
La lunga carriera politica di Giovanni Battista Bertone...
“In illo tempore”, un giorno di primavera del 1968, mentre l'Italia da almeno un anno era alle prese con sessantottismo e tanti “politici” premevano per un fumoso “cambio di passo”, una delegazione di democristiani cuneesi andò a Mondovì per un riservatissimo “colloquio” con il senatore Giovanni Battista Bertone, classe 1874. Avvocato e molto altro, il novantaquattrenne la accolse con pacata giovialità. Appena si affacciarono mogi mogi, capito quel che volevano dirgli, andò subito al dunque. Mostrò ancora una volta la sua tempra mite e leonina. Sciorinò come niente aneddoti di venti, quaranta, cinquant'anni addietro. Ricordò la sua prima campagna elettorale. Nel 1909, sessant'anni prima, aveva guidato con successo un blocco clerico-intransigente nella lotta per la conquista del comune di Mondovì. Vinse, ma l'esito fu annullato. Il governo inviò un regio commissario per preparare la riscossa dei liberali. Nel 1911 Bertone prevalse nuovamente. Di lì a poco fu eletto nel consiglio provinciale di Cuneo per il mandamento di Mondovì-Villanova-Frabosa. Da sette anni i suoi sessanta componenti (aristocratici, parlamentari, scienziati, artisti, notabili di ampia fama...) erano presieduti da Giovanni Giolitti (1842-1928). Nel 1913, egli narrò agli ospiti, le elezioni alla Camera nel collegio di Mondovì furono al centro dell'attenzione nazionale perché il “patto Gentiloni” tra Giolitti e i “cattolici moderati” doveva scongiurare la sua elezione. Vinsero i moderati, capitanati da Vittorio Vinai, che sconfisse il giolittiano Vittorio Giaccone. Il socialista Felice Momiliano si fermò a 609 voti contro i 5908 di Vinai. Quel patto non funzionò nemmeno a Cuneo, dove Gentiloni in persona intervenne per bloccare i cattolici intransigenti e spianare la strada all'elezione del trentunenne Marcello Soleri, già sindaco di Cuneo, contro Tancredi Galimberti, in rotta di collisione con Giolitti e nettamente sbaragliato. Anche all'epoca in provincia piccole ruggini diventano odi immarcescibili. Bertone però sapeva guardare lontano. Il 1° settembre 1917 da Frabosa, ove estivava, rinnovò a Giolitti il plauso per il coraggioso discorso tenuto a metà agosto al consiglio provinciale di Cuneo: «Quando milioni di lavoratori delle città e delle campagne, la parte più virile della nazione, torneranno affratellati per anni dai comuni pericoli, ritorneranno alle loro umili case con la coscienza dei loro diritti e reclameranno ordinamenti improntati a maggiore giustizia sociale che la patria riconoscente non potrà loro negare.» Bertone aggiunse: «Dietro a Vostra Eccellenza vada, silenziosa nel dolore ma ferma nelle sue aspirazioni, la grande massa del popolo italiano.» Parlava la lingua dei cattolici che verso fine Ottocento si erano organizzati nella prima “Democrazia cristiana” ponendo la “questione sociale” in termini non troppo diversi dall'Estrema sinistra (più equità: la “Rerum Novarum” di papa Leone XIII aveva più di vent'anni), ma senza toccare quella istituzionale. Da politico già sperimentato e avveduto, Bertone gli propose anche di varare un accordo tra “La Stampa” del senatore giolittiano Alfredo Frassati e il foglio cattolico torinese “Il Momento”: «Si avrebbero così due giornali a disposizione. E parmi cosa importante», egli osservò. Gli premeva fermare i nazionalisti e i rivoluzionari dell'Estrema sinistra che a metà agosto del 1917 avevano plaudito agli inviati dei soviet e incendiato Torino. L'intransigentismo clericale apparteneva al passato remoto. Perciò Bertone, laureato in legge nel 1896, nel gennaio 1919 fu tra i fondatori del partito popolare italiano guidato da don Luigi Sturzo e ne promosse rapidamente l'organizzazione capillare, utilizzando anche la rete degli ecclesiastici, preoccupati da quanto avveniva in Russia e stava dilagando dall'Europa centrale alla Gran Bretagna, preda di scioperi e dove i conservatori vittoriosi in guerra furono sconfitti alle urne. Il 16 novembre 1919 gli italiani vennero chiamati a rinnovare la Camera, sulla base della legge del 15 agosto: suffragio universale maschile e riparto dei seggi in proporzione ai voti ottenuti nei collegi, quasi ovunque identici al territorio delle province. Nel ricordo del “gentilonismo”, su proposta del deputato giolittiano Camillo Peano la legge adottò il “panachage” (“screziatura”): se in una provincia, come quella di Cuneo, erano in palio dodici seggi e una lista metteva in campo undici candidati l'elettore poteva aggiungere un dodicesimo nome pescandolo tra i candidati di un'altra lista. Un cattolico poteva votare anche un liberale e viceversa. In provincia di Cuneo il sistema funzionò. Ma a vantaggio di Bertone i cui elettori non aggiunsero preferenze a favore di Giolitti, mentre molti liberali votarono anche Bertone, che sommò più suffragi dello Statista. Finì che i popolari ebbero quattro seggi, come i socialisti, mentre i liberali ne ottennero appena tre (Giolitti, Soleri ed Egidio Fazio, di Garessio). Uno andò all'indipendente Carlo Bianchi, di Bra, che si affrettò a votare con il governo, presieduto dal democratico Francesco Saverio Nitti. Giolitti masticò amaro ma, tornato presidente del Consiglio, volle Bertone sottosegretario alle Finanze, a supporto del ministro Luigi Facta, da trent'anni eletto a Pinerolo. Quando Facta divenne presidente del Consiglio lo chiamò alla guida del ministero. Nella drammatica seduta del 28 ottobre 1922 Bertone fu tra quanti (Paolini Taddei, Giulio Alessio e Soleri) chiesero di usare la maniera forte per fermare gli squadristi. Ci voleva poco. Il generale Emanuele Pugliese, ebreo osservante, comandante della divisione militare di Roma, pluridecorato, aveva predisposto tutto, come poi documentò in “Io difendo l’Esercito”, pubblicato a Napoli nel maggio 1946: un libro che tanti “storici” dovrebbero leggere prima di narrare fiabe su quei drammatici giorni. Le cose andarono come è noto: il re incaricò Mussolini, che formò il governo di coalizione costituzionale comprendente i popolari, con due ministri e sottosegretari, tra i quali Giovanni Gronchi all'Inustria. Bertone, accantonato, fu nominato presidente dell'Istituto nazionale di credito per la cooperazione. Rieletto nel 1924, aderì all'Aventino, ma quando ne constatò l'inconcludenza, nell'Anno Santo 1925 rientrò alla Camera. Allo scioglimento del partito popolare si dedicò alla professione forense. “Ars longa...”. La vita anche, a volte. Per lui lo fu, come evocò alla delegazione in visita a Mondovì quella primavera del Sessantotto. Aveva molto altro da raccontare, a cominciare dal suo rientro nell'agone politico nel 1945, l'elezione alla Costituente nel giugno 1946, la nomina a ministro del Tesoro in successione nel governo De Gasperi al conterraneo Soleri, morto prematuramente, il lancio del prestito per la ricostruzione, voluto da Luigi Einaudi. Senatore di diritto nel 1948, ministro del Commercio Estero e poi dell'Industria e Commercio, vicepresidente del Senato dal 1951 e presidente della commissione Finanze e Tesoro nel 1948, Bertone promosse l'unione doganale italo-francese: un progetto lungimirante che anticipò la linea comunitaria europea degli anni seguenti. Ovviamente ricandidato e rieletto senatore con cifra altissima di consensi, egli divenne uno dei profeti dell'Europa ventura. Di elezione in elezione fu confermato senza rivali. Ma, appunto, si arrivò al 1968. Fatto capire agli interlocutori di essere ancora lucidissimo e pronto a qualsiasi ulteriore prova, prese atto della necessità di “cedere” il collegio, che anche a Roma consideravano “blindato” per qualunque politico, anche se non monregalese o cuneese. Il candidato che gli venne prospettato d'altronde, era degno di lui e della miglior tradizione nella quale era vissuto e si riconosceva: il biellese Giuseppe Pella.
...e quella del “ragioniere” Giuseppe Pella.
Nato a Valdengo il 18 aprile 1902 in un famiglia contadina, diplomato ragioniere al “Sommeiller” di Torino (come Giuseppe Saragat), laureato nel 1924 in scienze economiche e commerciali con un docente quale Luigi Einaudi, fiduciario di imprese tessili del suo originario biellese e insegnante di tecnica commerciale e ragioneria industriale negli istituti tecnici, nel 1935-1936 (gli anni della guerra d'Etiopia e della proclamazione dell'Impero) Pella fu nominato vicepodestà di Biella. Iscritto dal 1919 al partito popolare italiano, negli anni centrali del regime si dedicò alla professione, allo studio e all'amministrazione civica, che risolve i problemi dei cittadini, senza retorica magniloquente. Nel 1945 aderì alla democrazia cristiana e l'anno seguente venne eletto consigliere comunale. Candidato quasi di straforo alla Costituente nel collegio Torino-Novara-Vercelli, come documentano i suoi biografi Francesco Malgeri e Franco Boiardi, fu eletto e subito nominato sottosegretario alle Finanze, un ministero che nel disastrato dopoguerra richiedeva preparazione, competenza e applicazione. Pochi comizi, concentrazione sulla circolazione della moneta e sui cambi tra la lira, il dollaro e la sterlina: fondamentali per l'import-export. Ministro dal 1947 nel V governo De Gasperi, che segnò la rottura tra la democrazia cristiana e le sinistre, dal 1948 al 1951 fu titolare del Tesoro con interim del Bilancio e del Bilancio con interim del Tesoro. Pressoché estraneo alle diverse correnti che (spesso per avidità di potere più che per motivi ideologici) dividevano il partito e dedito a governare la complessa macchina ministeriale, Pella venne apprezzato sia da De Gasperi, Giuseppe Paratore, Ezio Vanoni, Giuseppe Saragat, socialdemocratico, sia da quanti lo avevano conosciuto interlocutore efficiente nel decisivo viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti d'America. Presidente del governo di quell'Italia in affanno (emerge bene dai verbali del Consiglio dei ministri curati da Aldo G. Ricci, editi dal Poligrafico dello Stato), De Gasperi andò oltre Atlantico con il cappotto prestatogli da Attilio Piccioni e le valige omaggiate da Giuseppe Brusasca, mentre sua figlia Maria Romana fungeva da interprete perché il padre parlava bene latino e tedesco ma non l'inglese, lingua dei vincitori. Al governo, Pella perseguì la linea condivisa da Einaudi: non stampare altra moneta, lasciare che il mercato si regolasse da sé esaurendo speculazioni e inflazione, applicare rigorosamente il principio enunciato in Costituzione: «Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte» (articolo 81: da rileggere attentamente in questi giorni). A fianco di De Gasperi nel suo nono e ultimo governo, un monocolore democristiano con l'appoggio esterno del partito nazionale monarchico, il 17 agosto 1953, con sorpresa generale, Pella fu nominato presidente del Consiglio. Einaudi lo scelse senza le consultazioni già allora di rito. Il Capo dello Stato decise ai sensi del secondo comma dell'articolo 92 della Costituzione: «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri.» Non era una novità nella storia d'Italia. Era già tutto scritto nello Statuto Albertino del 1848 e nel regio decreto 14 novembre 1901. I Costituenti lo ribadirono. Einaudi proseguì nel solco. Monarchico e liberale, egli non era stato il primo candidato della Democrazia cristiana alla presidenza della Repubblica dopo Enrico De Nicola. Volente o nolente De Gasperi gli aveva inizialmente preferito il repubblicano veemente Carlo Sforza, scartato dopo tre votazioni fallite. Fu il giovane Giulio Andreotti a informare Sforza (notò che aveva già pronto sul tavolino il discorso di insediamento) e subito dopo annunciò a Einaudi che sarebbe stato il nuovo candidato della maggioranza di governo uscita dalle urne il 18 aprile 1948. Einaudi gli fece notare che era claudicante. Ma questo era l'ultimo dei problemi per uno Stato che doveva risalire lentamente la china. Importante era vedere con chiarezza la meta e “tenere la rotta”... Nella pienezza dei poteri costituzionali, da consegnare interi al successore quando fosse arrivato il momento, Einaudi nominò dunque Pella, che si trovò a presiedere un monocolore democristiano con l'astensione di liberali, monarchici e repubblicani. Tenne per sé gli Esteri, che volevano dire lo Stato e, indirettamente, le sue forze armate, e il Bilancio. Affidò a Fanfani l'Interno, la Difesa a Paolo Emilio Taviani, al suo primo incarico in quel ministero chiave, il Tesoro a Silvio Gava, le Finanze a Ezio Vanoni. Per molti i loro nomi oggi sono persi nell'oblio che oscura i difficili anni della Ricostruzione. Vanno invece ricordati perché quegli uomini furono artefici del “miracolo economico” degli anni immediatamente seguenti.
La questione del confine italo-jugoslavo
Nel settembre 1953 Pella affrontò la crisi più grave dell'Italia nel dopoguerra. Il presidente della Jugoslavia, Josip Broz Tito, comunista spietato ma vezzeggiato da occidentali (soprattutto gli inglesi) perché in tensione con Stalin, il peggiore, accennò a manovre annessionistiche: intendeva occupare la “Zona B”, amara “eredità” dei giochi militari-diplomatici dell'ultima fase della seconda guerra mondiale, costata la rettifica della frontiera italo-jugoslava ai danni dell'Italia e la prolungata contesa, chiusa solo nel 1975 con il Trattato di Osimo, tardivo sotto tutti i punti di vista. Nell'inerzia di chi avrebbe dovuto tutelare i diritti del Paese, che dal 1949 aveva aderito alla Nato, alleanza difensiva, Pella non esitò a decidere la mobilitazione militare. Il mite economista mostrò un volto tanto inatteso quanto necessario e decisivo. Venne osteggiato dalle sinistre e da parte della stessa democrazia cristiana e tacciato di deriva nazionalistica, quasi che l'Italia confinasse con pacifisti e non avesse al proprio interno fautori dell'Unione sovietica e nostalgici dell'arrivo dell'Armata Rossa a sostegno della mitica”rivoluzione” e del rifiuto oltranzista dell'“Occidente”. Lo spostamento di alcune divisioni verso la frontiera non fu un azzardo: ebbe vastissimo plauso dall'opinione pubblica degli italiani e risultò la premessa per il sofferto definitivo ritorno integrale di Trieste all'Italia nell'anno seguente. Nato come “di amministrazione”, il governo si trovò presto in bilico. I primi a non sostenerlo furono appunto i democristiani che lo consideravano appena un “amico”. Il 12 dicembre Pella venne implicitamente sfiduciato dal discorso di Mario Scelba a Novara. Dopo altri contrasti, il 18 gennaio 1954 rassegnò le dimissioni. Gli subentrò Amintore Fanfani che resse poche settimane e spianò la strada al governo presieduto da Scelba che il 10 febbraio 1954 incluse socialdemocratici e liberali, con Saragat vicepresidente. Scelba tenne l'Interno e affidò le Finanze a Roberto Tremelloni. Alcuni ritennero che la carriera politica di Pella fosse drasticamente finita. Invece egli tornò vicepresidente del Consiglio (con Adone Zoli), due volte ministro degli Esteri (con Zoli e Antonio Segni) e Ministro del Bilancio nel III governo Fanfani (il primo con astensione dei socialisti). Dopo che, nel 1968, gli fu trovato un collegio “sicuro”, quello di Mondovì, a scapito del nonuagenario Bertone, nel 1972 Pella venne chiamato alle Finanze da Giulio Andreotti. Poi finì sempre più ai margini in Italia. Ma dal 1956 presiedette l'Assembla generale della Comunità europea del carbone e dell'acciaio e lavorò sempre più alla costruzione dell'Europa ventura. Morì il 31 maggio 1981. Le vite parallele di Bertone e Pella insegnano che occorre tempo per apprendere bene ed esercitare al meglio il mestiere della politica e del governo, senza limiti di durata del mandato. Lo decidono le capacità personali e il consenso degli elettori. Gli statisti più fattivi risultano anche i più longevi, meno sensibili alle sirene dell'ideologia e più attenti alla “ragioneria”, che deve fare i conti con la realtà interna planetaria.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA BERTONE E PELLA Giuseppe Pella (1902-1981) e l'invito al dialogo di Torino (Circolo Unificato Ufficiali, C.so Vinzaglio 76, h. 17:30 di lunedì 24 novembre) sull'europeismo di Soleri, Einaudi e Pella, promosso dalla Banca di Caraglio e da “il Giornale del Piemonte e della Liguria” con interventi del direttore Diego Rubero e di Alessandro Marini.