Alle ore 15 di Lunedì 5 maggio 2025 a Genova, nella Sala Conferenze dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere a Palazzo Ducale, si svolge il Convegno nel Centenario della nascita di Marcello Venturi (Seravezza, Lucca 1925-Molare, Alessandria, 2008). Giornalista, scrittore e direttore editoriale, nel 1967 Venturi pubblicò il romanzo storico “Bandiera bianca a Cefalonia” che richiamò l'attenzione internazionale. Intervengono Francesco De Nicola, Pino Boero, Carlo Prosperi, Renato Venturelli e Carlo Sburlati che continuò la missione civile di Venturi quale demiurgo del “Premio Acqui Storia” in anni memorabili.
Alla ricerca dei fatti, oltre il mito.
Ci sono i fatti. Poi le narrazioni. Vi sono il mito e il suo uso, secondo i tempi della politica. Vi è la storia del mito. La storia “vera”, cioè l’accertamento dei fatti, arriva penultima. Ultimo è l’inquadramento di un “episodio” nel suo contesto. Questo giunge in ritardo e non influisce né sull’uso politico del mito, né sulla “vulgata”, cioè su quanto ognuno crede di sapere, ripete e non ammette venga messo in discussione. La ricerca è impresa disperante perché il suo esito è scomodo. Chi scrive sulla base dei documenti non lo fa per se stesso ma per i posteri (se ve ne saranno) o almeno per far sapere che non tutti erano a occhi bendati dinnanzi alla verità dei fatti, anche quando è scomoda. Le guerre, come gli Stati, non sono né morali né immorali. Sono guerre. Chi decide di dichiararle sa a che cosa va incontro. La tragedia della Divisione Acqui a Cefalonia ne è paradigma. Massimo Filippini ha il merito di aver smosso con studi rigorosi le acque stagnanti del conformismo e di aver indicato le responsabilità “a monte” della catastrofe: almeno 1.650 militari italiani (a cominciare da circa 400 ufficiali) vittime della rappresaglia germanica. Ogni anno nuovi contributi documentari fanno più luce sullo sbandamento generale seguito all'annuncio dell'“armistizio” la sera dell’8 settembre 1943. Da quel momento il Comando Supremo diramò “ordini”, talvolta enigmatici. Quello spedito al Generale Antonio Gandin l'11 settembre 1943 tramite “Marina Brindisi” è invece chiarissimo: «Resistere con le armi at intimidazione tedesca di disarmo a Cefalonia et Corfù et altre isole.» Il pomeriggio dell’8 settembre i vertici del governo e militari nell’improvvisato cosiddetto “consiglio della Corona” (organo mai esistito né nella forma né nella sostanza) s’illudevano che gli anglo-americani avrebbero annunciato la resa senza condizioni dell'Italia non prima del 12. L'annuncio quella sera stessa fece tutto il male possibile sia alle Istituzioni sia alle Forze Armate italiane, come del resto era nelle intenzioni dichiarate da Roosevelt e da Churchill: eliminare per sempre l’Italia dal novero delle “potenze” e ridurla a “provincia” del loro impero. Per la maggioranza degli italiani l'“armistizio” (anziché “resa senza condizioni”, quale fu) venne inteso come “fine della guerra”. Invece il peggio doveva venire.
Guerra “difensiva”, senza visione strategica.
Cefalonia torna incalzante nella memoria. Ebbe il suo “cantore” in Marcello Venturi che in “Bandiera bianca a Cefalonia” la propose all’attenzione quale monito: tenere viva la memoria per non ripetere gli errori del passato. La narrazione di Cefalonia è analoga a quella del Corpo Italiano di Spedizione in Russia, poi Armata Italiana in Russia: due vicende del tutto diverse rispetto alla guerra in Africa Orientale e in Africa Settentrionale. In questi due ultimi casi l’Italia combatté per le proprie colonie: possedimenti che risalivano allo sbarco in Eritrea, alla prima guerra d’Africa del 1894-96, all’impresa di Libia varata nel 1911 da Vittorio Emanuele III e da Giovanni Giolitti (statista nient’affatto “pacifista” quand’era il momento di usare il bisturi militare), alla riconquista della Libia tra il 1920 e il 1931 (riproposta all’attenzione da Federica Saini Fasanotti) e alla guerra d’Etiopia del 1935-1936. Nel 1940 le colonie si trovarono coinvolte nel conflitto non perché dal loro territorio dovessero muovere all’assalto dei confinanti anglo-francesi ma perché così venne deciso da Roma, che dichiarò guerra con riserva mentale. Infatti il Comando Supremo impartì su tutti i fronti la direttiva “osservazione difensiva”, quasi il Paese fosse minacciato da Francia, Gran Bretagna e Jugoslavia. La mobilitazione nelle colonie era insomma la continuazione della “grande politica” dal 1885 in poi. L’Italia non aveva motivo di provare imbarazzi più di quanti ne sentisse ogni altro Stato europeo. Chi non possedeva colonie aveva almeno issato la bandiera su isole remote o su spicchi dei circoli polari in una visione ancora eurocentrica della sovranità sul “mondo”. Come ha spiegato Nico Perrone in “Progetto di un Impero. 1823” (ed. Città del Sole), gli Stati Uniti impararono presto la lezione e fecero (e fanno) di meglio (o di peggio, secondo i punti di vista). Nel giugno 1940 l’“offensiva” italiana contro la Francia ebbe esito modesto, come ricordò Italo Calvino in pagine memorabili. Nel 1942 gli italiani avanzarono per tamponare l’irruzione germanica sul Mediterraneo e bilanciare, per quanto possibile, la prospettiva angosciante: l’Italia, che dal 1938 confinava con il Terzo Reich al Brennero, ora se lo trovava anche a Tolone e Marsiglia. La IV Armata italiana Oltralpe non fece nulla di epico. Richiamata in Italia poco prima dell'armistizio, fin che poté protesse gli ebrei. Poi, come noto, si dissolse. Ne scrive Riccardo Rossotto in “La vera storia del tesoro della IV Armata. Il memoriale originale del generale Operti” (Feltrinelli). Le guerre dell’Italia contro la Grecia (1940), la Jugoslavia (1941) e l’URSS furono invece decise nelle fasi successive di un conflitto che Roma credeva di aver chiuso con l’armistizio italo-francese del 24 giugno 1940 e invece di anno in anno divenne europeo e infine mondiale, quando nel dicembre 1941 il Giappone aggredì gli Stati Uniti d’America (senza però muovere un dito contro l’URSS, che a sua volta assalì l’impero nipponico solo nell’agosto 1945: a conferma che la guerra non aveva radici né motivazioni “ideologiche” bensì era lotta “a geometria variabile” tra opposti imperialismi). Ricordiamo per inciso che il governo italiano, presieduto da Ferruccio Parri con Alcide De Gasperi agli Affari Esteri, il 15 luglio 1945 dichiarò guerra al Giappone nell’illusione di sedere al tavolo dei vincitori almeno in quel conflitto. Tra l’autunno del 1942 e la primavera del 1943 molti italiani si domandarono “perché in Russia”? L’interrogativo rovellò quanti vi erano andati volontari o accelerando l’assegnazione al fronte, nella certezza di successi travolgenti e di rapidi avanzamenti di carriera. Nel dopoguerra la ricostruzione delle battaglie, in specie dello sfondamento russo-sovietico sul fronte del Don, l’epopea della ritirata (evocata, fra i molti, da Eugenio Corti e Nuto Revelli) e gli interrogativi sulla sorte di prigionieri e “dispersi” prevalsero sulla ricognizione dei motivi dell’intervento (poco gradito da Hitler) e del peso che esso ebbe sul crollo di Mussolini, del regime politico di cui era “duce” e dell’Italia stessa. A sua volta la fallimentare aggressione alla Grecia (28 ottobre 1940) e la connessa guerra contro la Jugoslavia non entrarono nella coscienza collettiva dei contemporanei, perché non registrarono nessuna vittoria smagliante né alcun rovescio preoccupante, a parte le gravi perdite subìte dalla “Julia”. Fu occupazione e guerriglia. Operazioni di polizia più che imprese militari, anche per il groviglio di odii antichi e di interessi di altre potenze, a cominciare dall’“alleato” germanico che, annessa l'Austria con entusiasmo dei suoi abitanti (1938), fece proprie le plurisecolari mire dell’antico impero asburgico. Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti hanno bene sintetizzato quella vicenda sotto il titolo “Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani, 1940-1945” (il Mulino). Conflitto infelice, tanto nella conduzione quanto nelle conseguenze politico-diplomatiche: un lungo contenzioso lasciato in eredità agli Stati sorti dalla deflagrazione della Repubblica di Tito.
Che fare all'“armistizio”?
Sino all’estate 1943 nessun alto comando italiano nei Balcani e in Grecia, isole comprese, percepì quanto sarebbe potuto accadere nel volgere di poche settimane. D’altronde Roma non doveva far trapelare alcun indizio delle trattative avviate segretamente a Lisbona per ottenere di arrendersi ai soli anglo-americani, anche se questi agivano «a nome di tutte le Nazioni Unite», come recita il preambolo dei due armistizi (Cassibile, 3 settembre, e Malta, 29 settembre). Mantenere la segretezza più assoluta comportò molti sacrifici, incluse le conseguenze (previste, anche se non verbalizzate) della massima riservatezza delle direttive diramate dal Comando Supremo ai Comandi d’Armata in un quadro bellico che in tutti i teatri da anni vedeva le truppe italiane gomito a gomito con quelle germaniche. Ove possibile, le comunicazioni furono consegnate di persona con l'ordine di distruggerle appena lette. Tra fine luglio (quando il governo Badoglio ebbe la certezza di tenere il controllo del Paese con la rigida applicazione della circolare Roatta sull’ordine pubblico dopo il fermo di Mussolini e lo scioglimento del Partito Nazionale Fascista, dei suoi organi e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni) e fine agosto, quando la resa venne accettata, trascorse appena un mese. Sin dallo sbarco anglo-americano in Sicilia (10 luglio) era chiaro che per l’Italia la guerra era perduta e bisognava risparmiare ulteriori sacrifici. Quali motivi rimanevano per continuare a combattere? Le colonie erano tutte in mano nemica, la Sicilia anche. Il Paese stava per essere assalito. Era indifendibile. La flotta (un patrimonio da salvaguardare a ogni costo, sia dall'ex alleato sia dagli anglo-americani, che progettavano di usarla nel Pacifico) e l’aviazione non erano in grado di impedire l’assalto alle coste. Gli “Alleati” (poi divenuto sinonimo di “anglo-americani”, cioè del precedente nemico) avevano mano libera e depistarono il governo Badoglio promettendo lo sbarco a nord di Roma (forse addirittura a Livorno) e nell’Alto Adriatico (Rimini-Riccione, ove in realtà giunsero nell'aprile 1945). Badoglio finse di crederlo per avallare la resa, salvo lasciare rapidamente Roma per le Puglie dinnanzi alla constatazione che i piani dei vincitori erano del tutto diversi dalle sue attese. Con lui si mossero anche i Reali, con lo stendardo bene in vista sull'automobile: a conferma che non fuggivano affatto. Si trasferivano.
Cefalonia
In quel quadro s’inserì la tragedia di Cefalonia. Tra la resa di Cassibile e la dichiarazione di guerra alla Germania da parte del regno d’Italia (13 ottobre) trascorse il lungo mese scandito in rapida successione da due fasi: nella prima il governo ordinò ai comandi di resistere ad aggressioni «da qualunque parte avvenissero», nella seconda precisò di reagire contro i tedeschi. Fu la direttiva data al generale Antonio Gandin, che a Cefalonia si trovò a fare i conti con la richiesta germanica di consegnare le armi. Dopo il fallito tentativo di disarmo degli italiani a Corfù e il rifiuto della consegna delle armi da parte del generale Gandin (13-14 settembre), Adolf Hitler, in uno dei consueti parossismi, dette l’ordine perentorio di fucilare tutti i militari italiani a Cefalonia. Per lui erano simbolo del “tradimento” dell'Italia, di Casa Savoia, di un popolo che andava punito. L’annientamento della Divisione Acqui divenne emblema non per le scelte di Gandin e per quanto poi se ne scrisse, ma proprio perché fu Hitler a farne un’icona. Tra il 21 e il 23 la battaglia di Cefalonia si risolse in un bagno di sangue per la netta superiorità di fuoco (in specie aviazione e artiglieria pesante) e la determinazione dei tedeschi, comandati da ufficiali che avevano combattuto da un capo all’altro dell’Europa e applicato le “leggi di guerra” dalla Polonia al fronte francese nel 1939-40, dalla Russia al Caucaso (nel 1941-1942), in Montenegro, Tessaglia, Epiro, Albania, sempre lasciando dietro di sé una tragica scia di sangue. Dopo la resa e la cattura, il 24 settembre vennero fucilati il generale Gandin e 136 ufficiali. Nel corso dei combattimenti i tedeschi ebbero 60 morti, 104 feriti e 7 dispersi. Il numero degli italiani caduti nella battaglia, fucilati e vittime, successivamente, durante il trasporto dei prigionieri è stato al centro di un lungo “balletto delle cifre”, come ricorda lo storico Hermann Frank Meyer in “Il massacro di Cefalonia” (ed. Gaspari). I primi a ingigantirle furono i comandanti germanici per ammansire Hitler, che aveva ordinato lo sterminio totale degli italiani. Va del resto ricordato che il 23 settembre Mussolini presiedette alla Rocca delle Caminate la prima riunione dello Stato repubblicano d’Italia, poi Repubblica sociale italiana: infierire su italiani non era il miglior viatico per la nuova dispari alleanza. Di seguito ai primi memorialisti italiani, quali “Triarius” (tenente colonnello Ugo Maraldi), l’Ufficio Stampa della presidenza del Consiglio (Ferruccio Parri) il 13 settembre 1945 affermò: «tutti i reparti o militari isolati» catturati dai tedeschi a Cefalonia furono «immediatamente passati per le armi: 4.750 uomini di truppa e 155 ufficiali cui si aggiunsero altri 186 ufficiali fucilati il 24 settembre». Secondo quel rapporto gli italiani inflissero ai tedeschi la perdita di 1.500 uomini, 19 aerei e 17 mezzi da sbarco, ma a loro volta persero complessivamente 9.000 uomini e 406 ufficiali. Anche due cappellani, don Romualdo Formato e don Luigi Ghilardini, concorsero a ingrandire il numero effettivo dei caduti e dei fucilati e a gettare sui tedeschi la taccia infamante di crudeltà fine a se stessa. Gli stessi dati (3.000 o 5.000 o più) vennero ribaditi in pubblicazioni ufficiali del Ministero della Difesa nel 1947, nel 1975 e successivamente. A lungo riviste ufficiose delle Forze Armate hanno ripetuto numeri imprecisi, mentre Giorgio Rochat, nella prefazione al volume di Meyer, indicò 3.800 italiani caduti sull’isola e 1.360 in mare. In certo modo l'indagine storica venne oscurata quando il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi elevò la tragica vicenda della Divisione Acqui a emblema del sacrificio italiano nella lotta contro il totalitarismo e per il proprio riscatto. Era l’inizio di un lungo e segmentato cammino di “riscoperta della Patria”: il Tricolore, un inno nazionale, il ritorno al senso dello Stato. Nella “Dichiarazione” di Quebec (18 agosto 1943, mentre erano in corso i preliminari della resa) gli anglo-americani avevano precisato che l’armistizio non comprendeva l’assistenza attiva all’Italia nella fase più critica (il Re e Badoglio dovevano sbrogliare da sé l'intricata matassa della resa dei conti con la Germania), ma si erano impegnati a modificare a favore dell’Italia le durissime clausole della resa in proporzione all’entità dell’apporto del governo e del «popolo italiano» alle Nazioni Unite durante il resto della guerra. Dichiararono altresì «senza riserve« che «ovunque le forze italiane e gli italiani combatteranno i tedeschi […] riceveranno tutto l’aiuto possibile dalle forze delle Nazioni Unite». Quindi, ricordare il tributo di vite, anzi accrescerne l’entità, era necessario, era patriottico, anche se non rispondeva a fatti realmente avvenuti. Faceva parte della storia del mito e del mito come fattore di storia. In realtà a Cefalonia (e non solo lì, ben inteso) gli italiani vennero lasciati soli. Ottantadue anni dopo essi hanno motivo di ricordare i fatti, di provare sdegno nei confronti degli autori del massacro e al tempo stesso di non tributare soverchia gratitudine a chi non dette aiuto e nel trattato di pace del 10 febbraio 1947 non riconobbe il contributo del Regio Esercito e del Corpo Volontari della Libertà alla vittoria delle Nazioni Unite. A quel modo proprio i “vincitori” alimentarono la propaganda anti anglo-americana, concorsero a perpetuare le contrapposizioni ideologiche e ostacolarono la creazione di una “memoria” condivisa: per ignoranza e per mancanza, ancora prevalente, del senso della Storia.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Marcello Venturi, autore di “Bandiera bianca a Cefalonia” (1967). Collaboratore di “Il Politecnico” diretto da Elio Vittorini, nel 1957 lasciò il Partito comunista. Sposò la marchesa Camilla Salvago Raggi, poetessa e promotrice di cultura. Sulla tragedia degli italiani a Cefalonia hanno fatto luce gli accurati saggi dell'avvocato Massimo Filippini, figlio del Maggiore Federico, uno degli ufficiali fucilati alla Casetta Rossa. La tragedia di Cefalonia ha molti padri. Tra il 25 luglio 1943 e la resa senza condizioni firmata il 3 settembre dal generale Giuseppe Castellano a Cassibile (Siracusa) l’Italia contava in Grecia dieci divisioni: 235.000 uomini. Forte di 172.000 militari l’XI Armata era agli ordini del generale Carlo Vecchiarelli. Altri 63.000 erano accorpati in “SuperEgeo”. Come su altri fronti, tedeschi e italiani erano compenetrati, a tutto vantaggio dei primi, che disponevano di mezzi bellici e servizi informativi di gran lunga superiori. Criptavano e decriptavano. Ma ciò che però più conta è che i tedeschi combattevano con dura determinazione, mentre gli italiani non vedevano l’ora di uscire dal conflitto. Molti si illusero che per l'Italia la guerra fosse finita con l’avvento del governo Badoglio (25 luglio), deciso da Vittorio Emanuele III e attuato il 25 luglio senza riferimento né al voto Gran Consiglio del Fascismo, che pensava a salvare se stesso, né ai partiti anti-fascisti, che rifiutarono di collaborare col nuovo governo. Secondo gli studi più attendibili (dovuti soprattutto a Massimo Filippini), a Cefalonia caddero 1.679 militari italiani, in combattimento o fucilati dai tedeschi. Morirono 314 ufficiali, 136 dei quali furono abbattuti alla “Casetta Rossa” da plotoni di esecuzione. Dei quasi 8.000 sopravvissuti ai combattimenti alcuni riuscirono a dileguarsi e si unirono all’ELAS, fronte greco di liberazione, altri raggiunsero il Peloponneso. Il grosso perse la vita. Il 28 settembre 1943 720 degli 840 italiani imbarcati sul piroscafo tedesco “Ardena” (e destinati all’internamento in Germania) andarono a picco perché la nave urtò le mine posate dagli inglesi per ostacolare l’uscita dal porto (vittime degli “Alleati”, dunque). Altri 544 su 720 morirono nel naufragio del piroscafo italiano “Maria Amalia” affondato dal sottomarino inglese “Trooper”. Un altro centinaio morì nell’affondamento della motovedetta “Alma” da parte del sommergibile inglese “Torbay” (22 novembre). Nell’isola rimasero 1.600 prigionieri. Quando abbandonarono Cefalonia (ottobre 1944), i tedeschi lasciarono alle spalle i prigionieri: 1.286 furono trasportati a Taranto. Ognuno di essi aveva la propria storia da raccontare. Alcuni, autori di aggressioni contro il nemico senza ordine dei superiori, si ersero a “eroi”. La macabra contabilità dei fatti di Cefalonia è stata quasi subito nota a chi aveva ragione di conoscerla, ma non ebbe possibilità o motivo di farla conoscere, perché quella tragedia faceva parte di un confronto politico complesso. Di lì il silenzio dei militari: non per omertà, ma perché sono Militari.