CASA SAVOIA NEI RICORDI DI UNA “PROF”

C'era una volta un Re...

  Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869-Alessandria d'Egitto, 28 dicembre 1947) era e rimane “il Re discusso”. Ascese al trono a 31 anni perché suo padre, Umberto I, venne assassinato il 29 luglio 1900 a Monza da un anarchico, Gaetano Bresci, che non agì certo da solo. Principe ereditario, “Re Vittorio” era in navigazione nell'Egeo con la consorte, Elena di Montenegro, sposata il 24 ottobre 1896. Non avevano ancora figli e in certi ambienti si insinuava non ne potessero avere.   “Intercettato”, apprese dai segnali convenzionali di essere Re. Approdato a Reggio Calabria percorse l'Italia in treno sino alla volta della Villa Reale di Monza. L'“Italia” tenne il fiato sospeso. Come avrebbe governato il nuovo sovrano? Nei due giorni seguenti il regicidio la somma dei poteri venne retta dall'ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Consiglio dei ministri e del Senato, un antico patriota nativo di Bistagno, presso Acqui Terme, giunto a capo del governo con programma di ampie riforme.      

Dopo i funerali e la sepoltura del padre al Pantheon, per primo e unico con il titolo di “Re d'Italia”, l'11 agosto 1900, a capo scoperto, Vittorio Emanuele III giurò fedeltà allo Statuto del regno, identico a quello emanato il 4 marzo 1848 da suo nonno Carlo Alberto di Savoia-Carignano, all'epoca re di Sardegna. Era un re giovane di un'Italia che a Roma era arrivata quando egli aveva appena un anno. Il Re, il suo governo e la dirigenza politica erano scomunicati dalla Chiesa cattolica. Papa Leone XIII aveva ribadito la loro condanna perché avevano debellato lo Stato pontificio, incamerato beni ecclesiastici e varato leggi civili dalla Chiesa considerate eversive. Da otto anni il Partito dei lavoratori italiani, poi partito socialista, si era separato dagli anarchici, ma rimaneva diviso tra programma massimo (la “rivoluzione”) e quello minimo: elezione alla Camera e nei consigli provinciali e comunali. Molti “radicali” erano da tempo mutati in “democratici”, gomito a gomito con i liberali “progressisti”: un gruppo fluido a contatto con i repubblicani “legalitari”, che, eletti deputati, prestavano giuramento di fedeltà allo Statuto ma protestavano perché lo consideravano estorto. Nel Paese, in sintesi, la Monarchia non aveva alternative, ma rimaneva “in sospeso”. In meno di dieci anni si erano susseguiti quattro presidenti del Consiglio: Giovanni Giolitti, affossato dallo scandalo della Banca Romana; Francesco Crispi, travolto dalla sconfitta ad “Adua”, in Etiopia, nel marzo 1896; il marchese Antonio Starrabba di Rudinì, crollato dopo l'insurrezione milanese esplosa in coincidenza con i festeggiamenti del cinquantenario dello Statuto (maggio-giugno 1898) e da lui sanguinosamente repressa; il generale Luigi Pelloux, che vinse le elezioni nel giugno 1900 ma era ritenuto inadatto a rimanere capo del governo proprio perché, in divisa qual era, dava all'estero l'impressione di guidare uno Stato in affanno.    Il giudizio della comunità internazionale contava. L'Italia infatti non aveva solo problemi enormi all'interno, ma anche all’estero, per la sua collocazione nel quadro delle grandi potenze, che in un ventennio si erano spartite l'Africa e gran parte dell'Asia. Vincolata dall'alleanza difensiva stipulata nel 1882 con gli imperi di Germania e di Austria-Ungheria (suo nemico storico, per quel che gli aveva sottratto e per quanto ancora rivendicava), proiettata nel Mediterraneo dalla geografia (che detta la storia), da vent'anni in guerra doganale con la Francia, l'Italia doveva continuare l'espansione coloniale iniziata con l'Eritrea e la Somalia, sovradimensionata rispetto alle sue risorse ma irrinunciabile. Mirava alla Libia. Nel 1900  partecipò alla spedizione internazionale contro i “boxer” in Cina e ne cavò la “concessione” a Tien-Tsin: poco più che simbolica, ma meglio che niente mentre dilagava in Europa l'incubo del “pericolo giallo”, costituito non dalla Cina, bensì dal Giappone, che cinque anni dopo affondò la flotta dell'impero russo giunta spossata nel suo mare dopo aver circumnavigato l'Africa.   

Il  suo programma

    Quale “politica” avrebbe fatto dunque il giovane Re? Lo enunciò nel suo primo discorso agli italiani: «Impavido e sicuro ascendo al trono colla coscienza dei miei diritti e doveri di Re. L'Italia abbia fede in me come io ho fede nei destini della patria e forza umana non varrà a distruggere ciò che i nostri padri hanno con tanta abnegazione edificato. È necessario vigilare e spiegare tutte le forze vive, per conservare intatte le grandi conquiste della Unità e della Libertà.»    Come suo nonno, Vittorio Emanuele III prese sulle spalle il “brut fardel” della Corona, dell'“idea di Italia”, e se ne fece sommo sacerdote. Va evidenziato che alla sua ascesa al trono il Paese non era ancora infettato dai “nazionalisti”, gonfi di retorica, privi di cultura economica, ignari di statistiche, a secco di visioni strategiche e di cognizioni militari: “vanitas vanitatum”. Vi erano invece, come egli auspicava, “patrioti”, consapevoli che occorreva ri-posizionare l'Italia con l'amicizia dell'Inghilterra e la ritrovata intesa cordiale con la Francia. In politica interna garantì massima libertà agli “scioperi economici”, ma “chi rompe paga”.    “Re Vittorio” mostrò subito la sua sovranità sulla politica estera, che trascina con sé quella militare, con il conferimento dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata a Pietro, granduca di Russia, il 9 agosto 1900, ad Alfonso XIII, re di Spagna, il 20 settembre, al principe ereditario del Siam il 1° aprile 1901 e il 10 aprile all'anticlericale Emile Loubet, presidente della Repubblica francese, che così divenne suo “cugino”. Fu la grande svolta. Nel frattempo incaricò del governo il democratico bresciano Giuseppe Zanardelli, notoriamente massone, gran collare dal 2 giugno 1901, festa dello Statuto, come Emilio Visconti Venosta, cinquant'anni prima mazziniano, poi ottimo ministro degli Esteri, apprezzato dal corpo diplomatico internazionale come si vide quando presiedette la conferenza di Algeciras per la soluzione delle tensioni sul Marocco e, più in generale, sull’espansione coloniale delle maggiori potenze.   

… e la vita di Casa Savoia nel diario di Adelina Pasquet...

    Il Re, dunque, fece il Re. Istituzionale e costituzionale. Chiamato a consulto, lo storico Pasquale Villari (a sua volta massone) gli consigliò di decidere di testa sua e di cacciare a pedate i “cortigiani”. Applicò il consiglio. Ma il Re aveva anche la sua “vita di casa”. Se ne scrisse poco e ancora poco se ne sa. Fa luce ora il libro “Dario e ricordi di un'istitutrice di Casa Savoia” di Adelina Pasquet, pubblicato a cura di Stella Peyronel e di Alessandro e Simone Milan (ed. Editris).    Il volume, forte di accurato apparato critico e con ampio corredo di documenti e illustrazioni in massima parte inedite, si vale della Prefazione della Principessa Maria Gabriella di Savoia, che produciamo integralmente perché illustra perfettamente il volume. Ecco le sue parole:   

La prefazione della Principessa Maria Gabriella di Savoia

    «Ho letto il volume con partecipazione crescente e con il velo di melanconia che si prova leggendo una fiaba. Colpisce la protagonista, Adelina Pasquet. Nata a Torre Pellice il 20 settembre 1888, prevalentemente francofona nella vita domestica, già allieva del ginnasio-liceo valdese della città, dopo la licenza liceale (1908) si recò in Germania per apprendere il tedesco, all'epoca dominante negli studi scientifici e umanistici, e ventiduenne conseguì il diploma all'insegnamento del francese all'Università di Torino. Segnalata quale possibile “professora” (sic!) di francese all'Istituto Nazionale per le figlie dei Militari a Villa della Regina, a Torino, nel 1911 vi prese servizio. L'antica capitale viveva il clima festoso del Cinquantenario del Regno d'Italia. Adelina vi rimase un anno. Nell'ottobre 1912 fu chiamata al Quirinale, forse per decisione personale di mia Nonna, la regina Elena, per insegnare francese, dettato e letteratura italiana ai principini Jolanda, Mafalda, Umberto e Giovanna. Iniziò a impartire le lezioni il 30 novembre.    «La parte centrale del volume, dopo cenni biografici arricchiti da fitto apparato critico, meritevole di encomio solenne, è il vero e proprio “Diario”, intrapreso da Adelina Pasquet per dialogare con se stessa ed evocare Beniamino Peyronel, conosciuto al liceo anni prima e via via sognato quale sposo, ma per motivi accademici costretto a vagare da un capo all'altro d'Italia sino ad affermarsi quale micologo di fama internazionale.    «Anima candida, incline ad arrossire come una ciliegia per qualunque parola fuori registro, dedita alla missione dell'insegnamento ma al tempo stesso ansiosa di vivere spazi di libertà personale al di fuori dell'orario di dieci e più ore quotidiane, comprendenti le lezioni e soprattutto la responsabilità generale degli allievi, Adelina narra nei dettagli la vita quotidiana al Quirinale, a Villa Savoia e nelle residenze sabaude di vacanza: San Porziano, San Rossore (con puntate al Gombo e a Montecristo), Sant'Anna di Valdieri, con visite a Entracque, Racconigi (ove i miei Nonni per un decennio durante l'estate si fermavano un intero mese) e a Napoli. Nel “Vecchio Piemonte”, come Pasquet puntualmente annota, il sovrano amava conversare in dialetto con i popolani.    «Sorvegliante sui prìncipi, pronta alla severità come già all'Istituto torinese, e sorvegliatissima su di sé, Adelina vede, ode e, appartata anche quando presente, annota i molteplici aspetti di un mondo nel quale da ragazza non aveva immaginato di potersi/doversi immergere, tanto più perché fedele alla sua “diversità” di valdese in un Paese formalmente cattolico ma nei fatti fra superstizioso e “politeista” qual era l'Italia tra Otto e Novecento.    «Nel Diario Adelina Pasquet ricorda con precisione dialoghi, motti e le frasi che a volte le vennero rivolte dai sovrani. È il caso di mio Nonno Vittorio Emanuele III, che, per esempio, ripetutamente le domandò se fosse piemontese, quale diploma avesse e se nella sua valle originaria ancora si parlasse francese. Di ogni personaggio della corte, come degli ospiti e dei loro figli ammessi alla compagnia dei principi, l'Istitutrice tratteggia bozzetti divertiti e divertenti.    «Chiamata talvolta a condividerne la mensa e le “merende campestri” nei luoghi di vacanza, dei miei Nonni scrive particolari che non si leggono altrove e fanno del suo Diario un documento di interesse generale. Dei sovrani constata anzitutto la sobrietà e semplicità e ne narra anche le corse spericolate in automobile, con lei a bordo, terrorizzata, per strade ancor oggi impegnative, come la salita dalla costa toscana al Monte Nero, con mia Nonna spesso al volante. E poi descrive le ore di libertà genuina vissute dal Re al di fuori degli impegni istituzionali. Mio Nonno in privato non solo amava fischiettare allegramente ma era pronto a scatenarsi in balli (persino una quadriglia, che danzò prendendola sottobraccio) e a gettare la palla nel salone del Quirinale, a volte proprio per colpire benevolmente l'attonita Istitutrice.    «Mio Nonno non era affatto misantropo, chiuso in se stesso, diffidente e cinico. Consapevole dell'enorme responsabilità di sovrano di uno Stato giovane, arretrato e ancora lontano da vera unità di cultura e costumi, perduto il Padre come sappiamo e bersaglio egli stesso di attentati alla sua vita, il Re sentiva la responsabilità di ogni sua parola pubblica. Perciò era riservato nella vita istituzionale e politica ma diretto e spontaneo in quella degli affetti, a cominciare dalla Famiglia. Quanto Adelina Pasquet attesta della sua attenzione per i figli ha suscitato in me il ricordo di quando egli mi teneva sulle ginocchia e gonfiava le gote che io stringevo tra le mani perché sbuffasse, fissandomi sorridendo.    «Il “pensiero dominante” che ricorre nel Diario è l'aspirazione di Adelina al matrimonio con Beniamino Peyronel. Esso comportò il suo congedo dai sovrani e dai principi, ma non significò reciproco oblio. Lo documenta nella terza parte del volume l'ampia raccolta di lettere e cartoline inviatele nel tempo dalle principesse e da Umberto, improntate da autentico affetto, attestato all'Istitutrice sin da quando le chiesero di essere da lei chiamati con i nomi “di casa”.    «La lettura del volume suscita due altre considerazioni. In primo luogo emerge che la popolazione di culto valdese come le altre minoranze religiose presenti in Italia, a cominciare dall'ebraica, non avevano bisogno di dichiararsi monarchiche. Lo erano senza esitazioni, memori delle regie patenti e dei decreti che, per decisione di Carlo Alberto, le avevano affrancate ed equiparate a ogni altro cittadino del regno: uguali dinnanzi alle leggi. Inoltre sorge spontanea la domanda sulla “mano” che potrebbe aver propiziato il cammino dell'Istitutrice da Torre Pellice a Roma. Forse concorse una speciale “condizione” di suo padre. Il libro non ne accenna ma ce ne viene data assicurazione da chi, come Aldo Mola, bene conosce l'intreccio tra garibaldini, liberali, radicali e persino repubblicani convinti che i Re d'Italia fossero gli unici garanti di libertà e progresso civile. Il padre di Adelina, Federico Pasquet, nativo di Prarostino, già volontario al seguito di Giuseppe Garibaldi, proprietario di una segheria e quindi classificato “industriale”, il 25 ottobre 1901 venne iniziato massone nella loggia di Torre Pellice installata nel 1900 con ampia partecipazione di massoni da Torino e di fratelli francesi, inglesi e americani villeggianti nelle valli valdesi e denominata “Excelsior”, come il “balletto” di Romualdo Marenco. Fu una decisione matura. Federico Pasquet aveva 66 anni. Adelina era appena adolescente. Il nome distintivo di quella loggia le risultò di buon augurio? Certo era l'Italia che vedeva il mazziniano fervente Ernesto Nathan, poi sindaco di Roma, attestare tutta la sua ammirazione e la stima leale per il Re, che suo tramite e di tasca propria finanziava gli irredentisti.    «Non era una fiaba. Era la premessa per l'Italia civile auspicata dalle colleghe d'insegnamento di Adelina Pasquet, come Ada Cocci poi sposata con Piero Calamandrei, giurista insigne e deputato alla Costituente per il Partito d'Azione, tra i pochi a ritenere che la Repubblica doveva essere “presidenziale”, fondatore e direttore della rivista “Il Ponte”: un nome programmatico e di sempre pregnante attualità.    «Il volume è una miniera di informazioni e, ciò che più conta, evoca a tutto tondo il primo Novecento, troppo a lungo irriso come età dei “buoni sentimenti”. Oggi ve n'è bisogno.» 

Il mondo che fu. Quel che era torna e tornerà per sempre (Corda Fratres).

A quelle della Principessa «parola non ci appulcro…», come scrisse il Divino poeta. Posso aggiungere che la fondazione della loggia “Excelsior” di Torre Pellice, nella quale Federico Pasquet venne iniziato con il numero di matricola 13.154, fece parte dell'impetuosa promozione di officine massoniche impressa dal gran maestro Ernesto Nathan all'inizio del Novecento con tre obiettivi. Doveva fronteggiare la scissione della “Famiglia” italiana sorta con la costituzione del Grande Oriente Italiano (1898) capitanato da Malachia De Cristoforis, di orientamento repubblicano e federalista, proprio quando il Paese aveva urgenza di unitarietà. Bisognava schierare il Grande Oriente d'Italia a fianco dello Stato e, quindi, della monarchia, che ne costituiva il nerbo, nella Comunità internazionale, e ribadire che la Massoneria era al “di sopra dei partiti”. Il suo colore, disse e scrisse il mazziniano Nathan, confidente del Re e di Giolitti e poi sindaco di Roma, non è né il rosso (dei rivoluzionari) né il nero (degli anarchici, oltre che dei “clericali”), ma il “bianco”: è, cioè, “universale”. Agli iniziandi si domandava che cosa si proponessero per sé stessi e per la Patria. E ai Venerabili si raccomandò di essere indulgenti con i “bussanti”. Sarebbero poi stati formati all'interno delle Officine, come avvenne tra Piemonte e Liguria quando vi sorsero la “Giuseppe Mazzini” di San Remo, la “Giuseppe Garibaldi” di Porto Maurizio, che contarono tra i propri “operai” Mario Calvino, padre dello scrittore Italo, e Pietro Scalfari, padre di Eugenio, e, appunto, la “Excelsior” di Torre Pellice.    Il Diario e i Ricordi di Adelina Pasquet invitano ad andare oltre la narrazione dell'Italia tra Otto e Novecento invalsa molti decenni addietro: vetero-nostalgica da un canto e paleogramsciana dall’altro, una visione per decenni rimasta pressoché identica nella manualistica e nella vulgata. Occorre passare dalle litanie alla storia. Esplorare faldoni di documenti inediti e porsi domande costa fatica e non remunera. Tuttavia, solo la ricerca archivistica libera la storiografia dagli steccati delle ideologie e dei “partiti” e la avvia a divenire scienza. È l'ora. Così si scoprirà che l'Italia di Vittorio Emanuele III, europea dalla nascita, aveva una visione planetaria della sua missione, come spiegò Giacomo Nowicov. Proprio perché non era nazionalista. 

Aldo A. Mola

 Didascalia: La copertina del volume di Adelina Pasquet, curato da Stella Peyronel, Alessandro e Simone Milan. Mercoledì 7 maggio il libro è stato presentato al Circolo Ufficiali di Torino per iniziativa del Gruppo Croce Bianca di Torino, fondato da Alessandro Cremonte Pastorello, ora presieduto dal generale Giorgio Blais, vicepresidente della Consulta dei senatori del regno, con segretario Carlo Maria Braghero.    La fioritura di logge nell'Italia nord-occidentale a inizio Novecento è documentata dai volumi di Luca Fucini (I guardiani della Nuova Italia e la Loggia Mazzini di Sanremo, ed. BdS, 2025) e di Filippo Bruno (La Riviera dei Framassoni, ed. Il filo di Arianna, 2025).