fatto. Così tra i partiti e i cittadini si è aperta la divaricazione che genera l'astensionismo. I vertici di partiti e movimenti celebrano i loro riti e decidono chi deve rappresentare i cittadini a Roma e nel Parlamento europeo. Le persone hanno altre urgenze. Se ne disinteressano perché si sentono ininfluenti nella scelta dei loro rappresentanti. Perciò trasformare il voto da “dovere civico” in “obbligo”, come qualcuno auspica, vorrebbe dire precipitare nella partitocrazia, l'opposto di quanto occorre.
Aldo A. Mola