GARIBALDI, BANDINI...
UOMINI ALLA RICERCA DELLA STORIA

Luciano Garibaldi...

La morte di Luciano Garibaldi (26-IX-1936/23-XI-2024) fa riflettere sul rapporto tra ricerca e divulgazione della storia. Chi stabilisce la “veridicità”? La risposta pare semplice e immediata. Se chi scrive propone il risultato della ricerca e suffraga le sue affermazioni “documenti alla mano” ha motivo di essere credibile. Non significa che abbia enunciato la “verità definitiva”. Altri ha fatto o potrà fare meglio di lui. Però, quanto meno, anch'egli ha diritto di ascolto, anche se non ha titoli accademici, né ascrizioni a questa o quella “scuola storiografica”, non vanta tessere di partito, avalli editoriali o, come soleva dirsi, “santi in Paradiso”, inclusi ministri e sottosegretari in un'età di decadenza nella quale domina il principio che ogni nomina è “politica”. Allievo da ragazzo dei padri scolopi, poi dei gesuiti (due poli della pedagogia cattolica), Garibaldi non raggiunse neppure la laurea. Non so (non me ne accennò mai) se quando decise di interrompere gli studi universitari e optare per il giornalismo avesse già letto la pagina famosa in cui Luigi Einaudi propose l'abolizione del valore dei “diplomi” quale titolo di precedenza nei concorsi. Imboccò la strada che sentiva propria: la ricerca e la divulgazione dei suoi risultati. Un sentiero seminato di pietre aguzze, perché per percorrerla non occorre né basta una “patente”. Richiede un “mestiere” della cui correttezza si risponde a se stessi (una volta si diceva “alla propria coscienza”). Luciano Garibaldi sapeva che l'“ordine dei giornalisti” era nato dall'Albo dei giornalisti professionisti voluto nel 1925 dal regime, quando Mussolini decise di imbrigliare definitivamente la libertà di stampa. Il duce non poté, perché è impossibile, soffocare quella di pensare. Ma sapeva bene che il libero pensiero appaga la persona libera ma non mina il potere, se non può essere scritto e diffuso sino a divenire opinione condivisa, tale da capovolgere i luoghi comuni imposti dall'alto.    Garibaldi fu e rimarrà tra gli esempi rilevanti dello stretto rapporto tra piacere/dovere della ricerca storica e distillazione e comunicazione dei suoi esiti, ovunque possibile. Tramite i “media” in democrazia, con fogli clandestini o graffiti sui muri in quelli di autoritarismo e totalitarismo. I suoi libri, come le “inchieste” pubblicate nei periodici e gli interventi in dibattiti, rimasero però sempre circondati da una riserva, magari non esplicita, ma sottintesa. In fondo, egli non aveva “titoli”, se non la sua parola.    Com'è, come non è, le riviste che per decenni furono palestre di giovani talenti e avvicinarono decine di migliaia di lettori alla curiosità per la storia, senza barriere cronologiche o tematiche, prima o poi piegarono le vele e affondarono. Difficile credere che siano state vittime solo della sorte cinica e bara dettata da difficoltà di bilancio. Se così fosse, tutti i periodici, a cominciare dai giornali, sarebbero estinti da tempo. In realtà, la cinghia di trasmissione tra ricerca, editoria e periodici dichiaratamente “di storia” si è spezzata a danno di questi ultimi. Proprio la morte di Luciano Garibaldi, che a lungo fu un campione della colleganza tra indagine e comunicazione tramite i “media” suggerisce di non chiudere il caso e di ricordare quanto la conoscenza della storia deve a persone che ne hanno scritto, e molto, per il precipuo piacere/dovere della ricerca, al di fuori degli schemi, senza attendere alcun “nihil obstat”, rischiando, anzi, l'espulsione dal campo.

 ...e Franco Bandini , vent'anni dopo.

Fu il caso di Franco Bandini (16-XI-1921/12-XI-2004), un altro scrittore che accompagnò gusto per l'indagine e divulgazione dei suoi risultati e merita di essere ricordato vent'anni dopo la sua morte. Il libro al quale intendeva legare la sua fama di storico, “Il cono d'ombra. Chi armò la mano agli assassini dei fratelli Rosselli”, uscì per le Edizioni SugarCo di Milano nel febbraio 1990. Il 31 marzo fu presentato al teatro “Garibaldi” di Poggibonsi, poco lontano da Colle Val d'Elsa, dal Casalone, ove, settantenne, viveva tra libri, fascicoli e una miriade di “schede”: miniera per i suoi studi e per gli amici che salivano a sentirne il verbo.    La novità del libro stava nel metodo della ricerca. Secondo l'autore «è ovviamente inutile cercare e sperar di trovare documenti di prova (dell'infiltrazione dei “servizi” dell'Unione sovietica nel controspionaggio italiano in età fascista) anche perché i pochissimi che ebbero conoscenza o sospetto di essi giudicarono più opportuno tener la bocca chiusa, allora e poi, per le sorprendenti ragioni che si vedranno. Ma in questa torbida vicenda i fatti, narrati con serenità, costituiscono prove schiaccianti, arrivano addirittura a fornirci una globale e inedita spiegazione di avvenimenti e “momenti” apparentemente slegati da essi, che fino ad oggi han costituito altrettanti misteri nella storia dell'agonia del fascismo e dei suoi massimi personaggi».    Bandini non si propose di scrivere “chi” uccise Carlo e Nello Rosselli il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l'Orne. Sulla colpevolezza “materiale” della “selvaggia mattanza” perpetrata dai “cagoulards” non avanzò dubbi. Osservò tuttavia che gli autori del delitto, solitamente spacciati per “fascisti”, curiosamente assassinarono solo avversari del partito comunista sovietico e dei suoi più fedeli “affiliati”, quali all'epoca erano i comunisti italiani capitanati da Palmiro Togliatti. Come appunto recita il sottotitolo, Bandini mirò invece a rispondere alla domanda fondamentale: “chi armò la mano” dei sicari.    Dodici anni dopo la pubblicazione dell'opera e le delusion che gliene derivarono, in una lettera inedita a un amico Bandini conveniva che il libro era «macchinoso e pesante, una specie di “arma impropria”». Tuttavia ne era contento, perché «tutto si potrà dire meno che – così – non sia stata raggiunta la verità». L'opera si mosse su tre livelli concatenati, presenti in ogni pagina: quello propriamente storiografico, il politico e l'etico.    Secondo la narrazione tradizionale il duplice assassinio era stato commissionato da Galeazzo Ciano e messo a segno da suoi fiduciari (Filippo Anfuso, Santo Emanuele, Roberto Navale...: tutti infine scagionati in sede giudiziaria) tramite i “cagoulards”: era, in sintesi, la prova della criminalità intrinseca del “regime”. Però quel “racconto” non chiarì il “movente” dell'assassinio: perché il “fascismo” aveva motivo di uccidere i Rosselli a inizio giugno del 1937? Bandini ribadisce la non rilevanza “politica” di Nello, studioso innovatore del Risorgimento, molto apprezzato dallo storico nazionalista Gioacchino Volpe, che nel 1931 aveva scritto a “Sua Eccellenza Mussolini” per favorirne un lungo soggiorno di studio in Gran Bretagna, ottenendone una replica favorevole ma irridente. Quanto a Carlo Rosselli avanzò due quesiti concatenati: per controllarne gli spostamenti i “servizi” italiani dovevano superare enormi difficoltà. Meritava correre il rischio di essere scoperti solo se la sua brutale eliminazione era dettata da un alto “profilo politico”, tale da costituire una minaccia mortale per il regime (in quei mesi al colmo del “consenso”) o addirittura per lo Stato. 

La fragilità “politica” di Carlo Rosselli

Con vasta e meticolosa ricerca Bandini accertò quanto prima di lui nessuno aveva documentato. Temporaneamente privato della carta d’identità, Carlo Rosselli rinnovava annualmente il permesso di soggiorno, consegnatogli l'ultima volta il 15 maggio 1937, due mesi prima della scadenza del passaporto, che “aggiornava” tempestivamente. Su di lui l'Ambasciata italiana a Parigi trasmetteva ogni notizia “in chiaro” al Ministero degli Esteri, che pertanto era perfettamente informato sui progetti di viaggio di Carlo e della moglie, Marion Cave, sino all'ultima istanza di rinnovo, quando Rosselli ne chiese l'estensione per una dozzina di Paesi, tra i quali Olanda, Danimarca, Norvegia e Svezia e altri Stati “nordici”, e i due dichiararono di non avere intenzione di recarsi in Italia e «di non potere ancora stabilire quale sarà la meta del loro prossimo viaggio».    Reduce dalla non fortunata partecipazione alla guerra di Spagna, ove si era battuto a difesa della Repubblica di Madrid contro i “quattro generali” sorretti da Germania e Italia, Rosselli aveva maturato il rifiuto di collaborazione ulteriore con il partito comunista di Togliatti, Luigi Longo, Vittorio Vidali e del loro “mandante” Stalin. Li aveva visti all’opera nell’eliminazione degli anarchici. La scelta comportava l'archiviazione dell’arcaica “Concentrazione antifascista”, pullulante di informatori dell'Ovra e svigorita dal rientro in Italia di tanti antifascisti in esilio (lo ricordò Alberto Giannini nella terza edizione riveduta e aggiornata di “Le memorie di un fesso. Parla Gennarino “fuoruscito” con l'amaro in bocca”, Roma, 1948, ristampata da Arnaldo Forni) e, ancor più, qualsiasi avvicinamento ai comunisti. L'amara esperienza della guerra di Spagna costringeva a riflettere sui limiti politici e operativi della “terza via”, incluso il programma originario di “Giustizia e Libertà”, sintetizzato nella formula mazziniana “Insurrezione e Rivoluzione”. A identica conclusione giunse (con maggior fortuna personale) il repubblicano e massone Randolfo Pacciardi che, scampato di misura all’eliminazione fisica da parte dei “rossi”, dalla Spagna, ove ebbe un prestigioso comando a sostegno della Repubblica, raggiunse gli Stati Uniti d'America, forte di un’appartenenza massonica, incompatibile con il PCUS e i suoi addentellati, per i quali l'iniziazione ai misteri del Grande Architetto dell'Universo è indizio di asservimento alla borghesia.    Secondo Bandini lo schema esplicativo “tradizionale” del “delitto Rosselli” non ricalcava dunque i rapporti tra i partiti e movimenti antifascisti del 1937-1938 ma quelli del 1943-1946, fatti propri dalla “storiografia” postbellica, ispirata all'unità della lotta contro il regime mussoliniano e i suoi “complici”, inclusi la monarchia e l'esercito. 

Un libro scomodo, a volte staffilante ma veridico

Per comprendere l'accoglienza riservatagli va ricordato che, quando “Il cono d’ombra” vide le stampe, Giampaolo Pansa stava scrivendo “Il gladio e l'alloro. L'esercito di Salò” (Mondadori, 1991), lontano anni luce dal suo successivo approdo a “Il sangue dei vinti”, mentre Claudio Pavone lavorava a “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza” (Bollati Boringhieri, 1991), accolto con curioso entusiasmo da quanti a “destra” (come Giano Accam) ritennero che preludesse a una sorta di “riconoscimento reciproco” e di pacificazione tra quanti si erano combattuti da opposti versanti.    Nella “revisione del mito” di Rosselli, Bandini indulse a espressioni pesantemente svalutative e talvolta grevi, specie sul suo ruolo di “rivoluzionario” e sul suo “declino politico”. Lo liquidò come “giornalista disoccupato”, corrivo a immaginare disegni tanto “grandi” quanto irrealizzabili e persino “insani” (formule da lui talvolta stralciate da “informazioni” circolate nelle file dell'antifascismo, in specie tra i comunisti). Bandini sintetizzò il “carattere rosselliano” nel «fare per il fare, il pericolosissimo vizio mentale di prendere decisioni, prima e indipendentemente da una seria valutazione di quadro reale». A suo giudizio Rosselli era e rimase un velleitario, condannato all'emarginazione. Non bastasse, in un passo centrale dell'opera ne stigmatizzò «il dilettantismo un po' chiacchierone […] una dabbenaggine che non ha alcun riscontro nella vita pubblica e privata di nessun altro personaggio della Storia recente […] fu davvero un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, sballottato da un mare adirato e da potentissimi venti, spiranti da direzioni che non gli riuscì di capire. Confuse gli amici con i nemici, le ideologie con la realtà, le Nazioni con le Rivoluzioni, e rimase solo e nudo di fronte alle cambiali in incasso».   

“Ex ore tuo, te judico”...: l'esclusione di Bandini dal campo

Proprio questa frase fu impugnata dallo storico Arturo Colombo per stroncare “Il cono d’ombra” nel “Corriere della Sera” (domenica 22 aprile 1990). La breve durissima recensione deplorò l'«atteggiamento giustiziere, usato con pesantezza di stile e di contenuto», quasi l'autore «fosse l'unico capace di offrirci chissà quali rivelazioni». Sintetizzata la «tesi, ripetuta con monotonia ossessiva» (il delitto non fu opera dei fascisti ma di emissari di Stalin), secondo Colombo «il libro – pur costruito con la tecnica del giallo – porta solo delle congetture». «Scritto con l'irruenza, la grossolanità, e persino certa volgarità di termini del giornalista-cronista in cerca di effetti e di effettacci» a suo giudizio esso era «inconsistente sul piano storiografico e neppure utilizzabile per una operazione pseudo-anticomunista». Come e dove poteva replicare l'autore? Vennero calate le saracinesche contro di lui e contro chiunque invitasse a leggere e a discutere non solo la sua nuova opera ma anche le precedenti, sempre di ampio successo.    In “La Nazione” di Firenze il 9 giugno 1990 (anniversario del delitto) Francesco Ghidetti ricordò che l'addebito dell'assassinio ai “rossi” era già stato sostenuto da Luigi Villari, figlio del celebre Pasquale, e che nel luglio 1951 esso aveva generato un'aspra disputa tra Volpe e Gaetano Salvemini. In “Antifascismo sott'accusa? La parola agli storici” Ghidetti citò la valutazione pacata di Zeffiro Ciuffoletti, storico accademico, sull'opera di Bandini. Anche se non produceva “prove definitive”, essa riusciva a «descrivere il contesto dei grandi intrighi internazionali di quegli anni terribili, il che, peraltro, non è poco». Pur senza condividere le conclusioni di Bandini, Ciuffoletti ammonì: «forse è vero che troppo spesso gli storici si sono adattati a interpretazioni troppo semplicistiche, ma di sicuro effetto politico». Dal canto suo, invece, Nicola Tranfaglia obiettò che i comunisti non avevano alcun motivo di assassinare Rosselli mentre «i rapporti tra Pci e Giustizia e Libertà erano ottimi». Secondo lui il libro di Bandini era «un'operazione politica chiarissima: svalutare l'antifascismo e dire che il regime non uccideva»: affermazione, quest'ultima, del tutto assente in “Il cono d’ombra”, che non verte sul “fascismo” ma su quello specifico delitto. Capovolgendo la realtà conclamata dei “fatti”, Tranfaglia dichiarò a Silvia Sereni che negli ultimi mesi di vita Rosselli era diventato «molto critico delle posizioni anarchiche» e si era «reso conto della necessità di un'organizzazione come quella dei comunisti», posizione che lo rendeva «ancor più di prima un nemico pericoloso del regime fascista». Asserì inoltre che in un documento da lui trovato decenni prima all'Archivio Centrale dello Stato la “polizia fascista” elencava i nomi dei combattenti della guerra di Spagna uccisi o fatti uccidere dai fascisti: «Tra quei nomi – affermò – compare quello di Carlo Rosselli».    Si spinse infine a deplorare che il libro di Bandini fosse stato pubblicato da Sugar.Co, «editore di solide tradizioni democratiche»: una “censura” che andava molto oltre la storiografia e lasciava trasparire una “sorveglianza” sulla libertà di stampa, senza la quale quella di pensiero è quasi zero. Invero, proprio perché tale, la Sugar.Co aveva e avrebbe dato alle stampe una quantità significativa di opere che avevano e avrebbero messo in discussione la leggendaria “unanimità” dell'antifascismo.    In una lettera rimasta inedita, il 1° marzo 1999 Tranfaglia ribadì a Bandini l'intenzione di pubblicare l'elenco degli esuli “uccisi dai fascisti”: una sorprendente autoaccusa, questa, che neppure i più fessi tra gli assassini avrebbero mai fatto, tanto più se interni ai “servizi” e quindi consapevoli dell'uso di simili “dichiarazioni” non solo da parte di futuri “storici” ma degli avversari e, caso mai, dei magistrati, se, come e quando. Comunque Tranfaglia non mandò mai a Bandini quel per lui famoso documento. 

Tecnica dell'“infiltrato”

A differenza delle molte opere precedenti di Bandini, sempre accolte con ampio favore (“Tecnica della sconfitta”, “Gli italiani in Africa”, “Vita e morte segreta di Mussolini”...), quella del 1990 finì… in un cono d'ombra. Contrariamente a quanto molti ritennero, essa non intese dare risposte categoriche ma aprire il dibattito: andare oltre i silenzi di Mussolini, Ciano, Edda, dei “dirimpettai di Mussolini” e degli storici, «per i quali il tema dei rapporti trini ma non perfetti tra le dittature mussoliniana, nazista e comunista è materia di indagine soltanto nei riguardi delle prime due: quasi che sulla carta geografica della morale politica contemporanea si leggesse ancora scritto, dal 1917 in poi, nell'area vergine della Soviezia quel “hic sunt leones” che per gli avi romani chiudeva ogni curiosità di ricerca».    In “Il cono d’ombra” Bandini lasciò cadere tanti sassolini per tracciare la strada di future ricerche proprie e altrui, anche con la speranza che si aprissero archivi e a qualcuno tornasse la memoria. Però, contrariamente a quanto si attendeva, quelle e altre suggestioni non sono state coltivate affatto. Lo si rilevò già nel convegno di Firenze dedicato alla sua opera a fine novembre 2006, con interventi di Gianni Bonini, Aldo G. Ricci, Marcello Veneziani, Luciano Garibaldi, Leonardo Tozzi, Enrico Cernuschi, Fabio Andriola e altri, concordi nel ricordare che egli era rimasto vittima della “damnatio memoriae” da parte della “sinistra”, ma era stato emarginato anche da larga parte del centro-destra. Con “Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico” di Mimmo Franzinelli (Mondadori, 2007) l'anno seguente tornò in auge la versione pre-bandiniana, anche se emendata dall'insostenibile idillio tra “G.L.” e comunisti. Franzinelli, anzi, stigmatizzò l'“appropriazione” strumentale della figura di Carlo Rosselli da parte del Pci.    Il paradosso è che il libro di Bandini uscì proprio mentre la caduta del muro di Berlino, la riunificazione della Germania e la dissoluzione del regime sovietico si ripercuotevano sul quadro politico interno e avrebbero dovuto spalancare porte e finestre a voci nuove, a una rilettura generale della storia. Invece, non rimase in alcun modo scalfita l'egemonia della “sinistra” basata sull’“unanimità dell'antifascismo”, garante della superiorità del “comunismo” e dei suoi eredi politico-culturali.    Motivo in più per tornare a leggere le opere di Luciano Garibaldi, di un autore anticonformista come Bandini e di loro rari emuli. 

Aldo A. Mola

 DIDASCALIA: La copertina di “Il cono d'ombra. Chi armò la mano degli assassini dei fratelli Rosselli” (1990, mai ristampato) che costò a Bandini l'ostracismo politico, forte del pregiudizio accademico nei confronti dei “giornalisti-cronisti” che si ergano a storici. Abusivi... A Bandini il mensile “Storia in Rete” diretto da Fabio Andriola dedicò un numero speciale, con ampia raccolta di suoi scritti.