SILVANO PANUNZIO

Aldo La Fata, direttore del Corriere Metapolitico, ha scritto per il nostro Circolo un bellissimo ricordo di Silvano Panunzio (Ferrara, 16 maggio 1918 – Pescara, 10 giugno 2010), filosofo, poeta, scrittore italiano e figlio di Sergio, filosofo del diritto e teorico del sindacalismo rivoluzionario.


SILVANO PANUNZIO


Il mio ricordo di Silvano Panunzio nel decennale della scomparsa

A dieci anni esatti dalla morte di Silvano Panunzio (1918-2010), permane intatta l’adesione di chi scrive al suo pensiero e ai suoi insegnamenti, nella convinzione però che occorre abbandonare clichès e definizioni di stampo apologetico – “maestro della tradizione”, “profeta dei tempi ultimi”, – e avviarsi ad una ricostruzione del suo pensiero il più possibile obiettiva e seria.

Queste poche righe sollecitate dall’amico Giovanni Flamma del “Circolo Dante Alighieri” che ringrazio per l’accoglienza, precedono la biografia che su di lui ho scritto e che molto presto vedrà la luce.

Conobbi Silvano Panunzio nell’autunno del 1987 in quel di Roma nella sua casa-biblioteca al quartiere Flaminio. Fu un incontro breve ma folgorante e di cui conservo ancora riconoscente memoria, sia per il calore e la simpatia con cui venni ricevuto, sia per il fatto di trovarmi finalmente a tu per tu con l’autore di quei magnifici saggi di sintesi universale e di scienza e sapienza «totale»  che sono le sue due più importanti opere, Contemplazione e Simbolo, Summa iniziatica Orientale-Occidentale (Volpe, Roma 1976; II ed. Simmetria, Roma 2014) e Metapolitica, dalla Roma Eterna alla Nuova Gerusalemme (Il Babuino, Roma 1979; II ed. Iduna, Milano 2019). Avevo allora ventitré anni, e da oltre dieci mi dedicavo con giovanile passione e interesse allo studio del paranormale e dell’esoterismo. In verità, non avevo trascurato neppure la teologia e la filosofia di cui avevo letto più di qualche “classico” e naturalmente la storia delle religioni in particolare attraverso gli studi di Eliade e Petazzoni. Avevo insomma un bagaglio di conoscenze assai vario e genericamente vasto, anche se nel complesso - oggi posso riconoscerlo con sereno distacco - piuttosto superficiale. Sapevo molto, ma in realtà non avevo capito granché, ed ero, per dirla con san Paolo   «tra coloro che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità» (2 Tim. 3,7). Di questo mi resi subito conto quando cominciai a dialogare con Panunzio che era uomo dalla cultura enciclopedica, quasi biblioteca vivente, sottoponendolo ad un vero e proprio fuoco di fila di domande. In un’ora e mezza circa, tanto durò il nostro primo incontro, imparai più cose di quante non ne avessi apprese nei miei dieci anni di studi più o meno frettolosi. Quel breve incontro fu per me una vera rivelazione: a partire da quel momento ogni cosa, da me stesso, alla mia vita, alle mie idee e ai miei ideali mi sembrava finalmente più chiara. Non saprei dire cosa pensasse di me Panunzio in quel momento, certo è che io di lui mi feci subito l’idea dell’esperto pedagogo, del maestro di vita, del grande educatore. Gli volli subito bene, come si può voler bene ad un padre e ad un maestro. Di lui mi piacquero immediatamente il fare cavalleresco, l’umorismo garbato e benevolo - il solo capace di spezzare la pesante gravità degli innumerevoli dottrinari -, la natura unisona di persona, per dirla con Eckhart, «a suo agio nei propri cardini». Le indicazioni e il programma di vita che il Panunzio-educatore  mi invitava ad adottare posso riassumerle brevemente in quattro  punti. Il primo: rafforzare i legami famigliari praticando la confuciana, ma anche cristianissima ed evangelica «pietà filiale». Il secondo: dedicarsi almeno a una attività fisica o sportiva prendendo a modello il tipo del cavaliere o del guerriero o, a piacimento, tenendo ben presente l’indicazione paolina dell’ «uomo di Dio» al tempo stesso «atleta» e «milite». Il terzo: tornare a studiare all’Università - all’epoca avevo abbandonato, sulla scia di un Evola di cui ero appassionato lettore e ammiratore, il modello accademico in favore di quello autodidatta - per consolidare la preparazione  culturale e dare maggiore rigore agli intrapresi «studi tradizionali». Infine, il quarto: tornare alla catechesi cattolica e fare la cresima. Tutte queste indicazioni o per meglio dire esortazioni, dovevano servire da  una parte a fare di me un uomo e dall’altra a tirarmi fuori dalle nebbie e dai veleni dell’immaginario fantastico. A questo proposito ricordo che Panunzio mi suggerì di smettere almeno per un periodo la lettura di libri «esoterici» per sgombrare la mente, mi diceva, “da ubbie, fisime e fantasmi di ogni genere, esiziali, per non dir peggio, per la stessa salute mentale”. Nello stesso tempo il Professore – così lo chiamavano amabilmente gli amici – mi spingeva verso l’integrità della tradizione cristiana e cattolica e verso  la somma efficacia dei suoi sacramenti. Ed era su quest’ultimo punto che il Panunzio-educatore cedeva il posto al Panunzio pneumatophoros, al Panunzio teodidatta che sulla scorta di un’esperienza spirituale intima e personalissima, era capace di indicarmi la strada,  certo impervia e quasi tutta da percorrere, verso la pienezza del  Mistero cristiano. Questa capacità di trasmettere e di comunicare  l’amore per il Mistero cristiano, ovvero per l’essenza inesprimibile della rivelazione cristiana, non potrei definirla che «arte mistagogica», il mystagogos essendo quegli che è già idoneo a «condurre»  altri per essere «iniziati». E «catechesi mistagogica», affatto soggettiva e ultrapersonale, è pure tutta l’opera scritta di Panunzio che comprende oltre i due su citati i seguenti volumi: Cristianesimo giovanneo, Luci di Ierosofia (Cantagalli, Siena 1989); Cielo e Terra, Poesia, Simbolismo, Sapienza nel Poema Sacro (Metapolitica, Roma 1989; II ed. Simmetria, Roma 2019); La Conservazione Rivoluzionaria, dal dramma politico del Novecento alla svolta Metapolitica del Duemila (Il Cinabro, Catania 1996); Terra e Cielo, dal nostro Mondo ai Piani Superiori (Cantagalli, Siena 2002); Vicinissimi a Dio, Summa Sanctitatis (Cantagalli, Siena 2004); Metafisica del Vangelo Eterno (Metapolitica, Roma 2007; II ed. Simmetria 2019); La Coralità Celeste Superdivina (Metapolitica, Roma 2010).

Quale giovamento io abbia tratto dalla lettura delle suddette opere non mi è possibile dire in queste necessariamente brevi e disarticolate considerazioni. Ciò che invece mi sento di affermare, senza enfasi né intenzioni adulatorie, è che Panunzio in tutte queste opere dimostra di essere un vero sapiente cristiano.  E ciò non può essere che in forza di un carisma umano e divino di cui la sua vita è prova e i suoi scritti testimonianza.  Sull’opera scritta di Panunzio occorrerà a questo punto che spenda qualche parola, limitandomi qui a poche ed essenziali linee interpretative in grado di fornire a chi legge un’idea generale e al tempo stesso sintetica di ciò di cui si tratta, anche e soprattutto alla luce di quel che il medesimo Panunzio ha confermato, suggerito o detto nei nostri colloqui e soprattutto nella nostra fitta corrispondenza.

Dunque, l’elemento centrale che emerge da tutti gli scritti di Panunzio è l’interesse preminente per la totalità del Mistero cristiano, centro nevralgico di tutta la sua indagine metafisica e speculativa. E nel far questo egli ha chiamato a raccolta, e non sembri un’iperbole, l’intera umanità. Infatti, non v’è quasi autore, pensatore, filosofo, sapiente, mistico, religioso, poeta, artista, scienziato dei più noti e anche dei meno noti e comunque dei più rappresentativi della varietà e vastità del genere umano e dell’umano pensiero che egli non abbia citato o di cui non abbia parlato cercando di vedere le cose da una molteplicità di angoli prospettici. Epperò qui, fuor da ogni tentazione relativista o riduzionista, ogni sua visione o discorso è come messo al servizio di quel Signore Gesù, maestro incomparabile, di cui egli si è sempre professato «innamorato». Ammesso e non concesso che le formule possano servire a indicare un’idea o la vastità di un pensiero, allora quello di Panunzio potrebbe  definirsi come un «universalismo cristocentrico», un universalismo  cioè fondato sul mistero della divina umanità di Gesù Cristo. Posizione questa che potremmo definire analoga, non identica, a quella di due poderosi pensatori e scrittori cristiani, molto lontani nel tempo l’uno dall’altro, ma speculativamente prossimi: l’italiano San Bonaventura da  Bagnoregio e il russo Vladimir Serghievic Soloviev, entrambi rap-  presentativi di un cristianesimo più cosmico-metafisico che filosofico o teologico in senso stretto. L’orientamento dottrinario di Panunzio si è dunque fondato metafisicamente sul Mistero della persona cosmica  di Cristo, ovvero sul Verbo-Messia eterno annunciato nel Prologo del Quarto Vangelo attribuito a San Giovanni, il più «idealista» degli evangelisti. Ed è proprio sulle orme dell’Apostolo e Presbitero  Giovanni e sul di lui magistero, che Panunzio ha scandagliato il mistero dell’Identità Divina, gettando nuova luce sul dogma  dell’Incarnazione. Su questo punto è forse appena il caso di far notare che il discorso di  Panunzio, pur nell’arditezza di tesi che si sono spinte fino alla teorizzazione dionisiana di un YperChristos sovrareligioso e sovraconfessionale, resta sempre e comunque rigorosamente cattolico e mai si discosta dal Magistero  tradizionale della Chiesa. Fermo restando che per lui la «vera ortodossia» non si irrigidisce negli interdetti, né si limita  al rispetto e all’osservanza della retta dòxa cristiana, ma si estende alla stessa  «imitazione di Cristo» o conformità al mistero della Sua divina  Persona e ancor di più alla sua «nascita eterna» (Eckhart) in  ciascuno di noi, mercé la deificazione o Identità «teandrica». Tale  misteriosa identificazione, vertice della scala paradisi, per Panunzio non è certo  l’Identità Suprema, ontica, postulata dall’India metafisica, ma l’infinito avvicinamento per gradi al supremo Spirito di Dio. Inoltre, Panunzio nei suoi scritti lascia  chiaramente intendere che tale «identificazione» non è il risultato  di un impossibile sforzo individuale (ascesi), ma la conseguenza di  un eccezionale carisma personale aperto alla dimensione escatologica  e alla misteriosa presenza del Verbo in ogni uomo.

Quella che Panunzio ci presenta è dunque una dottrina cristiana metafisicamente completa sia dal punto di vista teorico che da  quello della realizzazione spirituale, dove trovano posto la teologia negativa o «apofatica» della  Chiesa Latina, dallo Pseudo Dionigi ai mistici renani, e la teologia  mistica della Chiesa d’Oriente, da San Gregorio Nazianzeno a Soloviev. Massimalismo spirituale, metafisico e religioso quello di Panunzio dunque, ma anche e soprattutto massimalismo escatologico e profetico. E proprio su quest’ultimo aspetto  emerge la caratteristica più importante della personalità e dell’opera di  Panunzio: la sua vocazione escatologica. Alla maniera delle grandi anime russe anch’egli ha avuto una disposizione d’animo apocalittica unitamente  ad una straordinaria sensibilità escatologica e tensione verso il futuro. Tuttavia questo suo spirito apocalittico è sempre stato accompagnato dalla certezza di una realtà trasfigurata e trasfigurante che verrà a scalzare definitivamente tribolazione e sofferenza allorquando (Ap.  XXI-4) «tutte le lacrime saranno asciugate» in terra e nei cieli. Il  telos dell’uomo è per Panunzio la resurrezione e una coerente antropologia cristiana a suo giudizio non può che fondarsi sul  mistero del «corpo glorioso» o «corpo di resurrezione» di Cristo, unico vero essere vivente del Cosmo. Oltre la tragi-commedia della storia profana destinata a scomparire nella polvere (“polvere siete e polvere ritornerete”), per Panunzio è possibile scorgere il Regno di Dio che è al di sopra di tutto. E su questo punto, egli, ha limpidamente descritto  - e prima di lui i cosiddetti «profeti della crisi»: da Nietzsche a  Spengler, da Guénon a Evola - genesi e forme della decadenza  moderna, così come ha tratteggiato e lumeggiato il carattere catastrofico della nostra epoca. Riportare in occidente il sentimento  escatologico della storia e professare un cristianesimo escatologico è stata la sua missione in terra, la sua vocazione e il suo carismatico ufficio. Ma si badi bene: con ciò egli non ha mai voluto fare del «terrorismo psicologico» né tarchianamente della «mitologia incapacitante»; non ha predicato né  la «diserzione mentale», né il «disimpegno morale e civile». Semmai, tutto l’opposto. Per lui infatti non si trattava di subire passivamente gli  eventi o di farsi sottomettere a schiavitù dal Grande Inquisitore o dal Grande Fratello. Per Panunzio la “consapevolezza escatologica” implica un atteggiamento ben diverso, ben più combattivo di quanto non si  immagini e presuppone altresì una profonda trasformazione della coscienza  umana. Altrimenti la battaglia culturale e la battaglia delle idee non avrebbero alcun senso e non sortirebbero alcun effetto. Piuttosto è necessario – così mi ha sempre insegnato e ricordato Panunzio - che dietro alle belle parole e ai bei discorsi, ci siano uomini interi, disinteressati, impegnati «anima e corpo»  ad affermare quella verità a cui sentono intimamente di appartenere oltre le menzogne mondane. Alle parole  devono dunque seguire i fatti; e i fatti che contano, i soli fatti  che hanno un significato che non tramonta e che resta oltre il  tempo e la storia, sono la coerenza e l’impegno personale su tutti i fronti nei quali il destino o la Provvidenza ci abbiano messo. Anche questo impegno diuturno e coinvolgente rappresenta a ben vedere una forma di trascendimento del limite individuale e un superamento di sé, al pari della contemplazione. Pertanto, professare, come ha fatto Lui, un certo pessimismo sui fatti della storia presenti e futuri, non ha mai voluto dire «gettare la spugna» o disimpegnarsi moralmente e civilmente, ma al contrario ha solo voluto dire che non è mai il caso di farsi illusioni sulla capacità dell’uomo di costruirsi il proprio futuro da solo senza Dio o persino contro Dio: «Oggi e domani», ha scritto Panunzio, «una via generale d’uscita effettuata dalle mani dell’uomo è senz’altro impossibile». Pessimismo metodico dunque, ma accompagnato da un apocalittico, finale e trascendente, come lui lo definiva, «ottimismo redentivo». E mentre il cristianesimo storico e istituzionale tende a socializzarsi e inaridirsi sempre più e le potenze del nulla sembrano inghiottire ogni cosa, eventi epocali si annunciano. Su questo punto Panunzio è stato chiarissimo: il nostro tempo, il  tempo che stiamo vivendo sarà anche il tempo dei grandi prodigi. Eventi di natura celeste e cosmica scuoteranno le coscienze addormentate o assopite o pigramente accomodate in una serena indifferenza. Sarà solo l’inizio di una trasformazione radicale e totale che Lui  ha sempre sentita come imminente. Naturalmente, si può non credere e continuare a vivere come se niente fosse, cercando  il modo migliore «per ammazzare il tempo» e sperando pigramente in un mondo migliore. Paradossalmente si può anche credere ciecamente e avere fede, ma poi restare come paralizzati dalle grandi paure del nuovo millennio: paura dei cambiamenti climatici, della crisi economica, della povertà,  dei migranti, del terrorismo, delle guerre, delle malattie infettive. Oppure si può credere fortemente come Panunzio e, per usare una bella metafora, restare tranquilli “ai piedi del cannone”, pronti alla battaglia, accettando le avversità della sorte con la certezza di oggi dello Spirito indistruttibile e con la certezza di domani di “nuovi Cieli e di una nuova Terra”. 

Silvano Panunzio, d’educazione e di temperamento, era un vero aristocratico e un cavaliere d’altri tempi. La sua mente prodigiosa ha spaziato in ogni campo, anche nei più perigliosi e impervi, dalle “Scienze Sacre” alle dottrine esoteriche d’Oriente e d’Occidente. Nulla lo ha fermato nella sua ricerca perché sincera, perché disinteressata, perché pura. Agli esoteristi egli ha ricordato che non c’è vera distinzione tra esoterismo ed  essoterismo, che l’uno è complementare all’altro, che l’uno è persino sovrapponibile all’altro, che l’uno, l’esoterismo, deve realizzarsi e attuarsi nell’altro, nell’essoterismo religioso; ai tradizionalisti e ai vari  «Messieurs de la Tradition», che non si dà Tradizione senza religione  né religione senza Dio; ai cristiani e ai cattolici senza aggettivi, che  non c’è pienezza di fede senza attesa escatologica e che ciò che  vi è di più importante nel cristianesimo non si spiega storicamente  o soggettivamente, ma secondo criteri che trascendono la storia e  la stessa persona umana; ai cattolici di destra, integristi o tradizionalisti, che il conservatorismo religioso «secondo la lettera» non  è migliore del progressismo modernista che «riscrive la lettera»  adeguandola surrettiziamente alla mentalità corrente, e che l’uno  e l’altro, ridotti a partito, infrangono e tradiscono l’unica e indivisa  verità evangelica; alla «destra» politica e culturale, che la «conservazione» dei principi trascendenti e la difesa dei più alti valori  etico-civili che la storia umana sia riuscita a rappresentare, è azione metapolitica, e in quanto tale più efficace di qualsiasi «lotta  politica»; alla «sinistra», che le radici storiche dell’ideale comunista  sono profondamente cristiane e che non si dà comunismo senza «comunione» e non si dà giustizia sociale senza Giustizia divina. Ai suoi amici e a chi scrive Panunzio ha insegnato che la storia ha senso proprio perché ha un termine, che una storia che non avesse  termine sarebbe priva di senso. Che «la fine del mondo» è solo «la fine di un mondo», di questo mondo e di questa umanità alle sue ultimissime battute; che la grande trasformazione ci sarà al di qua e al di là del tempo, in una dimensione rinnovata e trasfigurata; che la luce taborica ha anticipato la luce parusiaca e ha prefigurato l’avvento del Sanctum Regnum, l’ingresso nel tempo escatologico; che l’interrogativo ultimo su Dio e sull’uomo avrà  presto una risposta. 

Per tutto questo e per altro ancora che qui non dirò, non posso che essere profondamente grato e riconoscente a Silvano Panunzio. Egli mi ha educato «all’umanità di Gesù», paradigma di ogni vera umanità, iniziato «alla divinità di Cristo», paradigma di ogni vera divinità, e condotto, da vero apostolo dei tempi ultimi, fin quasi alle soglie del Mistero del Verbo Eterno e della Sua più grande e definitiva Epifania. 

Una volta Panunzio, che fra le altre sue qualità fu anche spirito allegro e giocoso, si divertì a trovare un posto per ciascuno dei suoi amici più intimi, me compreso, nella geografia dei tre mondi percorsi da Dante. Bontà sua, ci aveva collocati tutti in Paradiso. Per pudore e per modestia non incluse mai se stesso in questo gioco. Personalmente sono giunto alla conclusione che il posto d’onore che più gli compete sia quello del quarto Cielo governato dal Sole. Da lì, ne sono certo, nella calda e intensa luce dell’astro, assieme agli spiriti sapienti che egli tanto ammirò e amò in vita e che cercò di imitare in “virtute e canoscenza”, egli continua ad indicarci la strada maestra dello Spirito.


Aldo La Fata