L'editoriale di domenica scorsa ha chiarito che l'ordine del giorno Grandi-Bottai-Federzoni approvato a larga maggioranza dal Gran consiglio del fascismo alle 2.40 del 25 luglio 1943 non mirò affatto a smantellare il regime fascista né influì sulla decisione di Vittorio Emanuele III di revocare Benito Mussolini da capo del governo e di sostituirlo con il maresciallo Pietro Badoglio. Da tempo il Re aveva deciso di propria volontà, nella consapevolezza che per avviare trattative armistiziali con gli anglo-americani era necessario mettere fine al regime. Allo scopo si valse di una “trafila” di militari.
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La trafila militare Su impulso di Vittorio Emanuele III e di concerto con il ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone, il capo di stato maggior generale Vittorio Ambrosio col concorso di militari di piena fiducia, come il generale Giuseppe Castellano e il comandante generale dei carabinieri Angelo Cerica, allestì il piano per “far sparire” Mussolini: non per ucciderlo, come taluno interpreta, ma per “fermarlo” e isolarlo, in modo che non potesse capitanare o essere riferimento di opposizione alle decisioni del Re. Il progetto risultò analogo a quello prospettato da Ivanoe Bonomi (1873-1951) a Vittorio Emanuele III il 2 giugno. Revocato Mussolini e formato un governo militare, con a capo Ambrosio, Badoglio o il maresciallo Enrico Caviglia, glorioso e prestigioso ma “troppo vecchio” a giudizio del Re, secondo Bonomi occorreva “tenere in arresto” Mussolini, “per evitare che possa, con la milizia armata, gettare il Paese nella guerra civile”. Il nuovo governo doveva “invalidare l'alleanza con la Germania” perché non era “fra due Stati e due popoli, ma fra due regimi, fra due rivoluzioni”, la fascista (da chiudere con la revoca di Mussolini) e la nazionalsocialista, invisa alla maggioranza degli italiani. “La nazione ha sempre diritto di fare ciò che vuole” osservò il Re. Però non commentò l'ulteriore sollecitazione di Bonomi: se aggredita dai tedeschi col pretesto di “tradimento”, l'Italia doveva “chiedere l'aiuto anglo-americano ed entrare nell'alleanza delle Nazioni unite”. Parve stanco, sfiduciato e lamentò salute malferma. “Deluso”, Bonomi concluse che o dissimulava abilmente o non aveva un proposito chiaro. Identica impressione ne trasse il liberale Marcello Soleri che, ricevuto l'8 giugno, esortò il Re a un “intervento risolutivo” anche per scrollarsi di dosso l'addebito di connivenza con il fascismo, serpeggiante specialmente nei giovani. Il 16 luglio Soleri apprese da Acquarone che il sovrano aveva deliberato di formare un governo tecnico-militare guidato da Badoglio. Prevalsero due sole certezze: Vittorio Emanuele III rimaneva impenetrabile e quando avesse deciso avrebbe incaricato Badoglio di formare un governo tecnico-militare. Sulla preferenza di Badoglio rispetto ad Ambrosio e a Caviglia sono state ricamate molte narrazioni. Secondo una tra più suggestive il Re scartò Caviglia perché si sarebbe detto che “tornava la Massoneria”. L'affermazione è poco convincente perché Caviglia era cattolico praticante e quindi, per l'epoca, incompatibile con la “Setta Verde”. Benché avesse motivo di non fidarsene ciecamente, il Re optò per Badoglio poiché sapeva dei suoi contatti con gli inglesi, ai quali, documenta Elena Aga Rossi, aveva rivelato di non ritenersi più vincolato a Casa Savoia e pronto a sostituire Mussolini. Il voto del Gran consiglio colse di sorpresa gli antifascisti “moderati”. Quale linea dovevano tenere dopo il “colpo di Stato”? De Gasperi persuase tutti. Si trattava di “liquidare due diverse partite: l'abbattimento di Mussolini e del fascismo e la conclusione di un accordo con gli anglo-americani. La prima partita (era) attiva per gli uomini politici chiamati a liquidarla”. Essi avrebbero acquistato un titolo di benemerenza del Paese. La seconda invece era “passiva”. L'“accordo armistiziale” si prospettava difficile, gravido di “responsabilità penose per i suoi negoziatori”. Sarebbe stato un errore accollarsene la corresponsabilità. Meglio, quindi, rimanere “in attenta osservazione”. Va ricordato che i maggiorenti delle correnti (non ancora “partiti”) rappresentate da Bonomi e dai suoi sodali nel novembre 1922 avevano votato a favore del governo Mussolini. Capogruppo del partito popolare alla Camera dei deputati, De Gasperi aveva dichiarato il sostegno al duce. Casati (1881-1955) era stato ministro della Pubblica istruzione con Mussolini dopo il “delitto Matteotti”. Il 28 luglio in casa di Giuseppe Spataro le sei correnti (liberale, democratica, cattolica, di azione, socialista e comunista) incaricarono Bonomi di illustrare le “questioni” a loro avviso “urgenti” a Badoglio, capo del “governo militare del Paese, con pieni poteri” e il 29 si costituirono in comitato nazionale. Dalla “osservazione” passarono dunque al “colloquio” col Maresciallo, che però mostrava “molta inesperienza politica, ma molta buona volontà”.
Badoglio al potere Come documentano i Verbali del Consiglio dei ministri pubblicati e ottimamente curati da Aldo G. Ricci (“Governo Badoglio, 25 luglio 1943-22 aprile 1944”, ed. Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1994) nella sua prima riunione, il 27 luglio 1943, il governo approvò schemi di decreti legge che voltarono pagina nella storia d'Italia: soppressione del Partito nazionale fascista, del Gran consiglio del fascismo e del Tribunale speciale per la difesa dello Stato; scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni; sostituzione di Giacomo Suardo con il grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel alla presidenza del Senato; nomina del generale Quirino Armelini al comando della Milizia volontaria di sicurezza nazionale, che assunse per distintivo le stellette dell'esercito al posto dei fasci; abrogazione delle norme contenenti limitazioni in dipendenza dello stato di celibi e un ampio movimento di prefetti. Mentre vennero collocati a riposo i più noti fiancheggiatori di Mussolini, altrettanti furono richiamati in servizio. Carmine Senise fu nominato capo della Polizia, militarizzata e sottoposta alla legge penale militare. Qualunque opinione si voglia avere su Badoglio, va constatato che una mole così ampia di misure di vasta portata ebbe lunga gestazione. Il divieto di fabbricazione, esposizione, commercio e diffusione di emblemi e distintivi di associazioni e partiti politici di qualunque specie e denominazione fu pprovato ma (come ricorda Ricci) non ebbe seguito. Altro premeva. Lo “stato di guerra” fu esteso a tutto il territorio nazionale e il capo di stato maggiore dell'esercito, Mario Roatta, diramò la circolare che vietò ogni manifestazione e ne ordinò lo scioglimento “manu militari”. Anche dimostrazioni di giubilo per la “caduta di Mussolini” vennero represse con morti e feriti. Badoglio ebbe due obiettivi: disperdere drasticamente prevedibili proteste a favore di Mussolini e del fascismo e mostrare all'estero che aveva il controllo dell'ordine pubblico e contava sul consenso del Paese. Quest'ultimo era particolarmente rilevante sia nei rapporti con la Germania, di cui l'Italia continuò a dirsi alleata dichiarando “la guerra continua” (formula suggerita da Vittorio Emanuele Orlando), sia per gli anglo-americani. Il 5 il governo tenne la seconda seduta, ricca di importanti misure: soppressione del fascio littorio (relatore Badoglio), funzionamento della giustizia (Gaetano Azzariti), del corpo diplomatico (Raffaele Guariglia), organico dei carabinieri (Renato Sorice), reintegrazione di docenti (Leonardo Severi, ministro suggerito da Bonomi, come anche Leopoldo Piccardi) e la devoluzione dei patrimoni di non giustificata provenienza, mentre i giornali (i cui direttori erano di nomina post-fascista) denunciavano i “profitti di regime”.
Verso la resa Tutte le fonti documentarie, la memorialistica e persino la narrativa (valga d'esempio “Primavera di bellezza” di Beppe Fenoglio) descrivono l'Italia dell'agosto 1943 come Paese “in sospeso”. Sottoposti a massicci bombardamenti anglo-americani sulle città più importanti (Napoli, Milano, Torino, Foggia e, per la seconda volta, anche Roma) gli italiani anelavano alla pace. Il governo si trovò tra la dura incudine delle divisioni germaniche irrompenti col pretesto di soccorrere l'alleato e il pesante martello degli anglo-americani che premevano per costringere l'Italia alla resa senza condizioni come stabilito a gennaio nella conferenza di Casablanca. Il Re autorizzò l'avvio di trattative armistiziali. Con le necessarie cautele per non insospettire il diffidente alleato, iniziò la missione del generale Giuseppe Castellano che, via Madrid, raggiunse Lisbona, vi ebbe contatto con il Comando anglo-americano e ricevette le condizioni preliminari imposte dai vincitori (il cosiddetto “armistizio breve”) che, rientrato a Roma dopo viaggio altrettanto lungo, consegnò a Badoglio per il Re. Mentre continuavano i bombardamenti “pedagogici”, nel corso della conferenza di Quebec il 18 agosto 1943 il presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano Roosevelt e il premier britannico Winston Churchill dichiararono che “la misura nella quale le condizioni (di resa) saranno modificate in favore dell'Italia dipenderà dall'entità dell'apporto dato dal Governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”. Gli italiani avrebbero ricevuto tutto l'aiuto possibile delle Nazioni Unite ovunque avessero combattuto contro i tedeschi. Al momento dell'armistizio il governo di Roma doveva ordinare alla flotta e agli aerei di consegnarsi agli alleati. Dai porti del nord le navi dovevano recarsi “nei porti a sud della linea Venezia-Livorno”. Era quindi lecito ritenere che gli anglo-americani si sarebbero attestati a nord di Roma e di Firenze. L'11 agosto al Comitato delle correnti antifasciste Bonomi concluse che “se si dovrà chiamare il popolo per cacciare i tedeschi dall'Italia, si dovrà farlo quando gli anglo-americani avranno messo piede in Italia, non prima. Prima si sciuperebbe lo slancio popolare e si verserebbe inutile sangue” . Al tempo stesso decise il “distacco dal governo Badoglio”, che la pensava come loro.
La “trafila massonica”: realtà o fantasia? Il 12 Bonomi lasciò Roma per Santa Marinella. Vi tornò il 19. Ricevutolo a colloquio il 20, più per sapere che per dire, Guariglia non lasciò trapelare alcunché sulla missione Castellano. Il 21 Bonomi incontrò con Ruini (1877-1970) Carlo Galli (1878-1966), nuovo ministro della Stampa e Propaganda. “Decidiamo di darci del tu, in ricordo dell'antica compagnanza” annotò nel “Diario”. Di quale natura era? Per comprenderlo occorre tornare ai loro anni giovanili. Laureato in legge, avviato a prestigiosa carriera diplomatica, il 24 maggio 1905 Galli fu ricevuto apprendista massone nella loggia “Rienzi” di Roma, una tra le più importanti non solo della capitale d'Italia. In quella stessa officina cinque anni prima con il grado di maestro era stato affiliato Ruini, futuro presidente della Commissione dei Settantacinque che stilò la “bozza” di costituzione della Repubblica italiana. In quell'incontro i due confratelli formarono con Bonomi un triangolo massonico? L'interrogativo si impone anche alla luce dell'opera di Paolo Cacace “Come muore un regime” (ed. il Mulino), ricco di riferimenti a massoni nel collasso del regime mussoliniano. Secondo lui, “a quanto pare” anche Bonomi era iniziato. È vero che il massone non è tenuto a dichiararsi pubblicamente tale ed è invece tenuto a non propalare i nomi dei confratelli, però Bonomi non ha mai fatto cenno alla propria iniziazione. Nel vasto repertorio “La massoneria nel Parlamento “ (ed. Morlacchi) Luca Irwin Fragale lo inserisce tra i deputati massoni, ma con molte riserve perché la sua appartenenza è asserita senza prove consistenti. Non solo. In risposta alla famigerata “inchiesta sulla Massoneria” condotta dall'“Idea nazionale” nel 1912 Bonomi dichiarò che “se la Massoneria insiste a mantenersi segreta e a circondarsi di riti e di formule che oggi fanno sorridere, essa obbedisce, forse inconsciamente, a quello spirito di mistero e di ossequio superstizioso che venne diffuso e mantenuto per tanti secoli dalla Chiesa”. Quanto all'“ideario” massonico rispose: “Non so, non avendovi mai appartenuto, se la Massoneria abbia una sua filosofia più incline al materialismo che allo spiritualismo, all'internazionalismo che al nazionalismo” e aggiunse: “ogni azione palese od occulta di partiti, di sette, di associazioni pubbliche o segrete nelle amministrazioni dello Stato è sempre profondamente dannosa”. Di varie personalità politiche e militari citate da Cacace come massoni si hanno prove sicure. Ne sono invece del tutto priva quelle di Badoglio, che Cacace classifica “massone coperto”, mentre Diaz risulterebbe “in odore di massoneria”, che non dice nulla di attendibile. Dalla nascita (1860/1864) allo scioglimento (1925) il Grande Oriente d'Italia (GOI) non ebbe mai massoni “coperti”. Quelli iniziati “sulla spada” dal gran maestro o suo delegato (come nel caso di Antonio Meucci) e gli stessi affiliati alla “Propaganda massonica” furono iscritti nei piedilista delle logge e poi nella Matricola generale dell'Ordine, lacunosa per difetto come molte cose umane. Massoni furono i generali Luigi Capello, Giacomo Carboni, Gustavo Pesenti e Ugo Cavallero, iniziato al GOI e poi regolarizzato nella Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI), lo stesso anno dell'iniziazione di Vittorio Valletta (1917). Lo furono l'avvocato Carlo Aphel (il cui “complotto” è stato spesso sopravvalutato) ed Elia Rossi Passavanti (la cui iniziazione non è citata da Cacace). Invece non lo furono affatto Marcello Soleri, i generali Giuseppe Castellano, Angelo Cerica e il grande Giuseppe Volpi di Misurata, contrariamente a quanto scrive Cacace, che non adduce prove. Malgrado le leggende, altrettanto va detto di tre dei quadrumviri. Balbo era notoriamente massone della GLI, ma in sonno da molto prima della “marcia”. Emilio De Bono non compare in alcun repertorio massonico. Michelino Bianchi, al pari del cattolico Cesare Maria De Vecchi, fu antimassone. Iniziato alla GLI fu invece il generale Fernando Soleti, forzatamente condotto a Campo Imperatore per garantire l'incolumità di Mussolini all'arrivo dei tedeschi capitanati da Otto Skorzeny. Ciò che più conta, al di là del massonismo di questo o quel gerarca o notabile, è l'assenza di un sia pur labile indizio di una rete che unisse i massoni in un disegno univoco. La genesi massonica del “combinato disposto” Gran consiglio/iniziativa del Re è una leggenda di frange della Repubblica sociale italiana, insufflate da uno spretato massofago professionale che non si nomina, incline a vedere ovunque la regìa occulta dei Figli della Vedova: capofila dei complottisti oggigiorno in servizio permanente effettivo. Per cercare di ridimensionare Mussolini e salvare se stessi i gerarchi partecipi al Gran consiglio del 24-25 luglio non avevano bisogno di essere assistiti dal Baphomet. Bastavano le notizie sull'avanzata degli anglo-americani in Sicilia e la tardiva cognizione dell’enormità degli errori commessi da Mussolini sin dalla guerra d'Etiopia e soprattutto dal 1938 in poi e infine con le dichiarazioni di guerra all'URSS e, non bastasse, agli USA: una potenza che non attendeva altro per entrare nel Mediterraneo a spese non solo delle ambizioni tardonazionalistiche del fascismo ma anche di Francia e Gran Bretagna, il declino dei cui imperi coloniali datò dalla fine della nuova guerra dei trent'anni (1914-1945).
La solitudine del Re In conclusione, protagonista della svolta del luglio 1943 fu Vittorio Emanuele III che si valse di militari ligi al giuramento di fedeltà al Re. Nelle loro bandiere non comparvero mai i fasci littori che avevano invece inondato le amministrazioni pubbliche, statali e locali, dando all'estero l'immagine di una compattezza che rimase solo di facciata, come si vide nel 1943, proprio quando il partito aveva raggiunto il massimo storico degli iscritti. Perciò gli anglo-americani ostacolarono la riorganizzazione delle forze armate regie e isolarono il Re, con la connivenza non solo dei cattolici, che vi vedevano il nipote dello scomunicato Vittorio Emanuele II, debellatore dello Stato pontificio, ma anche di tanti “liberali” che sorsero a pretendere l'immediata abdicazione sua, la rinuncia di Umberto alla successione e il passaggio della corona a Vittorio Emanuele, principe di Napoli, di soli sette anni e quindi sotto tutela di un reggente antistatutario in assenza della Camera dei deputati e nell'impossibilità di adunare il Senato. Nel dicembre 1943 Nicolò Carandini dichiarò a Bonomi che i liberali volevano “una monarchia pulita e non un cencio sporco come è l'attuale sovrano”. Il colpo di Stato strisciante, dopo il discusso referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946, vide infine l'Italia inchiodata dalle durissime clausole del Trattato di pace impostole a Parigi il 10 febbraio 1947: il “passivo” ricadde su chi aveva pensato di scaricarlo su Vittorio Emanuele III, cittadino all'estero nella pienezza dei diritti civili e politici, e su Umberto II, migrato in Portogallo.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Sotto la data del 24 luglio Bonomi (nell'illustrazione affiancato da Vittorio Emanule Orlando e da Francesco Saverio Nitti) annotò: “Oggi alle 17 viene da me un noto antifascista, il dottor Domenico Maiocco piemontese, che è molto in intimità con il quadrumviro De Vecchi. Egli mi conferma che il Gran consiglio del fascismo si convoca proprio nell'ora in cui egli mi parla e che le deliberazioni dell'assemblea saranno di eccezionale importanza”. Tramite Maiocco, De Vecchi desiderava fargli sapere che sarebbe stato amichevolmente invitato a far parte del nuovo governo dopo la prevista revoca di Mussolini. Rispose che gli pareva “un romanzo”, “sogno di menti oscurate”. Iniziato massone nel 1923 nella loggia “Vita Nova” di Alessandria, socialista e perseguitato dal regime, Maiocco fondò la Massoneria Italiana Unificata, già auspicata da Placido Martini, antifascista, ucciso alle Fosse Ardeatine, e ne fu gran maestro, riconosciuto dal Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato degli USA (giurisdizione sud). Ne ha scritto il generale Antonino Zarcone in “Lo sconosciuto messaggero del colpo di Stato” (ed. Annales, 2015).