Mar 22, 2024
Una dubbia narrazione durata 80 anni
Quest’anno molte città italiane celebrano la loro liberazione dalla tirannia nazi-fascista. La operazione ‘Husky”, iniziata con un’operazione anfibia e che avrebbe fatto scuola nelle successive fasi della Seconda Guerra, avviò la difficile campagna d’Italia e avrebbe consentito la successiva operazione ‘Shingle’ che consentì lo sbarco ad Anzio e Nettuno degli Alleati. Gli stessi, nei mesi successivi, avrebbero percorso la via Casilina con i soldati della 85° divisione di fanteria americana per entrare a Roma, attraverso Porta Maggiore. Quel popolo festante, che solo pochi anni prima aveva sostenuto o anche solo osservato passivamente la guerra predatrice dell’Italia fascista, presto si sarebbe schierato con il nuovo vincitore offrendo la disponibilità dell’Italia badogliana a dare un immediato contributo bellico agli Alleati e dichiarando, a guerra terminata, di essersi liberati con le proprie forze. Un modo italiano per sfilarsi dalla guerra, da qualsiasi guerra, lasciando che il Paese fosse solo il teatro di vicende belliche in cui il compito di sconfiggere la Germania nazista fosse riservato esclusivamente o quasi agli eserciti Alleati. A questa visione si opponevano altri italiani, per la maggior parte giovani di classi medio-alte, destinati a diventare l’asse portante del gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra, che combatterono sognando un sistema politico sociale di tipo sovietico: un epilogo di cui tutti ci saremmo pentiti amaramente. La mancanza di riconoscenza nei confronti degli Alleati che, ricordiamo, liberarono un intero continente da una dittatura nazista e fascista e che presto avrebbero contrastato l’avanzata di quella comunista, evidenzia una anomalia tutta italiana della storiografia. Gli italiani hanno preferito considerarsi come cobelligeranti e, finalmente, vincitori piuttosto che liberati. Il prezzo pagato per questa narrazione della storia, che consentiva di rimuovere la necessità di riparare ad una colpa collettiva, è stato la difficoltà incontrata ancora oggi nel ricostruire una nostra identità nazionale condivisa. La storiografia ha, cosi, alimentato un contesto divisivo e problematico, segnato da un uso di quella storia molto politico e poco culturale. Si è affermata una vaga epopea partigiana che avrebbe sostenuto un sistema di potere, una ideologia resistenziale, un socialismo sui generis. Anche se all’inizio i comunisti erano una minoranza dei combattenti – specie in Romagna – presto riuscirono efficacemente (grazie anche all’intelligenza politica di Togliatti) ad assumerne la leadership militare, politica ed ideologica. Una leadership non riconosciuta dagli Alleati, soprattutto dai britannici perché priva dei numeri che le circostanze avrebbero richiesto. Ben diverso l’atteggiamento degli Alleati nei confronti della resistenza del vicino Tito che poteva contare su 800mila partizans, all’inizio del 1945 (un numero pari a 52 divisioni). Coerentemente, 300mila furono i caduti, ricordati nella monumentalità voluta dalla Jugoslavia socialista degli anni ’50. Questo contraddice le accuse della Resistenza italiana nei confronti degli Alleati accusati di non averla abbastanza appoggiata e rifornita, a causa di una certa ostilità verso i partigiani dovuta alla preponderante influenza comunista all’interno del movimento resistenziale. Gli Alleati, infatti, aiutarono e rifornirono generosamente la Resistenza francese e del comunista Tito, perché attribuivano loro maggiori possibilità di successo a differenza degli italiani a cui ne venivano riconosciute molto poche. [1] In realtà, ci sono diverse considerazioni che dovrebbero indurci a un “ridimensionamento della concretezza di quei fatti e delle loro eventuali motivazioni”. Questo aiuterebbe ad una lettura critica di una storiografia prevalentemente politica, che sembrava vedere nei partigiani gli unici agenti della storia la cui lotta si imponeva come guerra di liberazione, risorgimentale e come guerra civile. Una visione priva di qualsiasi fondamento nella realtà dei fatti. Illuminanti le parole di S. Peli[2] quando afferma che la scarsità di uomini che uniscano in sé maturità politica, coraggio, preparazione militare e salde convinzioni ideali sarà uno dei problemi di più ardua soluzione per gli organizzatori della Resistenza. La resistenza non fu, infatti, una sollevazione popolare.
Secondo Gianni Oliva, nel suo saggio,[3] il numero più accreditato dalla storiografia è quello di 235.000 combattenti e secondo Virgilio Ilari[4] il movimento resistenziale coinvolse attivamente meno dell’1% degli italiani (una percentuale che scende di quasi la metà se si prendono in considerazione solo coloro che presero effettivamente parte ad azioni armate). Peraltro, una buona percentuale dei partigiani provenivano dai ranghi dei militari.[5] Ben altra considerazione avrebbero meritato gli 87.376 militari italiani che sono caduti per liberare l’Italia tra l’8 settembre ‘43 e l’8 maggio ‘45, chi in reparti regolari chi in formazioni partigiane, ma tutti, indistintamente, tenendo fede al proprio dovere.[6] In tale ottica, l’avanzata alleata sarebbe forse stata più lenta, se non fosse stata supportata e sostenuta, sia nelle retrovie sia in prima linea, dall’opera umile ma essenziale dei 200.000 uomini delle 8 Divisioni Ausiliarie.[7] A questi si aggiungono i circa 700.000 Internati, in gran parte del regio Esercito, che con il loro no pagarono pesantemente la fedeltà al giuramento prestato all’Italia. Anche il contributo di sangue degli Alleati, che si aggira intorno ai 350.000 uomini, durante la campagna d’Italia, supera il modesto contributo dei partigiani alla liberazione nazionale. Segnatamente, gli Stati Uniti da soli subirono 150,000 perdite (92,000 feriti e più di 60,000 fra caduti e dispersi) e altre 145.000 perdite furono subite dai paesi del Commonwealth britannico.[8] La mitizzazione dell’epopea resistenziale in Italia scimmiottava quella sovietica e jugoslava, benché non sostenuto dai numeri di questi ultimi, e ha mantenuto la medesima retorica fino ai giorni nostri. Si può almeno riconoscere alla retorica partigiana di essersi limitato al linguaggio politico divisivo con i roboanti comizi, senza ulteriori produzioni iconografiche. In Jugoslavia, invece, si raggiunse il parossismo degli anni ’60, quando migliaia di memoriali della Seconda Guerra Mondiale, furono costruiti nell’ex Jugoslavia. Sono stati commissionati dal presidente della Jugoslavia, Josip Broz Tito, da importanti architetti e scultori come Miodrag Živković, Voin Vakić, Iskra Grabul, Bogdan Bogdanović, Gradimir Medaković e Dusan Jamon, il favorito del capo dello stato come simbolo della fiducia e della forza della Repubblica socialista. Monumentale, il complesso commemorativo a Mostar del noto designer serbo Bogdan Bogdanović. Attraverso questo progetto, l’architetto belgradese si spinse fino a creare un intero complesso di necropoli, simile alle antiche rovine trovate in Medio Oriente o nei siti etruschi classici.[9]Giovanni Ramunno
[1]https://www.laterza.it/2021/04/25/roma-nel-1944-finalmente-libera-ma-un-po-ingrata-verso-i-liberatori/[2] S. Peli La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, 2004 [3] G. Oliva “I vinti e i liberati: 8 settembre 1943-25 aprile 1945 : storia di due anni,” Mondadori, 1994, p. 362 [4] V. Ilari Storia del servizio militare in Italia vol. 4, Rivista Militare https://issuu.com/rivista.militare1/docs/02_-_storia_del_servizio_militare_i , https://issuu.com/rivista.militare1/docs/03-storia_del_servizio_militare_in__2a10ba3dec0152 ; https://issuu.com/rivista.militare1/docs/04_-_storia_del_servizio_militare_i_2b32549ff693b9 https://issuu.com/rivista.militare1/docs/05_-_storia_del_servizio_militare_i ; https://issuu.com/rivista.militare1/docs/05_bis_-_storia_del_servizio_milita[5] Lo riconobbe qualcuno che non era certamente vicino alle F.A., Luigi Longo, vice comandante del Corpo Volontari della Libertà e futuro segretario del PCI, che in proposito scrisse: “Vi erano soldati che fuggivano verso la montagna guidati dai loro ufficiali. Fuggivano per un’ansia di ribellione, ma con senso di disciplina e organizzazione. E fuggivano recandosi appresso la propria arma”. [6] Ben 365 militari sono stati decorati, quasi tutti alla memoria, di medaglia d’oro al valor militare per le loro attività nella guerra di liberazione (di questi 229 operavano nelle formazioni partigiane e 136 in reparti regolari). [7] In queste troveremo delle unità partigiane sebbene afferma l’Anpi al termine della guerra “molti partigiani verranno allontanati dall’esercito.” Vedi: ANPI, “La Resistenza dei militari in Italia: i Gruppi di Combattimento” https://www.anpi.it/libri/la-resistenza-dei-militari-italia-i-gruppi-di-combattimento[8]https://www.britannica.com/topic/Italian-Campaign[9]https://www.spomenikdatabase.org/mostar
Giovanni Ramunno è nato a Treviso, Italia, Ha trascorso i suoi primi 6 anni a Washington D.C .Diplomato a Treviso, ha frequentato i corsi presso l’Accademia Militare ed è stato promosso ufficiale dell’Esercito italiano. Per trentacinque anni ha servito in Italia e all’estero come pilota di elicottero e addetto stampa. Ha operato con la NATO, UE e ONU in Bosnia, Croazia, FYROM, Kosovo, Montenegro, Iraq, Libano, Serbia.