1925
COME NACQUE IL REGIME FASCISTA?

   Contrariamente a quanto si crede, il 28 ottobre 1922 non ci fu alcuna “marcia su Roma”. Le “squadre” entrarono nella Capitale dopo l'insediamento del governo Mussolini, vennero rifocillate (parecchi “militi” non mangiavano da un paio di giorni), sfilarono da Piazza del Popolo alla Stazione Termini e vennero portate a casa con 45 treni speciali organizzati in tutta fretta. Il “duce” aveva promesso ordine. Fu di parola.      Per instaurare il “regime fascista” Mussolini impiegò più di tre anni: una legge dopo l'altra, tutte approvate dal Parlamento, firmate e promulgate dal Re, perché così prevedeva lo Statuto albertino. Quella fu la sua vera “marcia”: sul potere. Il Centenario del 1925, che fu anche Anno Santo, merita riflessione.

  La partita per il potere venne giocata in Parlamento

    Tra il novembre 1922 e il gennaio 1926 in Italia prese forma il regime di partito unico. Lo Statuto, però, rimase immutato. Pertanto molti cittadini ritennero che la trasformazione in corso riguardasse solo i partiti, cioè l'esteriorità della “politica”, anziché la sua essenza: l'ordinamento giuridico e le libertà. Impiegarono anni a capire quel che avveniva. Quando se ne accorsero, era troppo tardi.    L'eversione non avvenne in pochi giorni o qualche mese. Richiese tempi lunghi. Si sostanziò in una serie di battaglie. Quelle decisive non avvennero nelle piazze ma nelle Aule parlamentari. Per vincere la guerra il presidente del Consiglio, Benito Mussolini, molte volte fece passi all'indietro o di lato, vezzeggiò l'opposizione e tese la mano per nascondere il suo obiettivo ultimo: la conquista della macchina politica e l'imposizione del potere personale. Con quella tattica ottenne per anni il favore delle sue future vittime, mentre le opposizioni si frantumarono in molti gruppi litigiosi e inconcludenti.    Il processo conobbe diverse fasi. 

1922.

  Nel novembre 1922 la Camera, eletta il 15 maggio 1921, e il Senato, vitalizio, approvarono a pieni voti il governo presieduto da Mussolini, comprendente fascisti (37 deputati su 535), nazionalisti, “liberali” di varia denominazione, popolari (cioè il partito fondato da don Luigi Sturzo, “prete intrigante” a giudizio del liberale Giovanni Giolitti, che, ben ricambiato, lo detestava) e Giovanni Gentile. Nel suo esordio da presidente del Consiglio Mussolini fu minaccioso e protervo alla Camera. Ottenne lo scopo: il silenzio dei “fiancheggiatori” e della generalità delle sparute opposizioni. In Senato fu un po' più rispettoso, anche perché solo due “patres” su oltre 400 erano tesserati del partito nazionale fascista (Pnf). Il risultato fu identico: anche alla Camera Alta ottenne il “via libera”. 

1923,

   Rappresentata nell’apposita commissione presieduta da Giolitti, la stessa maggioranza approvò la riforma elettorale proposta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giacomo Acerbo, affiliato della Gran Loggia d'Italia, un cui portavoce, Ernesto Civelli, la mattina del 28 ottobre 1922 aveva assicurato a Vittorio Emanuele III che gli squadristi mussoliniani non mettevano in discussione la Corona. Esageratamente maggioritaria, la riforma assegnò due terzi dei seggi al partito che avesse raggiunto il 25% dei voti. Con ogni evidenza Mussolini non confidava affatto di avere un seguito elettorale straripante. Alle elezioni del 16 novembre 1919 in Lombardia il suo movimento aveva raccattato appena 5.000 voti. In quelle del maggio 1921 aveva ottenuto una trentina di seggi solo in coalizione con molte altre liste (liberali, combattenti, agrari...). Però il movimento fascista fu l'unico a presentarsi in tutte le circoscrizioni elettorali con il suo simbolo, il fascio littorio. 

1924

  Alle elezioni del 6 aprile 1924 la Lista Nazionale ottenne il 66% dei consensi. In essa vennero eletti deputati fascisti, non fascisti e persino antifascisti come il ligure Giovanni Battista Boeri, fondatore del partito liberale nel 1922, repubblicano, massone (come documenta Filippo Bruno in “La Riviera dei Framassoni”, ed. Il Filo di Arianna,1925), subito schierato all'opposizione. Benché la campagna elettorale fosse stata contrassegnata da scontri violenti, la legislatura fu inaugurata in un clima relativamente sereno.    Il 10 giugno una squadraccia fascista rapì Giacomo Matteotti, capogruppo del Partito socialista unitario, che nella prima seduta aveva denunciato le violenze dei fascisti a danno dei socialisti e chiesto con veemenza l'annullamento dell'esito delle elezioni. I suoi componenti vennero subito individuati e arrestati. Risultò evidente che avevano agito in combutta con spezzoni del governo e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, braccio armato del Pnf, come ha analiticamente documentato Enrico Tiozzo in due poderosi volumi.    Socialisti, repubblicani, popolari e democratici, guidati da Giovanni Amendola, disertarono l'Aula e si arroccarono su un mitico “Aventino”, in attesa di risposte dal governo, accusato di complicità nella morte di Matteotti. Giolittiani e comunisti rimasero in Aula. Per dare l'apparenza di ritorno alla normalità, su pressione del Re Mussolini cedette l'Interno al nazionalista Luigi Federzoni. 

1925 Tutto il potere al Duce.

  Il 3 gennaio 1925 Mussolini respinse alla Camera la propria responsabilità nella morte di Matteotti, rivendicò il valore politico della “Rivoluzione fascista” e sfidò chiunque a chiedere la sua imputazione, a norma dello Statuto.    Il 12 depositò il disegno di legge sulla riorganizzazione delle associazioni e sull'iscrizione dei pubblici dipendenti ad associazioni, con l'obiettivo dichiarato di annientare la Massoneria. Il progetto fu discusso e approvato alla Camera (19 maggio) alla quasi unanimità e al Senato (20 novembre) con due soli interventi contrari (Francesco Ruffini e Benedetto Croce, che dichiarò di astenersi a nome di una ventina di colleghi) e appena dieci “no”. Mussolini dichiarò di aver vinto le guerre contro il socialismo e la massoneria e di mirare all'obiettivo vero: la sostituzione dello Stato liberale con quello fascista, basato su una “fede”.    “Capo del governo” (nuova denominazione del presidente del Consiglio) e già Ministro degli Esteri, nel 1925 il “duce” assunse la titolarità dei ministeri militari, Guerra, Marina e Aeronautica, che erano “di spesa”, in stretta connessione con Economia nazionale e Finanza.    Per abbindolare l'area liberale, nel corso del 1925 Mussolini propose, mentendo, il ritorno ai collegi uninominali. “Centristi” e socialisti ci contarono a lungo. Nella lotta politica chi si lascia ingannare è più colpevole di chi lo inganna. Poi fece conferire alle donne il diritto di voto nell'elezione dei consigli comunali e provinciali. Subito dopo, però, ottenne l'abolizione dell'elettività degli organi degli enti locali, sostituiti con podestà e prèsidi (poi governatori), il controllo governativo dei giornali, lo scioglimento dei partiti d'opposizione e, infine, 

all'inizio del 1926,

 la decadenza dei deputati assenteisti. Tra questi furono inclusi anche i comunisti che non avevano disertato la Camera ma da lui erano considerati nemici irriducibili. Fu risparmiata solo la esigua pattuglia liberale, dignitosa ma ormai innocua (Giolitti, Marcello Soleri, Egidio Fazio). Era un alibi. A quel modo il regime dette una labile parvenza di pluralismo, ma mise allo studio un’ulteriore legge elettorale, decretata il 17 maggio 1928. Essa conferì al Gran consiglio del fascismo il potere di stilare la lista dei 400 deputati della futura Camera. Il quadro normativo del Paese risultò paradossale perché il Gran consiglio non aveva ancora veste istituzionale. La ebbe solo con la sua “costituzionalizzazione”. Secondo molti “storici”, con la nuova legge esso ebbe poteri nella successione al trono. Il suo testo, però, dice tutt'altro: il Gran consiglio aveva la facoltà di esprimere un parere (la legge non precisò se vincolante) in merito alle leggi sulla successione: leggi che però non vennero mai presentate né discusse.    La Corona, pertanto, rimase quella delineata dallo Statuto albertino. La “diarchia” Vittorio Emanuele III/Mussolini è una narrazione non rispondente al vero. Il potere supremo rimase nelle mani del re. Lo si vide nel pomeriggio del 25 luglio 1943, quando in venti minuti il sovrano revocò il duce e lo sostituì con Pietro Badoglio. Non fu un colpo di Stato, ma un “coup de Majesté”. Il re si valse delle sue prerogative, intatte.    Con l'avvento del regime di partito unico, i sindacati autonomi furono convogliati in quelli “fascisti”. Le associazioni sportive e culturali vennero ammucchiate nell'Opera Nazionale del Dopolavoro. L'etichetta di “fascista” fu appiccicata a tutte le “organizzazioni”. Proprio perché generalizzata, essa risultò anche generica. Gli enti pubblici, statali e locali, vennero nominalmente fascistizzati. Il controllo dell'informazione passò anche attraverso l'istituzione dell'Ordine dei giornalisti, ideato per imbrigliare le redazioni e indurre i collaboratori esterni a regolarsi di conseguenza: evitare accuratamente critiche nei confronti del governo. I liberi professionisti (medici, avvocati...) rimasero invece esenti dall'obbligo della tessera del partito, requisito indispensabile per accedere ai concorsi a pubblici impiegati. Sotto quel profilo, il regime fu totalitario, come quello sovietico e, successivamente, quello nazionalsocialista in Germania: ma solo nella sfera della “politica”.    Dal 1926 il Pnf iniziò a inviare tessere “ad honorem” a esponenti della vita economica: industriali, banchieri, grandi proprietari, aristocratici. I destinatari non le respinsero, anche se non si sentirono vincolati ai riti del partito.    In forza dello Statuto, in assenza di pronunciamenti antimussoliniani numericamente rilevanti da parte delle Camere, ormai pienamente dominate dal “duce del fascismo”, Vittorio Emanuele III sanzionò e promulgò le leggi votate dal Parlamento. Sovrano costituzionale, non aveva alternative.    Il nuovo regime incontrò il favore degli Stati a democrazia parlamentare, in specie Gran Bretagna, regni di Spagna e dell'Europa settentrionale, Stati Uniti d'America e repubbliche dell'America latina. Per i Paesi creditori la regolamentazione dei debiti di guerra da parte di Roma importò molto più della sorte toccata ai partiti politici: una faccenda interna che sembrava rispondente al sentire degli abitanti. 

Un convegno di studi a Torre San Giorgio (Cn)

    I quaranta mesi dal regime pluripartitico a quello di partito unico, garante di stabilità e apprezzato dagli Stati esteri, sono approfonditi nel convegno “Come nacque il regime fascista? Vittorio Emanuele III/Benito Mussolini, 1922-1926”, in programma a Torre San Giorgio (Cuneo), Pinacoteca “Sismonda” (Casa Bonino), dalle 16 alle 19 di sabato 27 settembre 2025.    Perché Torre San Giorgio? Come documenta il bel volume fotografico “Ricordi in uno scatto. Torre San Giorgio dal 1900 al 2000” (ed. L'Artistica, Savigliano, curato da Elena Franco), Torre è un piccolo borgo. Però ha alcune peculiarità. È l'unico comune d'Italia ad avere una piazza intitolata, sin dal 21 settembre 1993, a “Umberto II, Re d'Italia”. Nel novembre 2024 essa venne visitata da Emanuele Filiberto di Savoia, accompagnato da dirigenti dell'Istituto italiano per la Guardia d'Onore alla Reali Tombe del Pantheon: un'Associazione riconosciuta dallo Stato.    Da un quarto di secolo il Comune è dotato di una biblioteca civica promossa dal sindaco Attilio Mola e inaugurata dall'avvocato Gianni Vercellotti, presidente dell'ATL di Cuneo. Essa ospita l'Associazione di studi sul Saluzzese e l'Associazione di studi storici “Giovanni Giolitti”, presieduta dal prof. Giovanni Rabbia: sodalizi che pubblicano collane di libri nati da convegni di studi svoltisi a Cavour, Saluzzo, Vicoforte (ove nel dicembre 2017 sono state traslate le Salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena) e in altre città del Piemonte. Inoltre a Torre opera l’Associazione Culturale “Libertas”, presieduta da Branca Lore Muller, affiancata da Elena Franco e Luisa Riboldi. Nel tempo, oltre a numerosi corsi, l'Associazione ha organizzato conferenze e concerti che hanno veduto affluire a Torre un pubblico attento e partecipe.    Il 27 settembre, per documentare “Come nacque il regime fascista”, si susseguiranno in presenza o in videoconferenza storici di chiara fama. L'iniziativa invita a colmare una lacuna. Il 1925 fu l'anno della svolta sopratutto per la Provincia Granda. Tre anni dopo l'ascesa di Mussolini al governo essa rimaneva monarchica e liberale. Vi si erano affacciati alcuni nazionalisti, ma i fascisti erano pressoché inesistenti.    Dal 1905 Giolitti era presidente del Consiglio provinciale, popolato di aristocratici, notabili, scienziati, artisti famosi. Sindaco di Cuneo era il liberale Antonio Bassignano. La Provincia Granda costituiva dunque un’anomalia. D'altronde, dopo la cessione della Savoia alla Francia nel lontano 1860, il Cuneese era divenuto la seconda culla della Dinastia. Soprattutto con Vittorio Emanuele III il castello di Racconigi e le tenute di Sant'Anna di Valdieri e di Pollenzo ospitavano abitualmente i Reali, gli aiutanti di campo e alti ufficiali dello Stato. Presidenti del Consiglio e ministri vi si recavano per proporre al re i decreti che ne richiedevano la firma e per concordare il calendario del governo.    Agli occhi di Mussolini quella anomalia andava sanata. Per venirne a capo mandò un suo emissario che, in combutta con la prefettura, nel cui Palazzo aveva sede il consiglio provinciale, fece sapere che il governo avrebbe erogato la somma indispensabile per riprendere opere pubbliche da tempo languenti solo se la Provincia si fosse allineata politicamente a Roma. A chiederlo formalmente, infine, non furono né il Pnf né un ministro fascista ma un folto numero di consiglieri provinciali: un paio di nazionalisti e tanti cattolici e liberali. Essi firmarono la richiesta che il loro presidente fosse gradito al duce. Il liberale Antonio Bassignano, che fu tra i sottoscrittori, in un libro di memorie liquidò la triste vicenda come “lurida congiura”. Il giorno dopo, perduto il sostegno dei moderati ormai filofascisti fu costretto a dimettersi da sindaco di Cuneo. Quando, mentre era a Roma, ne ebbe conoscenza dai giornali, il 21 dicembre 1925 Giolitti rassegnò le dimissioni da presidente del consesso e, per questione elementare di dignità, da rappresentante del mandamento di Prazzo e San Damiano, in Valle Maira.    Quel “cambio” merita approfondimento critico in una visione che unisca locale, nazionale e quadro internazionale: quello di un'Europa avviata verso l'avvento di regimi autoritari e totalitari, dalla Spagna di Miguel Primo de Rivera alla Germania, passando per l'Italia mussoliniana, con il  benestare di Parigi, Londra e Washington, nettamente contrari all'espansione  bolscevismo sovietico.    Il Convegno di Torre non sostituisce iniziative altrui, anzi le auspica, in specie da parte dell’Amministrazione Provinciale, presieduta dal liberale Luca Robaldo. Il suo Salone d'Onore è dominato dal busto bronzeo di Giolitti, scoperto il 12 novembre 1978 dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Un “ritorno a casa” che fa da mònito. 

Aldo A. Mola

 Didascalia: Lo scoprimento del busto di Giolitti nel Salone d'Onore del Consiglio provinciale di Cuneo, presenti Sandro Pertini, Giovanni Spadolini, Adolfo Sarti, Antonio Giolitti, autorità e cittadini .Al convegno di Torre San Giorgio (h. 16-19 di sabato 27 settembre, Pinacoteca “Sismonda”), introdotto da Branca Lore Muller e Giovanni Rabbia, intervengono in presenza o videocollegamento Tito Lucrezio Rizzo, il colonnello Carlo Cadorna, Raffaella Canovi, Daniele Comero, GianPaolo Ferraioli, Giuseppe L. Manenti, Alessandro Mella, Massimo Nardini, Luigi Pruneti, Aldo G. Ricci, Giorgio Sangiorgi e il generale Antonio Zerrillo.