CODREANU
CHI ERA COSTUI?

Italia-Romania, storie parallele?

«Sono passati cinquantacinque anni da quando un giovanissimo Carlo Sburlati pubblicò per le Edizioni Volpe quel “Codreanu il Capitano“ che oggi viene ristampato. Noi poco o nulla sapevamo della “Guardia di Ferro” e di Corneliu Zelea…» Lo scrive lo storico Mario Bernardi Guardi in “Capire Codreanu”, appendice critica a “Codreanu. L'arcangelo trafitto” pubblicato da Idrovolanti Edizioni.    Nulla di strano. La prima edizione del libro (1970) uscì quando di lui e della Romania all'estero si sapeva solo quel che faceva comodo e nell'antica Dacia i romeni parlavano a bassa voce perché bastava poco per essere arrestati senza capo d'imputazione e finire in prigione, ove spesso si veniva torturati a morte. La Romania era, come è, in una posizione geografica strategica: all'epoca nella sfera dell'Unione sovietica, ma non priva di rapporti economici con l'“Occidente”. Un Paese di frontiera.    Per inquadrare Corneliu Codreanu (1899-1938) occorre fare un passo all'indietro. A livello di alta diplomazia, il Regno d'Italia, sorto nel 1861, ebbe rapporti crescenti con la Romania ancor prima che essa prendesse forma di Stato sovrano. Il suo lento cammino verso l'indipendenza prospettava tre vantaggi per la Nuova Italia: indeboliva l'impero turco-ottomano che conservava parte notevole del Mediterraneo orientale, fungeva da antemurale nei confronti dell'Impero russo e, infine, la lingua d'uso, caso unico nell'Europa centro-orientale, era neo-latina.    Negli anni 1860-1866, assunto il nome di Romania, il paese si avviò all'indipendenza e varò l'abolizione della servitù della gleba e l'incameramento dei beni ecclesiastici. Nel 1866, l'anno della vittoria della Prussia sull'Austria e della riorganizzazione dell'impero asburgico, le venne assegnato per “sovrano” un Principe della Casa di Hohenzollern- Sigmaringen, che mirò a germanizzarla. Costituì un passo avanti della “marcia verso est”, coltivata dal cancelliere Otto von Bismarck, vincitore sulla Francia di Napoleone III nel 1870. Il Congresso di Berlino del 1878, successivo alla feroce guerra russo-turca, trasferì all'impero zarista la Bessarabia, ambita dai romeni. Nel 1881 la Romania venne riconosciuta come regno indipendente e strinse alleanze segrete con Vienna e Berlino. L'anno seguente l'Italia stipulò la Triplice Alleanza con la Germania e il proprio nemico storico: l'Austria-Ungheria. Non potendolo combattere (avevamo un confine militarmente debole, come si vide nel 1915) tanto valeva stringerlo tra le braccia.    I rapporti italo-romeni divennero intensi tra fine Ottocento e inizio Novecento anche grazie alla “Corda Fratres”, associazione studentesca internazionale, che donò a Bucarest una copia della Lupa allattante Romolo e Remo.    A cospetto della conflagrazione europea del 1914 fitte trame diplomatiche convennero sull'opportunità dell'intervento contemporaneo dell'Italia e della Romania contro gli Imperi Centrali. Benché di Casa tedesca, su pressione del liberale Ionel Bratianu, Bucarest proclamò la neutralità e, successivamente, si preparò all'intervento. Assaliti sui due fronti quegli Imperi sarebbero crollati o quanto meno sarebbero stati indotti al tavolo delle trattative di pace. Roma intervenne, ma non fu risolutiva. Bucarest attese.    Poi lo fece, ma a tutto vantaggio della Germania, che invase agevolmente la Valacchia e si valse delle cospicue risorse romene, sia alimentari, sia naturali, a cominciare dal petrolio la cui estrazione venne intensificata, e le impose il ritorno alla neutralità. Nel 1917 la rivoluzione in Russia e l'avvento dei bolscevichi al potere a Mosca valorizzarono la posizione geo-storica della Romania in chiave di stabilizzazione dell'Europa orientale. 

La “Grande Romania, più estesa, più debole

    La ratifica dei nuovi confini venne con il quarto trattato di pace postbellico, siglato al Trianon il 4 giugno 1920, poco prima dell'offensiva russa verso Occidente, sorprendentemente fermata dai polacchi mentre conati rivoluzionari divampavano nell'Europa centro-occidentale, inclusa l'Italia che in settembre registrò l'occupazione delle fabbriche. Nacque la Grande Romania, che comprese Bessarabia, Transilvania, Bucovina e Banato. L'ingrandimento creò più problemi di quanti ne risolse perché un quarto della popolazione risultò di ungheresi, bulgari, ucraini e serbi, che si aggiunsero alle due già notevoli minoranze di turchi e di ebrei. Questi ultimi avevano il controllo di banche, industrie, studi superiori: un primato che suscitava profondi malumori nei nazionalisti. La Romania era complessa anche sotto il profilo religioso. Vi prevalevano gli ortodossi. I cattolici erano un’esigua minoranza, dai mezzi economici limitati a fronte di quelli della chiesa ortodossa, che incarnava lo “spirito nazionale”.    L'assegnazione di terre a un milione e mezzo di romeni potenziò l’agricoltura, mentre l'industria estrattiva e metalmeccanica rimaneva circoscritta a pochi distretti. In assenza di programmazione adeguata e lungimirante, crebbe il divario città-campagne. Per il nazionalismo rurale la città rimaneva lontana, estranea, tutt'uno con la corruzione di partiti politici e delle istituzioni, che rimanevano poco radicate, anche tra i “colti”. Alla morte di Ferdinando, salì al trono suo nipote Michele anziché suo figlio Carlo, principe ereditario. Messo al bando il partito comunista, la Romania si trovò in bilico tra borghesia agraria e borghesia urbana e movimenti come le Guardie di Ferro. In quello scenario si affermò l'ormai trentenne Corneliu Codreanu Zelea. 

Codreanu: un uomo cosmico...

    Già allievo della Scuola Militare di Botosani, figlio di un docente di liceo, nel gennaio 1918 egli “andò al bosco” con compagni di studi per fondare un’associazione militante. Due anni dopo presiedette la Società degli studenti di diritto che propose la limitazione dell'accesso di ebrei alle facoltà universitarie. In risposta, nel 1921 venne espulso dall'Università. Terminati gli studi, ma senza ricevere il diploma di laurea per rappresaglia accademica, si recò in Germania. Rientrato in patria fondò la Lega per la difesa nazional-cristiana. Arrestato per sette mesi, in detenzione elaborò la costituzione della Legione dell'Arcangelo Michele, di ispirazione profondamente religiosa con curvatura spiritualistica.    Alto un metro e novanta, occhi azzurro-grigi penetranti, atletico, Codreanu soleva trasferirsi a cavallo dall'uno all'altro centro di diffusione del movimento. Accendeva gli animi con eloquio trascinante e linguaggio immaginifico. Vestito con l'abito nazionale era percepito come interprete della rinascita della Romania, libera dai ceppi della “politica politicante ” e del predominio ebraico. Sia Sburlati sia Bernardi Guardi escludono che la sua avversione per gli ebrei fosse ispirata da antisemitismo, odio verso la religione israelitica e razzismo. Essa aveva l'obiettivo di equilibrare il peso della diverse stirpi all'interno dello Stato e ridimensionare il predominio di una sulle altre, ai danni del “popolo”.    La Legione dell'Arcangelo Michele assunse una linea sempre più radicale e ricorse alla violenza, sia contro i veri e propri nemici esterni sia contro infiltrati e traditori, le cui denunce determinavano carcerazioni e torture. Se ne ebbe un saggio quando il 25 ottobre 1924 Codreanu uccise a revolverate il prefetto Constantin Manciu, colpevole di brutalità nei confronti di studenti e militanti della Legione, frustati a sangue. Assolto perché gli venne riconosciuta la legittima difesa, dopo un'ulteriore permanenza all'estero, dette vita al movimento legionario, culla di spiritualità. Per lui la vera rivoluzione non era di carattere economico e sociale, come quelle dei partiti socialisti e liberal-nazionali, ma mirava alle “anime”. 

...il suo programma...

    In capitoli esemplari Sburlati illustra i capisaldi del pensiero di Codreanu. Egli impose la «legge della disciplina», che «porta ogni militante ad agire all'unisono coi suoi compagni»; la «legge del lavoro» per «concorrere all'edificazione della Legione e allo splendore della Romania»; la «legge del silenzio» i cui precetti erano: «Parla poco; di’ ciò che è necessario, quando è necessario. Il legionario nello scrivere e nel parlare deve essere breve, chiaro, preciso.» A queste, Codreanu aggiunse la «legge dell’educazione»; la «legge della solidarietà» (aiutare il prossimo o l'amico caduto in disgrazia); e, infine, la «legge dell’onore»: «Non essere mai vile. Lascia agli altri le vie dell'infamia. Piuttosto che vincere slealmente, meglio cadere combattendo, avendo intatto il proprio onore.»    Sburlati, a ragione, insiste sul senso sacrificale che era a base della Legione. La morte per la Patria era tra i sui canoni. I nove comandamenti legionari dettavano: «Il legionario non polemizza con nessuno. Disprezza i politicanti; si domanda a ogni istante: che cosa ho fatto di bene per la Romania? Si ricorda di avversari, nemici e falsi amici e saprà guardarsene nei giorni a venire». «Comincia ogni lavoro con il pensiero elevato a Dio e lo ringrazia una volta ottenuto lo scopo. Teme soltanto Iddio, il peccato e il momento in cui e sue forze fisiche o spirituali vengano meno.» Infine, «Ama la morte perché servirà all'edificazione della Romania Legionaria». In effetti caddero circa 6000 Guardie di Ferro. Dal canto loro tra il 1924 e il 1937 i Legionari uccisero almeno tredici funzionari o politici di spicco.    Per far risalire la Romania da secoli di servitù morale occorreva anche la “mistica del lavoro”. Allo scopo vennero istituiti campi di lavoro nei quali tutti i militanti si trasformavano in muratori, sterratori, manovali, carpentieri, fabbri. In tal modo si attiravano la stima di lavoratori e operai. 

...e la sua tragica morte

    Il ritorno di Carol II a Bucarest segnò la svolta. Il sovrano era deciso a liberarsi delle Guardie di Ferro, che ne denunciavano la sfacciata immoralità. Inquisito per reati mai commessi (alto tradimento e connivenza con il nemico), il 27 maggio 1938 Codreanu fu condannato a dieci anni di carcere. Sentì che ormai aveva perduto la Speranza. Iniziò a scontarli in condizioni spaventose, nei sotterranei del forte di Jilava: appena una stuoia e due coperte logore per ripararsi dal freddo pungente. Già il 24 aprile 1938 aveva annotato nel diario del carcere: «L’umidità mi penetra nelle ossa. Respiro aria di cantina, mi sento i polmoni trafitti da aghi, da pallottole. Mi stendo sul letto di tavole, mi dolgono le ossa […] In questa notte di Risurrezione prego il Signore di ricevere il mio sacrificio, e, se necessario, di prendere la mia vita.» La sua esperienza terrena di “rivoluzionario dell'anima”, in specie di quella romena stava volgendo al termine.    Nella notte tra i 29 e il 30 novembre, come poi ammesso dal maggiore Dinulescu, Codreanu e altri tredici detenuti vennero fatti salire su un autocarro, incatenati con le braccia dietro la schiena, impossibilitati a fare qualsiasi movimento e con la testa ritta sul collo. Lungo la strada da Ploesti a Bucarest, nei boschi di Tancabesti, al segnale convenuto ogni gendarme strinse una corda al collo del legionario che aveva dinnanzi. Vennero tutti strangolati. La versione ufficiale della strage parlò di un loro tentativo di fuga e della necessaria repressione. I cadaveri furono gettati in una fossa comune, poi disseppelliti e trasferiti in altra fossa, irrorati di acido solforico. La fossa fu coperta da cemento e da uno strato di terra. Ogni sgherro ricevette ventimila “lei” (la moneta romena).    Nel libro pubblicato nel 1970 Sburlati osserva scrupolosamente l'obiettività dello storico. Non manca di lasciar trasparire ammirazione per la statura morale di Codreanu ma non ne intesse l'apologia. Gli preme informare il lettore e mettere in evidenza l'ampiezza della cerchia di amici e di studiosi che lo vollero conoscere per coglierne la personalità nel colloquio diretto. Fu il caso di Julius Evola. Una sola volta Sburlati inserisce un termine traslato dalla storia d'Italia a quella romena: quando definisce “badogliano” lo stratagemma al quale ricorsero i carcerieri per motivare l'assassinio di Codreanu e degli altri prigionieri: l'addebito della “fuga” e la conseguente repressione “manu militari”, come accadde a Ettore Muti.    Il suo obiettivo è di far sapere: recuperare da un artificioso vuoto di memoria un movimento che può essere accostato alla Falange di José Antonio Primo de Rivera e che (forse) poté influire sul programma politico, sociale e sindacale di Juan Domingo Perón e sulla tensione mistico-rivoluzionaria di Evita e dei suoi “descamisados”.   Gli accostamenti sono sempre complessi e qualche volta rischiosi.   Dal volume, la cui lettura va raccomandata, emerge comunque che al netto di dichiarate simpatie e assonanze, il “caso Codreanu” è unico e irripetibile: nulla da spartire con il nazionalsocialismo hitleriano, neopagano e germano-centrico. Anche per il fondatore della Guardia di Ferro il “popolo romeno” è “popolo eletto”, ma nella misura circoscritta al recupero della propria identità dopo secoli di dominazione straniera, che ricadeva anche sulla libertà di culto. Superfluo osservare che l'insistenza di Codreanu sull'aggettivo cristiano sta, appunto, per “cristiano”, non per “cattolico”.    Lo stesso vale per il rapporto tra Guardia di Ferro e fascismo. Le diversità sono molte e sostanziali. Il fascismo (caleidoscopio di correnti e di interpretazioni) dal settembre 1922 accettò la forma monarchica dello Stato e la condivise sino al settembre 1943. È esaltazione della “città”, mentre per Codreanu l'urbanesimo è insidioso e corruttivo. Il fascismo è anche “strapaese”, ma fautore della meccanizzazione del lavoro agricolo. Infine la differenziazione investe il rapporto tra il partito e la Chiesa. L'“uomo nuovo” di Codreanu ha poco a che vedere con quello prospettato dalla dottrina del fascismo. Il vagheggiamento di un “imperialismo rumeno”, evocato da Mario Bernardi Guardi con una puntuale citazione di Codreanu, è manifestamente sovradimensionato rispetto alla realtà del Paese. 

Un libro all'Indice?

     E qui, per collegarci all'abbrivo dell'articolo, la sua osservazione sulla disinformazione dell'opinione italiana su quanto avveniva in Romania negli anni dell’ascesa di Codreanu e del suo brutale assassinio, va constatato che a metà degli Anni Trenta del secolo scorso anche le opere più accreditate come l'Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile manco si erano accorte delle Guardie di Ferro. Il paragrafo “Storia” compreso nell'ampia voce “Romania” che nel 1935 aprì il volume XXX dell'Opera si ferma a poche righe sul dopoguerra.    Per questi motivi risulta paradossale quanto avvenuto alla rassegna romana “Più libri, più liberi” ove si levò la pretesa, avanzata da una ventina di editori su 600 partecipanti, di escludere editori “scomodi”, con indicazione nominativa dell'editrice “Passaggio al bosco” (evocativa della decisione giovanile di Codreanu) sulla base di preconcetti in totale contrasto con la promozione della conoscenza e l'elenco di titoli da mettere all'indice dei “libri proibiti”, come la biografia di Codreanu di Yves Morel.    Sconsolatamente Carlo Sburlati osserva che «Codreanu ha più fiducia nell'uomo o meglio, nella capacità dell'uomo di lottare e di elevarsi al di sopra della propria natura di animale diencefalo-ipofisario […] Non bisogna insomma prima vincere e poi convincere, ma fare in modo che la convinzione e la consapevolezza di tutti siano il primo gradino da cui partire per realizzare i traguardi che ci si è imposti. Codreanu è soprattutto un poeta, per quanto questa parola può significare, in senso negativo che positivo. Ma, probabilmente, sia nel mondo di ieri che in quello di oggi, non c'è posto per poeti alla testa degli Stati». Ci si deve accontentare di “contabili”... 

Aldo A. Mola

 DIDASCALIA: La copertina del volume di Carlo Sburlati, “Codreanu. L'Arcangelo trafitto”, Idrovolante Edizioni, dicembre 2025.