1815-1914: il secolo della pace
Il convegno su “Massoneria, 125 anni per le Libertà e la Costituzione”, svolto a Imperia sabato 31 maggio 2025 nel 125° della fondazione della locale loggia “Giuseppe Garibaldi” n.97 del Grande Oriente d'Italia, ha proposto all'attenzione il “filo azzurro” che lega il Risorgimento, la nascita dello Stato d'Italia e gli ideali che sono a fondamento dell'Europa attuale. Sotto il profilo strettamente formale, benché conti 27 stati, l'Unione Europea odierna è territorialmente più circoscritta rispetto a quella che si raccolse a Congresso in Vienna del 1815: i grandi imperi (Russia, Austria, Gran Bretagna) e i regni di Francia e di Prussia, vittoriosi su Napoleone I. Aderirono i regni di Spagna, Paesi Bassi, Due Sicilie, Sardegna e altri. Ne nacque il “concerto delle potenze” che garantì all'Europa la capacità di reggere a scosse telluriche come il Quarantotto, la guerra anglo-franco-turca-piemontese contro la Russia (1853-1856), quella tra Prussia e Francia (1870-1871) e, successivamente, fra l'impero zarista e quello turco-ottomano. Era un'Europa profondamente diversa dall'odierna. Non esistevano Ucraina, Polonia, le repubbliche Ceca e Slovacca, né gli tanti Stati e Staterelli nati dalla decomposizione dell'Impero turco (Romania, Bulgaria, Stati balcanici e altri ancora, inclusi Malta e la Città del Vaticano). In quel secolo di relativa pace non mancarono conflitti sociali anche aspri. Emersero progetti rivoluzionari e filosofie sovversive, ma vennero frenate sino al primo Novecento. La Grande Guerra annientò l'“età dei buoni sentimenti”, irrisa da chi, come Benedetto Croce, irrideva il pacifismo e riteneva la guerra un carattere congenito all'uomo. Tra quanti mirarono a conciliare le diverse opzioni in campo (riforme profonde, ma senza “rivoluzioni di sangue”) spiccò Giuseppe Garibaldi. Pericoloso rivoluzionario secondo alcuni, a ben vedere fu strenuo difensore dell'ordine. Lo provano alcune sue lettere poco note.
L'Europa a cospetto della Comune di Parigi.
La “Comune” di Parigi del 1871 sconvolse la Francia e precorse la catastrofe europea della Grande Guerra (1914-1918) compresa la fase decisiva della rivoluzione russa: la vittoria dei bolscevichi, guidati da Lenin, che aveva meditato a lungo ogni dettaglio di quel precedente. Infine questi fece sua la regola aurea di Napoleone I: “ci si impegna e si vedrà”. Il rivoluzionario non può rimanere perpetuamente in attesa. L'“occasione” si presenta una volta. Lasciarla passare inerti vuol dire perdere per sempre l'appuntamento con la storia. In quei mesi in Francia, più rappresentativo di ogni altro italiano, fu Giuseppe Garibaldi. Qual era la sua idea di “rivoluzione”?
Garibaldi: i conti con Mazzini...
Tornato a Caprera il 16 febbraio 1871, nell'autunno seguente fece pubblicamente i conti con due rovelli: il suo rapporto con Giuseppe Mazzini e i mazziniani e con l'Internazionale fondata a Parigi cinque anni prima su impulso di Karl Marx. Il 21 ottobre scrisse a Giuseppe Petroni, antico cospiratore contro Pio IX, incarcerato per vent'anni nel Castel Sant'Angelo, capofila dei repubblicani intransigenti. Con parole al calor bianco Garibaldi dichiarò: “Mazzini è uomo che non perdona a chi tocca all'infallibilità sua”. Aveva sempre “gettato discordia nelle file della democrazia” proponendo e imponendo la pregiudiziale istituzionale: lotta contro la monarchia. Le imprese da lui via via compiute non richiedevano che Garibaldi, repubblicano di coscienza e di fatto, giustificasse la propria condotta. Era stato sempre capace dei mettere l'Italia al di sopra di tutto. Concluse: “Mazzini ed io siamo vecchi; di conciliazione tra me e lui non se ne parli: le infallibilità muoiono ma non si piegano. Conciliarsi con Mazzini? Vi è un solo modo possibile: ubbidirlo; e non me ne sento capace. Per parte mia, io dico alla democrazia: se giungete ad essere padroni delle sorti del vostro paese non fate delle Babilonie. Soprattutto non seguite i precetti di Mazzini: 'siate tutti soldati, tutti ufficiali, tutti generali'. Codesta sarebbe la Babilonia delle Babilonie”. Ricordò con orgoglio di aver combattuto a fianco della monarchia da italiano e contro lo straniero. “Noi non siamo setta, non partito; ma militi del dovere, pronti a marciare dovunque si possa far del bene”. Così aveva fatto anche nel 1871 in Francia. Aveva lasciato alle spalle l'angoscioso ricordo degli”chassepots” che avevano sparato contro di lui a Mentana nel novembre 1867 ed era accorso a sostegno della “sorella latina” contro i prussiani.
...e con l'Internazionale
Il 14 novembre 1871 Garibaldi rispose al marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio, che carbonaro, massone, cospiratore, arrestato dagli austriaci e condannato a lunghissima prigionia gli aveva domandato: “Ma la conosci tu l'Internazionale?”. La lettera, conservata nel Museo Nazionale del Risorgimento di Torino, venne pubblicata da Domenico Ciampoli nell'antologia di “Scritti politici e militari” nel centenario della nascita di Garibaldi (1907), ma con tagli e omissione delle frasi all'epoca ritenute politicamente scomode. Gli scrisse: “Io appartenevo all'Internazionale quando servivo le Repubbliche del Rio Grande e di Montevideo, cioè molto prima di essersi costituita in Europa tale società; ho fatto atto pubblico di appartenere alla stessa in Francia nell'ultima guerra. E se avessi saputo in feb.°, quando lasciai l'Assemblea di Bordeaux, ciocché in marzo doveva aver luogo a Parigi, io certamente mi sarei recato in quella capitale per propugnarvi la causa della giustizia traviata dai soliti dottrinari ma che per il popolo parigino era sempre la causa dei suoi diritti conculcati da un'amalgama informe di monarchisti, di preti, e di soldatesca degna di servirli. Io non tolero (sic) all'Internazionale, come non tollero alla monarchia, le loro velleità antropofaghe. E dello stesso modo che manderei in Gallera il sig. Sella che studia tutta la vita il modo di estorquere la sussistenza agli affamati per aumentar la lista civile, o pascere grassamente i vescovi, io vi manderei pure gli archimandriti della Società in quistione, quando questi si ostinassero nei precetti: 'Guerra al Capitale, la proprietà è un furto, l'eredità un altro furto e via dicendo'. Nessuna ingerenza ho io nell'Internazionale, e certo perché sanno non approvar io tutto il loro programma, sarà motivo, per i capi, a tenermi escluso. Non credi tu che s'io fossi men corrivo alle inutili velleità insurrezionali, l'Italia sarebbe stata men traquilla e ciò affrontando come fo oggi il biasimo di molti amici? (…) Se qualche volta ho esaltato il popolo, lo feci per spingerlo a far bene, non per adularlo e certo meno oggi che mai. E se dittatore una volta, tu mi hai veduto mansueto ed umano, io sono ancora partitante della dittatura onesta, che considero il solo antidoto a sradicar i cancri di questa società corrotta, e forse mi vedresti allora uscir dalla mansuetudine abituale per ottenere un risultato soddisfacente. Contro il papa, io fui con i protestanti, senza essere presbitero, metodista od altro. Contro i Sella i Minghetti e C. io sarò anche col diavolo per combatterli”. Chiuse con una precisazione fondamentale: “Il mio cosmopolitismo, caro Giorgio, nulla toglie all'immenso amor mio per l'Italia, ne puoi esser certo”. A quella “rossa” contrappose l'Internazionale “azzurra”. Il 2 febbraio dell'anno seguente Garibaldi a Celso Ceretti, che gli aveva chiesto di assumere la presidenza delle associazioni democratiche, raccomandò di dichiarare apertamente che era repubblicano, di smentire che appartenesse all'Internazionale e che non si sentiva impegnato a trattare con rispetto la “questione religiosa, cioè teologica”, come gli veniva chiesto da Mazzini. Preferiva occupare il suo tempo “in cose utili”. Il 13 agosto ancora a Pallavicino Trivulzio aggiunse: “Benché ringiovanita come dicono, la nostra Italia mi fa l'effetto d'un vecchio bastimento col timone marcio. I carpentieri potranno rattopparlo codesto putrido timone o converrà cambiarlo? Io sono per il secondo spediente, in un tempo sicuro ma indeterminato. E per oggi come nel (18)60 sono ancora un compagno tuo nell'aspirazione del meglio senza desistere di accettare il bene da qualunque parte esso avvenga. Colpa di tutto è il governo ed il nostro sventurato paese potrà prosperare quando ne trovi uno idoneo. (…) Io non aprovo (sic) i scioperi ma temo che finiranno per sconvolgere la società colla quasi impossibilità di resisterne la scossa. Sarà questo il retaggio lasciato ai nostri figli dalle cime archimandrite che sono al timone putrido della cosa pubblica”. Che fare? Respinta ogni tentazione di “rivoluzioni di sangue” al massone Anton Giulio Barrili, già allievo dei padri calasanziani a Carcare, propose l'affratellamento di tutte le associazioni italiane tendenti al bene sotto il vessillo democratico del Patto di Roma e di raccogliersi sotto le insegne della Massoneria, “la più antica e la più veneranda delle società democratiche”. All'epoca non vi aveva alcuna carica, se non onoraria, e vedeva con molta malinconia che il Grande Oriente d'Italia rimaneva lontano dall'affratellare le varie massonerie in unica Famiglia. Nel 1872 compì il massimo sforzo per elevare l'Istituzione a catena di unione delle forze liberali e riformatrici. A Giuseppe Mazzoni, gran maestro del Grande Oriente e antico triumviro in Toscana, scrisse: “Non è la Massoneria una società Operaia, e non ne porta essa gli emblemi? Perché dunque tanti congressi Operai fuori del grembo della vecchia gran madre! E la Democrazia, cioè le classi sofferenti, non devono esse la loro vita alla grandissima associazione che prima proclamò la fratellanza tra gli uomini? E prima lanciossi sul grandioso sentiero del razionalismo combattendo le grette idee delle mille sette i cui si divisero gli uomini i furbi e i birbanti sulla credulità degli ignavi (…) Uniamo dunque tutta questa sfasciata famiglia di sofferenti e basterà lo intendersi per mandare gambe allaria (sic) il nero indorato putrido fantasma della menzogna e della tirannide. (…) accogliete in grembo della gran vedova (sinonimo di Massoneria, NdA) quanto vè (sic) di buono nella penisola e saremo sulla vera via del miglioramento umano, morale e materiale”. Ernesto Galli della Loggia ha recentemente ricordato che il regno d'Italia non ebbe la benedizione del papa. Non poteva averla. Lo spartiacque non fu l'esortazione di Camillo Cavour a Pio IX a consentire che Roma fosse capitale degli italiani, desiderosi di entrarci pacificamente. L'inconciliabilità dei due opposti era stata la Repubblica Romana del 1849, proclamata da Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino e da Giuseppe Garibaldi, il 9 febbraio, molto prima che, a cose fatte, vi giungesse Mazzini. Quel conflitto precorse e condizionò i decenni seguenti che, malgrado gli sforzi del clero conciliatorista e dei liberali cattolici osservanti, si risolse nella scomunica maggiore del re, del governo della dirigenza politico-amministrativa. L'anticlericalismo di Garibaldi fu l'“eccipiente” di una contrapposizione nata da allora e via via inasprita sino a risultare insanabile malgrado l'impegno di statisti massoni, a volte pazienti, come Agostino Depretis, altre meno, come Francesco Crispi, e altri ancora, propensi al dialogo tra le due sponde del Tevere. Fu il caso di Giovanni Giolitti al quale sin dal novembre 1904 Pio X concesse di far eleggere deputati governativi grazie a voti di cattolici in collegi nei quali si rischiava la vittoria destabilizzante di candidati socialisti. L'eredità politica di Garibaldi
Il 21 aprile 1879 Garibaldi chiamò a raccolta in Roma il “Fascio della democrazia” e firmò il manifesto che ne dette annuncio agli italiani. Fece parte dell'esecutivo della Lega con i radicali Agostino Bertani, Giovanni Bovio, Felice Cavallotti, con i repubblicani Antonio Fratti, Aurelio Saffi e Alberto Mario (federalista, non massone) e con l'uomo nuovo della sinistra democratica italiana, Adriano Lemmi, tesoriere del Grande Oriente d'Italia. Al di là di tensioni e di nuove divisioni sorgenti nella sinistra democratica a cospetto dell'ascesa del partito socialista, il proposito garibaldino di tenere insieme le sue diverse componenti durò nel tempo sotto varie denominazioni. A inizio Novecento esso prese corpo nei blocchi popolari di liberali progressisti, radicali e socialisti riformisti sorti a cospetto del fallito sciopero generale espropriatore del settembre 1904. Dopo la definitiva e netta separazione dei socialisti dagli anarchici (se mai fossero rimasti dubbi, il regicidio del 29 luglio 1900 li spazzò via), i “blocchi” fecero da spartiacque tra massimalisti e riformisti, tra anarco-sindacalisti e quanti capirono che occorreva scongiurare avventure e rabberciare il “timone” del governo mentre in Europa imperversavano venti di guerra. Contrariamente a quanto viene proposto da alcun letture “complottistiche” della storia d'Italia, la fragilità dell'assetto delle istituzioni e della macchina di pubblici poteri (non solo la sequenza di governi e maggioranze parlamentari) non va addebitata al magma dell'area liberal-risorgimentale, e quindi alla Massoneria, ma alle lacerazioni perpetue del partito socialista, che coltivò al proprio interno la frangia movimentistica, repubblicana, rivoluzionaria, corriva a scissioni e al ricorso alla piazza. L'area governativa rimase priva di sostegno da parte della Chiesa e delle organizzazioni politico-partitiche cattoliche. La prima democrazia cristiana non nacque dalla ora riscoperta “Rerum Novarum”. Se ne armò a copertura della rivincita contro l'esito del processo che dal Risorgimento aveva condotto al Regno d'Italia, poi costretto ad alleanze e contro-alleanze per motivi di sopravvivenza, più per convenzione che per convinzione, per affermare l'indipendenza senza finire nel baratro dell'isolamento. Quella prima democrazia cristiana agitò il mito del complotto giudaico-massonico quale brodo di coltura del liberalismo illuministico e di tutte le sue varianti. Lo aveva già solennemente affermato il Syllabus del 1864, quando in Italia la massoneria era, come a lungo rimase, una pianticella stenta. Lo ripeterono centinaia di “condanne” nelle quali, in un crescendo ossessivo, la massoneria fu marchiata come “sinagoga di Satana”. Se si ricorda che essa espresse cinque presidenti del Consiglio, se ne comprendono le conseguenze di lungo periodo. Per intendere il groviglio che condizionò e appesantì la marcia, sempre affannosa, dai sette staterelli esistenti nel 1859 allo Stato proclamato nel marzo 1861 e da lì alla Grande Guerra e a quel che ne seguì va superata la narrazione che frantuma il “continuum” in segmenti di breve periodo o li identifica in presidenti del consiglio spacciati per “dittatori parlamentari”, come fecero Denis Mack Smith e suoi anticipatori ed emuli, compreso Gaetano Salvemini. Al di là della sua demonizzazione da parte delle scomuniche, occorre domandarsi di quali incubi rimasero succubi quanti si ersero a interpreti della storia (e dell'anti-storia) d'Italia e afferrarono il potere dopo il 1918-1922. Nel recentissimo saggio “Massoneria e fascismo dalla Grande Guerra alla messa al bando delle logge” (ed. Carocci) Fulvi Conti offre una succosa antologia di dichiarazioni antimassoniche di “personaggi” peraltro rispettabili. E' il caso di Piero Gobetti. Il 24 gennaio 1924, dopo che il Partito nazionale fascista aveva deliberato l'incompatibilità tra logge e fasci, in “Rivoluzione liberale” egli scrisse: “La massoneria torna di attualità. Ecco un frutto tardivo e non chiesto di cui chiameremo cordialmente responsabile il fascismo. Le rivoluzioni spazzano via i morti: il fascismo, rivoluzione mancata di falsi profeti e di ciarlatani, li resuscita. La massoneria era morta nel 1922 perché era rimasta priva di ogni valore politico e non era il caso di dare importanza a quell'ultima forma meschina, in cui sopravviveva, di società privata di muto soccorso. Mussolini, mangia-massoni implacabile, ha lavorato a ricostituirla, corrotta corruttrice”. Non bastasse, aggiunse: “In America la massoneria si è ridotta a un istituto di filantropia, in Italia terra libera di politici raffinati serve all'attività pubblica. (…) Nell'Italia di Giolitti e di Nitti la massoneria privata era un segno di povertà e di indecisione morale, era un residuo dello storico vizio del popolo intrigante, servile e letterario”. Dopo il rapimento e la morte di Giacomo Matteotti il Grande Oriente si schierò nettamente contro l'incipiente regime e venne flagellato non con articoli di riviste di nicchia ma con le “vie di fatto”. Nel settembre1925 “Battaglie fasciste”, rivista fiorentina dei fascisti “d'assalto”, dettò la linea: “Da oggi non deve essere data tregua alla massoneria ed ai massoni. La devastazione delle logge si è risolta in una ridicola sciocchezza. Bisogna colpire i massoni nelle loro persone, nei loro beni, nei loro interessi. La parola d'ordine è questa: lotta a oltranza”. Era l'elogio del delitto politico. Il 3 ottobre la rivista aggiunse: “La massoneria deve essere distrutta e i massoni non hanno diritto di cittadinanza in Italia. Tutti i mezzi sono buoni: dal manganello alla revolverata, dalla rottura dei vetri al fuoco purificatore...”: formula, quest'ultima, coniata da Gabriele d'Annunzio quando nel “maggio radioso” del 1915 incitò gli interventisti a cacciare da Roma Giolitti, “il vecchio boia labbrone, le cui calcagna di fuggiasco sanno le vie di Berlino”. Quell'estremismo era funzionale ai piani di Mussolini, massonofago, e di Luigi Federzoni, ministro per l'Interno, nazional-fascista, che esortava gli squadristi a non infierire su logge e massoni perché presto il governo stesso avrebbe provveduto ad annientarli. Come avvenne il 20 novembre 1925 con l'approvazione della legge mussoliniana che impose alle associazioni di consegnare l'elenco dei loro membri. La libertà di associazione, già enunciata dallo Statuto di Carlo Alberto, è ribadita dall'articolo 18 della Costituzione dello Stato d'Italia: “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”. E' quanto venne praticato dai seguaci di Garibaldi, la cui insegna era “Italia e Vittorio Emanuele”. Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Giuseppe Garibaldi (Nizza, 7 luglio 1807-Caprera, 2 giugno 1882) L'edizione nazionale degli scritti di Garibaldi iniziò nel 1932, 50° della sua morte. Nel 2025 è ancora in corso. L'“Internazionale azzurra” ne attende il completamento. Nel suo 125° la loggia di Imperia ha pubblicato “Garibaldi vivo. Antologia critica degli scritti con documenti inediti” (ed. Il filo di Arianna, La Spezia, maggio 2025).